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    René Guénon

    L’UOMO E IL SUO DIVENIRE SECONDO IL VEDANTA

     

     

     

     

    I. GENERALITÀ SUL VEDANTA

    II. DISTINZIONE FONDAMENTALE FRA IL SÉ E L’IO

    III. IL CENTRO VITALE DELL’ESSERE UMANO, DIMORA DI BRAHMA

    IV. PURUSHA E PRAKRITI

    V. PURUSHA INALTERATO DALLE MODIFICAZIONI INDIVIDUALI

    VI. I GRADI DELLA MANIFESTAZIONE INDIVIDUALE

    VII. BUDDHI O L’INTELLETTO SUPERIORE

    VIII. MANAS O IL SENSO INTERNO, LE DIECI FACOLTÀ ESTERNE DI SENSAZIONE E D’AZIONE

    IX. GLI INVOLUCRI DEL SÉ , I CINQUE VAYU O FUNZIONI VITALI

    X. UNITÀ E IDENTITÀ ESSENZIALI DEL SÉ IN TUTTI GLI STATI DELL’ESSERE

    XI. LE DIFFERENTI CONDIZIONI D’ATMA NELL’ESSERE UMANO

    XII. LO STATO DI VEGLIA O LA CONDIZIONE DI VAISHWANARA

    XIII. LO STATO DI SOGNO O LA CONDIZIONE DI TAIJASA

    XIV. LO STATO DI SONNO PROFONDO O LA CONDIZIONE DI PRAJNA

    XV. LO STATO INCONDIZIONATO D’ATMA

    XVI, RAPPRESENTAZIONE SIMBOLICA D’ATMA E DELLE SUE CONDIZIONI FIGURATA DAL MONOSILLABO SACRO OM

    XVII. L’EVOLUZIONE POSTUMA DELL’ESSERE UMANO

    XVIII. IL RIASSORBIMENTO DELLE FACOLTÀ INDIVIDUALI

    XIX. DIFFERENZA DELLE CONDIZIONI POSTUME SECONDO I GRADI DELLA CONOSCENZA

    XX. L’ARTERIA CORONALE E IL RAGGIO SOLARE

    XXI. IL VIAGGIO DIVINO DELL’ESSERE VERSO LA LIBERAZIONE

    XXII. LA LIBERAZIONE FINALE

    XXIII. VIDEHA MUKT1 E JIVAN MUKTI

    XXIV. LO STATO SPIRITUALE DELLO YOGI: L’«IDENTITÀ SUPREMA»

     

     

    Traduzione ricavata dal testo originale di:

    «L’Homme et son devenir selon le Vedanta»

    Les Editions Traditionnelles - Paris

     

    © 1965 - Edizioni Studi Tradizionali – Viale XXV Aprile - Torino

    Traduzione di Corrado Podd

     

    In copertina

    Particolare da una miniatura del XVI sec. raffigurante il mitologico Uccello Garuda, il simbolico veicolo del viaggio divino dell’essere.

     

     

     

     

    PREMESSA

     

    Parecchie volte, nelle nostre precedenti opere, abbiamo manifestato il proposito di scrivere una serie di studi nei quali ci fosse possibile, secondo i casi, sia esporre direttamente certi aspetti delle dottrine metafisiche dell’Oriente, sia adattare queste stesse nel modo più intelligente e più utile, ma sempre restando rigorosamente fedele al loro spirito. Il presente lavoro costituisce il primo di questi studi: vi prendiamo in esame come punto di vista centrale quello delle dottrine indù, per ragioni che già abbiamo avuto occasione di indicare, e più particolarmente quello del Vedanta, che è il ramo più puramente metafisico di tali dottrine; beninteso ciò non ci impedirà di fare, ogni qual volta se ne presenterà l’occasione, confronti e paragoni con altre teorie, qualunque ne sia la provenienza e specialmente ci riferiremo agli insegnamenti degli altri rami ortodossi della dottrina indù nella misura in cui vengono, su certi punti, a precisare e completare quelli del Vedanta. Sarebbe tanto poco fondato rimproverarci questo modo di procedere in quanto le nostre intenzioni non sono affatto quelle di uno storico; teniamo ancora espressamente precisare, a questo proposito che vogliamo fare opera di comprensione, non di erudizione, poiché è la verità delle idee che esclusivamente ci interessa. Se abbiamo ritenuto opportuno dare referenze precise, è stato per motivi che non hanno niente in comune con le preoccupazioni speciali degli orientalisti; abbiamo soltanto voluto dimostrare che non inventiamo, che le idee da noi esposte hanno un’origine tradizionale, e fornire nello stesso tempo il mezzo, a coloro che ne fossero capaci, di riferirsi ai testi nei quali potranno trovare complementari indicazioni, poiché si intende che non abbiamo la pretesa di fare un’esposizione assolutamente completa, nemmeno su un punto determinato della dottrina.

    In quanto ad offrire un’esposizione d’insieme, la cosa è del tutto impossibile: o sarebbe un lavoro interminabile, o bisognerebbe esporlo in forma tanto sintetica che riuscirebbe perfettamente incomprensibile per mentalità occidentali. Inoltre, sarebbe difficilissimo evitare, in un’opera di questo genere, l’apparenza di una sistemazione incompatibile con il carattere più essenziale delle dottrine metafisiche; senza dubbio sarebbe solo una apparenza, ma non eviterebbe per questo una causa di errori estremamente gravi, tanto più che gli Occidentali, per le loro abitudini mentali, sono sempre abituati a scorgere «sistemi» anche dove non ve ne sono. È molto importante non dare il minimo appiglio a queste ingiustificate assimilazioni, a cui sono particolarmente inclini gli orientalisti tedeschi: meglio sarebbe astenersi dall’esporre una dottrina piuttosto che contribuire a snaturarla, fosse pure per semplice inettitudine; ma fortunatamente esiste un mezzo per sfuggire a quest’inconveniente: è di trattare, in una stessa esposizione, un solo punto ed un aspetto più o meno definito della dottrina, salvo prendere poi altri punti e farne l’oggetto di altrettanti studi distinti. D’altronde, questi lavori non rischieranno mai di diventare quello che egli eruditi e gli «specialisti» chiamano «monografie», poiché i principi fondamentali non saranno mai perduti di vista ed i punti secondari stessi appariranno solo come applicazioni dirette o indirette di questi principi, da cui tutto deriva; nell’ordine metafisico, che si riferisce all’Universale, non può esservi il minimo posto per la «specializzazione».

    È facile ora comprendere perché facciamo oggetto del presente studio solamente quanto concerne la natura e la costituzione dell’essere umano: per rendere più chiaro quel che dobbiamo dirne, dovremo necessariamente considerare altri punti che, a prima vista, possono sembrare estranei all’argomento, mentre è sempre in rapporto ad esso che li prenderemo in esame. I principi hanno una portata che va immensamente oltre ogni possibile applicazione; non per questo è meno legittimo esporli, per quanto è possibile, relativamente a tale o tal’altra applicazione; è preferibile adottare questo procedimento, vantaggioso per più ragioni. D’altra parte, una questione qualsiasi può dirsi trattata metafisicamente solo quando è riattaccata ai principi; non bisogna mai dimenticarlo se si ha interesse per la vera metafisica e non per la «pseudo-metafisica» dei filosofi europei.

    Se abbiamo deciso di esporre in primo luogo gli argomenti relativi all’essere umano, non è perché abbiano, dal punto di vista puramente metafisico, una importanza eccezionale, poiché, essendo questo completamente libero da tutte le contingenze, il caso dell’uomo non è mai considerato un caso privilegiato; ma esordiamo in tal modo perché questi argomenti si sono già posti durante i nostri precedenti studi, che necessitavano, a questo proposito, un complemento che si troverà in questo. L’ordine che adotteremo per gli studi che seguiranno dipenderà ugualmente dalle circostanze e sarà, in larga misura, determinato da considerazioni d’opportunità; abbiamo reputato utile dirlo sin d’ora, perché non si scorga una specie di ordine gerarchico in riguardo all’impostazione degli argomenti ed alla loro dipendenza; significherebbe attribuirci un’intenzione che non abbiamo, ma purtroppo ben sappiamo come tali equivoci facilmente avvengano e perciò ci dedicheremo a prevenirli ogni qualvolta sarà nelle nostre possibilità.

    Vi è ancora un punto che troppo ci interessa per tacerlo in queste osservazioni preliminari, sul quale, tuttavia, pensavamo di esserci sufficientemente spiegati; ma ci siamo accorti che non tutti l’avevano ben capito, perciò dunque vi insistiamo ulteriormente. Questo punto è il seguente: la conoscenza vera che abbiamo esclusivamente in vista, non ha che pochissimi rapporti, dato che ne abbia, col sapere «profano»; gli studi che costituiscono quest’ultimo non sono a nessun titolo ed a nessun grado una preparazione, sia pure lontana, per avvicinare la «Scienza sacra», e qualche volta essi al contrario sono un ostacolo, per la deformazione mentale, spesso irrimediabile, che è la conseguenza la più ordinaria di una certa educazione. Per dottrine come quelle che esponiamo, uno studio cominciato «dall’esteriore» non può essere di nessun profitto; l’abbiamo già detto, non si tratta di storia e nemmeno di filologia o di letteratura, ed aggiungiamo ancora, rischiando di ripeterci in un modo che qualcuno potrà trovare forse fastidioso, che tanto meno si tratta di filosofia. Tutte queste cose, infatti, ugualmente appartengono a quel sapere che qualifichiamo «profano» od «esteriore», non per disprezzo, ma perché in realtà non è che questo; noi non abbiamo a preoccuparci di piacere agli uni o dispiacere agli altri, ma soltanto di esporre quello che è e di attribuire ad ogni cosa il nome ed il posto che normalmente le convengono. La «Scienza sacra» è stata messa odiosamente in ridicolo, nell’Occidente moderno, da impostori più o meno coscienti, ma non per questo bisogna astenersi dal parlarne o fingere, se non di negarla, perlomeno di ignorarla; al contrario, noi affermiamo decisamente, non soltanto che esiste, ma che abbiamo l’intenzione di occuparcene esclusivamente. Coloro che vorranno riferirsi a quello che altrove abbiamo detto sulle stravaganze degli occultisti e dei teosofisti, comprenderanno immediatamente che quanto consideriamo è tutt’altra cosa e che queste stesse persone sono ai nostri occhi semplici «profani», per di più «profani» che aggravano singolarmente loro caso quando vogliono darsi per quello che non sono; questa è una delle ragioni principali per cui giudichiamo necessario rilevare l’inanità delle loro pretese dottrine ogni qualvolta se ne presenti l’occasione.

    Quello che abbiamo detto deve anche far capire che le dottrine di cui ci proponiamo l’esposizione, per la loro stessa natura, si rifiutano ad ogni tentativo di «volgarizzazione»; sarebbe ridicolo di voler «mettere alla portata di tutti», come usualmente si dice alla nostra epoca, concezioni che debbono rivolgersi ad una élite, e cercare di farlo sarebbe il modo più sicuro per deformarle. Altrove abbiamo spiegato quello che intendiamo per élite intellettuale, quale sarà la sua funzione se riuscirà un giorno a costituirsi in Occidente, e come lo studio reale e profondo delle dottrine orientali sia indispensabile per prepararne la formazione. In vista di un simile lavoro, i cui risultati si faranno indubbiamente sentire solo a lunga scadenza, crediamo di dover esporre certe idee per coloro che sono capaci di assimilarle, senza mai fare ad esse subire quelle modificazioni e semplificazioni che sono la prerogativa dei «volgarizzatori» e che si opporrebbero direttamente allo scopo che ci proponiamo.. Infatti, non è alla dottrina di abbassarsi e di restringersi per il limitato intelletto del volgare; sono invece quelli che lo possono che debbono elevarsi alla comprensione della dottrina nella sua integrale purezza, ed è solo in tal modo che può formarsi una vera élite intellettuale. Fra quelli che ricevono uno stesso insegnamento, ognuno lo capisce e se lo assimila più o meno completamente, più o meno profondamente, secondo le proprie capacità intellettuali; così si opera naturalmente la selezione senza la quale non vi potrebbe esser vera gerarchia. Abbiamo già detto queste cose, ma era necessario ricordarle prima di intraprendere un’esposizione propriamente dottrinale; ed è tanto meno inutile ripeterle insistentemente quanto più esse sono estranee alla mentalità occidentale attuale.

     

    I. GENERALITÀ SUL VEDANTA

    Il Vedanta, contrariamente alle opinioni più generalmente in voga fra gli orientalisti, non è una filosofia, né una religione, né qualche cosa che partecipa più o meno dell’una e dell’altra. È un grave errore quello di voler considerare questo dottrina sotto tali aspetti e ci si condanna da principio a non comprenderla; è infatti mostrarsi completamente estraneo alla vera natura del pensiero orientale, i cui modi sono affatto diversi da quelli del pensiero occidentale, né si lasciano racchiudere negli stessi schemi. Abbiamo già spiegato in un precedente lavoro che la religione, se si vuol conservare a questa parola il suo senso proprio, è cosa del tutto occidentale; non si può adottare lo stesso vocabolo per dottrine orientali senza ampliarne abusivamente il significato, finché diventa del tutto impossibile poterne dare una definizione per quanto poco precisa. Riguardo alla filosofia, anche essa rappresenta un punto di vista esclusivamente occidentale, e d’altra parte molto più esteriore di quello religioso, dunque ancora più lontano da ciò di cui presentemente si tratta; come più sopra dicemmo, è un genere di conoscenza essenzialmente «profano» [Vi sarebbe da fare un’eccezione per un particolarissimo caso, quello della «filosofia ermetica»; si intende che non è questo significato, del resto quasi sconosciuto ai moderni, che abbiamo presentemente in vista]; anche quando non è puramente illusorio, e, soprattutto se consideriamo la filosofia quale è nei tempi moderni, non possiamo fare a meno di pensare che la sua assenza in una civiltà non è poi particolarmente deplorevole. In un recente libro, un orientalista affermava che «la filosofia è dovunque la filosofia», ciò che apre la porta a tutte le assimilazioni, comprese quelle contro cui egli stesso protestava molto giustamente del resto; ciò che noi precisamente contestiamo, è che vi sia dovunque della filosofia, e ci rifiutiamo di considerare «pensiero universale», secondo l’espressione dello stesso autore, ciò che, in realtà, è solo una modalità di pensiero estremamente speciale. Un altro storico delle dottrine orientali, pur riconoscendo in principio l’insufficienza e l’inesattezza delle classificazioni occidentali che si pretende imporre a tali dottrine, dichiarava che malgrado tutto non vedeva nessun mezzo per farne a meno, e ne faceva anche larghissimo uso come uno qualsiasi dei suoi predecessori; questa affermazione ci è sembrata tanto più strana in quanto, per quel che ci concerne, mai abbiamo sentito il minimo bisogno di adottare la terminologia filosofica, che, anche se non fosse mal applicata, come lo è sempre in simili casi, avrebbe ancora l’inconveniente di essere molto spiacevole ed inutilmente complicata. Ma non vogliamo entrare discussioni alle quali tutto ciò potrebbe dar luogo; teniamo soltanto a rilevare, con questi esempi, quanto sia difficile per alcuni sfuggire agli schemi «classici», dove l’educazione occidentale a racchiuso il loro pensiero fin dall’origine.

    Per ritornare al Vedanta, diremo che, in realtà, bisogna scorgervi una dottrina puramente metafisica, aperta su possibilità di concezioni veramente illimitate, e che, come tale, non potrebbe affatto racchiudersi nei limiti più o meno angusti di un qualunque sistema. V’è dunque sotto questo rapporto, ed anche senza spingersi più oltre, una differenza profonda ed irriducibile, una differenza di principio con tutto ciò che gli Europei designano col nome di filosofia. Infatti, l’ambizione riconosciuta di tutte le concezioni filosofiche, soprattutto per i moderni, che spingono all’estremo la tendenza individualista e la ricerca dell’originalità ad ogni costo che ne è la logica conseguenza, è precisamente di costituirsi in sistemi definiti, compiuti, vale a dire essenzialmente relativi e da ogni parte limitati; in fondo, un sistema non è altro che una concezione chiusa, i cui limiti più o meno angusti sono naturalmente determinati dall’«orizzonte mentale» del suo autore. Ora ogni genere di sistemazione è assolutamente incompatibile per la metafisica pura, al cui riguardo l’ordine individuale è veramente inesistente; essa è infatti interamente libera da ogni relatività, da tutte le contingenze filosofiche od altre, appunto perché la metafisica è essenzialmente la conoscenza dell’Universale, ed una tale conoscenza non potrebbe lasciarsi racchiudere in una qualche forma, per quanto vasta.

    Le diverse concezioni metafisiche e cosmologiche dell’India non sono, rigorosamente parlando, dottrine differenti, ma soltanto sviluppi, secondo certi punti di vista e direzioni varie, ma per nulla incompatibili, di una sola dottrina. Del resto, il vocabolo sanscrito darshana, che designa ognuna di queste concezioni, significa propriamente «veduta» o «punto di vista», poiché la radice verbale drish, da cui deriva, ha per senso principale quello di «vedere»; non può dunque affatto significare «sistema», e, se gli orientalisti attribuiscono al termine una tale accezione, è per effetto di quelle abitudini occidentali che li inducono ad ogni istante in false assimilazioni: vedendo dovunque la filosofia, è naturalissimo che essi vedano anche dovunque dei sistemi.

    La dottrina unica alla quale facciamo allusione costituisce essenzialmente il Veda, vale a dire la Scienza sacra e tradizionale per eccellenza, poiché tale è esattamente il senso proprio di questo vocabolo [La radice vid, da cui derivano Veda e vidya, significa nello stesso tempo «vedere» (in latino videre) e «sapere» (come in greco ): la vista è rilevata come il simbolo della conoscenza di cui è il principale strumento nell’ordine sensibile; questo simbolismo è trasporto fin nell’ordine intellettuale puro, dove la conoscenza è paragonata ad una «vista interiore»; ciò l’indica appunto l’uso di vocaboli come quello d’«intuizione», per esempio]: è il principio ed il fondamento comune di tutti i rami più o meno secondari e derivati, che sono quelle concezioni diverse di cui alcuni ne hanno fatto erroneamente altrettanti sistemi rivali e opposti. In realtà, queste concezioni, sempre che siano d’accordo con il loro principio, non possono evidentemente contraddirsi, ed al contrario non fanno che completarsi e chiarirsi a vicenda; ma non bisogna reputare questa affermazione l’espressione di un «sincretismo» più o meno artificiale e tardivo, poiché l’intera dottrina deve considerarsi contenuta sinteticamente nel Veda, fin dall’origine. La tradizione, nella sua integralità, forma un insieme perfettamente coerente, ciò che non significa sistematico; e, poiché tutti i punti di vista che comporta possono essere considerati tanto simultaneamente quanto successivamente, è senza vero interesse ricercare l’ordine storico nel quale si sono potuti sviluppare, rendendosi espliciti, anche ammesso che l’esistenza di una trasmissione orale, che forse si è perpetuata durante un periodo di indeterminata lunghezza, non renda perfettamente illusoria la soluzione di una tale questione. Se l’esposizione può, secondo le epoche, modificarsi fino ad un certo punto nella sua forma esteriore per adattarsi alle circostanze, il fondo resta sempre rigorosamente lo stesso, e queste modificazioni esteriori non alterano, né cambiano affatto l’essenza della dottrina.

    L’accordo di una concezione di qualunque ordine con il principio fondamentale della tradizione è la condizione necessaria e sufficiente per la sua ortodossia, la quale non deve affatto essere concepita in modo religioso; bisogna insistere su questo punto per evitare ogni errore di interpretazione, poiché generalmente in Occidente la ortodossia è ritenuta possibile solo in modo religioso. Per la metafisica e tutto ciò che ne deriva più o meno direttamente, l’eterodossia di una concezione è, in fondo, la sua falsità, risultante dal suo disaccordo con i principi essenziali; giacché questi sono contenuti nel Veda, ne consegue che l’accordo col Veda è l’unico criterio dell’ortodossia. L’eterodossia comincia là dove comincia la contraddizione volontaria o involontaria col Veda; è una deviazione, un’alterazione più o meno profonda della dottrina, deviazione che, d’altronde, si produce generalmente solo in alcune scuole molto ristrette, e che può vertere semplicemente su punti particolari, qualche volta di molto secondaria importanza, tanto più che la potenza inerente alla tradizione ha per effetto di limitare la portata degli errori individuali, di eliminare quelli che vanno oltre certi limiti, e ad ogni modo, di impedirli di diffondersi e di acquistare una vera autorità. Anche là dove una scuola parzialmente eterodossa è diventata, in una certa misura, rappresentativa di un darshana, come la scuola atomista per il Vaisheshika ciò non altera la legittimità di questo darshana in se stesso, ed è sufficiente richiamarlo a quello che ha di veramente essenziale per farlo entrare nei quadri dell’ortodossia. A questo riguardo, non possiamo far di meglio che citare, a titolo di indicazione generale, questo passaggio del Sankhya-Pravacana-Bhasya di Vijnana-Bhikshu: «Nella dottrina di Kanada (il Vaisheshika) e nel Sankhya (di Kapila), la parte contraria al Veda deve essere rigettata da quelli che rigorosamente aderiscono alla tradizione ortodossa; nella dottrina di Jaimini ed in quella di Vyasa (le due Mimansa), niente è in disaccordo con le Scritture (considerate come la base di questa tradizione)».

    Il nome Mimansa, derivato dalla radice verbale man, «pensare», nella sua forma iterativa, indica lo studio riflessivo della Scienza sacra: è il frutto intellettuale della meditazione del Veda. La prima Mimansa (Purva Mimansa) è attribuita a Jaimini; ma dobbiamo ricordare, a questo proposito, che i nomi che si trovano così legati alla formulazione dei diversi darshana non possono essere affatto attribuiti a precise individualità: essi sono usati simbolicamente per designare veri «aggregati intellettuali», costituiti in realtà da tutti coloro che si dedicarono ad uno stesso studio per un periodo la cui durata non è meno indeterminata della sua origine. La prima Mimansa è chiamata anche Karma-Mimansa o Mimansa pratica, concerne cioè gli atti e più particolarmente il modo di compiere i riti; la parola karma, infatti, ha un duplice significato: in senso generale, è l’azione in tutte le sue forme; nel senso speciale e tecnico, è l’azione rituale, quale è prescritta dal Veda. Questa Mimansa pratica ha per scopo, come lo dice il commentatore Somanatha, di «determinare in un modo esatto e preciso il senso delle Scritture», soprattutto per i precetti che racchiudono e non per la conoscenza pura o jnana, che spesso è messa in opposizione con karma: in ciò consiste precisamente la distinzione fra le due Mimansa.

    La seconda Mimansa (Uttara-Mimansa) è attribuita a Vyasa, vale dire all’«entità collettiva» che ordinò e definitivamente stabilì i testi tradizionali costituenti il Veda stesso; questa attribuzione è particolarmente significativa, poiché è facile scorgere che qui si tratta non di un personaggio storico o leggendario, ma di una vera «funzione intellettuale», che si potrebbe anche definire una funzione permanente, poiché Vyasa è designato come uno dei sette Chirajivi, letteralmente «esseri dotati di longevità», la cui esistenza non è affatto limitata ad una determinata epoca [Si trova qualcosa di simile in altre tradizioni: così, nel Taoismo, si parla di otto «Immortali»; altrove, è Melki-Tsedeq «senza padre, né madre e senza genealogia, la cui vita non ha né fine né principio» (San Paolo, Epistola agli Ebrei, VII, 3); ed indubbiamente sarebbe facile trovare ancora altri avvicinamenti dello stesso genere]. Per caratterizzare la seconda Mimansa in rapporto alla prima, la si può considerare come la Mimansa dell’ordine puramente intellettuale e contemplativo; non possiamo chiamarla Mimansa teorica, in simmetria con quella pratica, poiché questa denominazione si presterebbe ad un equivoco. Infatti se la parola «teoria» etimologicamente è sinonimo di contemplazione, non è men vero che, nel comune linguaggio, ha un’accezione molto più limitata; ora, in una dottrina completa dal punto di vista metafisico, la teoria, intesa tanto ordinariamente, non basta a se stessa, ma deve essere sempre accompagnata seguita da una corrispondente «realizzazione», di cui in ultima analisi ne è l’indispensabile base, ed in vista della quale essa è tutta ordinata, come il mezzo in vista del fine.

    La seconda Mimansa è denominata anche Brahma-Mimansa e concerne essenzialmente e direttamente la «Conoscenza Divina» (Brahma-Vidya); essa costituisce, propriamente parlando, il Vedanta, ossia, secondo il significato etimologico della parola, la «fine del Veda», e si basa principalmente sull’insegnamento contenuto nelle Upanishad. L’espressione «fine del Veda» deve essere intesa nel doppio senso di conclusione e di scopo; infatti, da un lato, le Upanishad formano l’ultima parte dei testi vedici, e, dall’altro, quanto vi è insegnato, perlomeno nella misura in cui può esserlo, è lo scopo ultimo e supremo dell’intera conoscenza tradizionale, liberata da tutte le applicazioni particolari e contingenti alle quali può dar luogo in diversi ordini: cioè, in altri termini, col Vedanta siamo nel dominio della metafisica pura. Le Upanishad, facendo parte integrante del Veda, sono una delle basi stesse della tradizione ortodossa, ma ciò non ha impedito a certi orientalisti, come Max Muller, pretendere scoprirvi «i germi del Buddhismo», vale dire dell’eterodossia, poiché del Buddhismo gli erano note sono le forme e le interpretazioni le più eterodosse. Una tale affermazione è manifestamente una contraddizione nei termini, e sarebbe indubbiamente difficile poter spingere l’incomprensione più lungi. Non sarà mai troppo insistere sul fatto che le Upanishad rappresentano qui la tradizione primordiale e fondamentale, e che, conseguentemente, costituiscono il Vedanta stesso nella sua essenza; risulta da questo, che, in caso di dubbio sull’interpretazione della dottrina, è sempre all’autorità delle Upanishad che bisognerà riferirsi come ultima competenza. I principali insegnamenti del Vedanta, tali quali si deducono espressamente dalle Upanishad, sono stati coordinati e sinteticamente formulati in una collezione di aforismi col nome di Brahma-Sutra e di Shariraka-Mimansa [La parola Shariraka è stata interpretata da Ramanuja nel suo commento (Shri-Bhashya) sui Brahma-Sutra, 1° Adhyaya, 1° Pada, sutra 13, come riferentesi al «Sé Supremo» (Paramatma), che in qualche modo è «incorporato» (sharira) in ogni cosa]; l’autore di questi aforismi, chiamato Badarayana e Krishna-Dwaipayana, è identificato a Vyasa. È necessario aggiungere che i Brahma-Sutra appartengono alla classe degli scritti tradizionali chiamata Smriti, mentre le Upanishad, come tutti gli altri testi vedici, fanno parte della Shruti; ora l’autorità della Smriti deriva dalla Shruti sulla quale si fonda. La Shruti non è una «rivelazione» nel senso religioso ed occidentale, come pretenderebbe la maggior parte degli orientalisti, che, anche qui, confondono i punti di vista più differenti; ma è il frutto di una ispirazione diretta, in modo da possedere per sé stessa la sua propria autorità. «La Shruti - dice Shankaracarya - serve di percezione diretta (nell’ordine della conoscenza trascendente), poiché, per essere un’autorità, è necessariamente indipendente da tutt’altra autorità; la Smriti rappresenta una parte analoga a quella dell’induzione, poiché anch’essa fonda la sua autorità su un autorità altra che se stessa» [La percezione (pratyaksha) e l’induzione o l’inferenza (anumana) sono, secondo la logica indù, i due «mezzi di prova» (pramana) che possono essere usati legittimamente nel dominio della conoscenza sensibile]. Ma, perché non si faccia confusione sul senso dell’indicata analogia tra la conoscenza trascendente e quella sensibile, bisogna aggiungere che, come ogni vera analogia, questa dev’essere intesa in senso inverso [Nella tradizione ermetica, il principio dell’analogia è espresso da questa frase della Tavola Smeraldina: «Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso»; ma, per comprendere questa formula ed applicarla correttamente, bisogna riferirla al simbolo del «Sigillo di Salomone», formato da due triangoli disposti in senso inverso l’uno all’altro]: mentre l’induzione s’innalza al di sopra della percezione sensibile e permette di trasporsi ad un grado superiore, al contrario la percezione diretta o l’ispirazione, nell’ordine trascendente, raggiunge da sola il principio stesso, vale a dire ciò che vi è di più elevato e da cui in seguito bisogna soltanto dedurre le conseguenze e le diverse applicazioni. La distinzione fra Shruti e Smriti equivale in fondo a quella dell’intuizione intellettuale immediata e della conoscenza riflessa; se la prima è designata con un nome il cui senso originario è «audizione», è appunto precisamente per far notare il suo carattere intuitivo, ed anche perché il suono ha, secondo la dottrina cosmologica indù, il primo posto fra le qualità sensibili. Per la Smriti, il senso originario del suo nome è «memoria»; infatti la memoria, essendo un semplice riflesso della percezione, può significare, per estensione, tutto quello che presenta il carattere di una conoscenza riflessa o discorsiva, cioè indiretta; se la conoscenza è simbolizzata dalla luce come lo è il più abitualmente, l’intelligenza pura e la memoria, od anche la facoltà intuitiva e la facoltà discorsiva, potranno essere rappresentate rispettivamente dal sole e della luna; un tale simbolismo, sul quale non possiamo soffermarci, è d’altronde suscettibile di applicazioni multiple [Tracce di un tale simbolismo si possono riscontrare perfino nel linguaggio: non è senza uno scopo che una stessa radice man o men è usata, in lingue diverse, per formare numerose parole che contemporaneamente designano la luna, la memoria, il «mentale», cioè il pensiero discorsivo, e l’uomo stesso in quanto essere specificamente «razionale»].

    I Brahma-Sutra, il cui testo è estremamente conciso, hanno dato luogo a numerosi commenti, ed i più importanti sono quelli di Shankaracharya e di Ramanuja; questi commenti sono entrambi rigorosamente ortodossi, perciò non bisogna esagerare la portata delle loro divergenze apparenti, che, in fondo, sono piuttosto semplici differenze di adattazione. È vero che ogni scuola è incline molto naturalmente a pensare e ad affermare che il proprio punto di vista è il più degno di attenzione e che, senza escludere gli altri, deve prevalere su di essi; ma, per risolvere imparzialmente la questione, è sufficiente esaminare questi punti di vista in se stessi e riconoscere fin dove si estende l’orizzonte che ognuno di essi permette di abbracciare; si intende, d’altronde, che nessuna scuola può pretendere di rappresentare la dottrina in modo totale ed esclusivo. Ora è certissimo che il punto di vista di Shankaracharya è il più profondo e si spinge più lungi di quello di Ramanuja; del resto lo si può fin d’ora prevedere, notando che il primo è di tendenza shivaista, mentre il secondo è nettamente vishnuista. Una singolare discussione è stata prospettata dal Thibaut, che ha tradotto in inglese i due commentari: egli pretende che il commento di Ramanuja è più fedele all’insegnamento dei Brahma-Sutra, ma riconosce nello stesso tempo che quello di Shankaracharya è più conforme allo spirito delle Upanishad. Per poter sostenere tale opinione, bisogna evidentemente ammettere delle differenze dottrinali fra le Upanishad ed i Brahma-Sutra; ma, anche se le cose andassero effettivamente in tal modo, sarebbe l’autorità dell’Upanishad che dovrebbe ottenere il sopravvento, come l’abbiamo spiegato precedentemente, e la superiorità di Shankaracharya si troverebbe stabilita, quantunque ciò non sia probabilmente l’intenzione del Thibaut, per il quale la questione della verità intrinseca delle idee sembra non doversi nemmeno porre. In realtà, i Brahma-Sutra, fondandosi direttamente ed esclusivamente sulle Upanishad, non possono affatto allontanarsene; la loro brevità, rendendoli alquanto oscuri, allorché vengono considerati isolatamente da ogni commento, può solo scusare quelli che credono trovarvi altra cosa che non sia un’interpretazione autorizzata e competente della dottrina tradizionale. Così, la discussione è realmente senza scopo; tutto ciò che possiamo rilevare, è la constatazione che Shankaracharya ha dedotto e sviluppato più completamente ciò che essenzialmente è contenuto nelle Upanishad; la sua autorità può essere contestata solo da chi ignora il vero spirito della tradizione ortodossa indù, e la cui opinione, per conseguenza, non potrebbe avere il minimo valore ai nostri occhi; dunque, seguiremo, generalmente, il suo commento a preferenza di quello di altri.

    Per completare queste osservazioni preliminari, dobbiamo ancora rilevare, quantunque l’abbiamo già altrove spiegato, l’inesattezza di attribuire all’insegnamento delle Upanishad, come certuni l’hanno fatto, la denominazione di «Brahmanesimo esoterico». L’improprietà di questa espressione proviene soprattutto dacché la parola «esoterismo» è un comparativo ed il suo uso suppone necessariamente l’esistenza correlativa di un «exoterismo»; ora una tale divisione non può riguardare il caso considerato. L’exoterismo e l’esoterismo, rilevati non come due dottrine distinte e più o meno opposte, ciò che sarebbe completamente erroneo, ma come le due facce di una sola dottrina, sono esistiti in certe scuole dell’antichità greca; li si ritrova anche molto nettamente nell’Islamismo; ma è differente per le dottrine più orientali. Per queste ultime, si potrebbe solamente parlare di un «esoterismo naturale», che inevitabilmente esiste in ogni dottrina e soprattutto nell’ordine metafisico, dove è necessario sempre riservare un posto all’inesprimibile, che è la cosa più essenziale, poiché le parole e i simboli non hanno altro scopo che aiutare a concepirlo, fornendo quegli «appoggi» per un lavoro strettamente personale. Perciò, la distinzione fra exoterismo ed esoterismo non sarebbe che quella esistente fra la «lettera» e lo «spirito»; la si potrebbe anche riferire alla pluralità dei sensi più o meno profondi che presentano i testi tradizionali o, se si preferisce, le Sacre Scritture di tutti popoli. D’altronde, è naturale che lo stesso insegnamento dottrinale non può essere assimilato in uno stesso grado da tutti quelli che lo ricevono; tra questi vi è chi, in un certo senso, approfondisce l’esoterismo, mentre altri si contentano dell’exoterismo, poiché il loro orizzonte intellettuale è più limitato; ma non la pensano così coloro che parlano di «Brahmanesimo esoterico». In realtà, nel Brahmanesimo, l’insegnamento è accessibile, nella sua integralità, a tutti coloro che sono intellettualmente «qualificati» (adhikari), vale a dire capaci di ricavarne un beneficio effettivo; se vi sono dottrine riservate a una élite, è perché non potrebbe essere altrimenti, là dove l’insegnamento è impartito con discernimento e secondo le capacità reali di ciascuno. Se l’insegnamento tradizionale non è propriamente esoterico, nel senso speciale della parola, è veramente «iniziatico» e differisce profondamente, in tutte le sue modalità, dall’istruzione «profana», sul valore della quale gli Occidentali singolarmente si illudono; si tratta di ciò che abbiamo detto parlando della «Scienza sacra» e dell’impossibilità a «volgarizzarla».

    Quest’ultima osservazione ne richiama un’altra: in Oriente, le dottrine tradizionali hanno sempre, per modalità di regolare trasmissione, l’insegnamento orale, anche quando fossero state ordinate in testi scritti; ragioni molto profonde vogliono questo, poiché non debbono essere trasmesse soltanto semplici parole, ma dev’essere soprattutto assicurata l’effettiva partecipazione alla tradizione. In queste condizioni, non ha proprio senso dire, come Max Muller ed altri orientalisti, che la parola Upanishad indica la conoscenza ottenuta «sedendosi ai piedi di un precettore»; questa denominazione, se tale ne fosse il senso, si potrebbe riferire indistintamente a tutte le parti del Veda; d’altronde questa interpretazione non è mai stata proposta né ammessa da nessun Indù competente. In realtà, il nome delle Upanishad indica che esse sono destinate a distruggere l’ignoranza, fornendo quei mezzi atti ad avvicinare la Conoscenza suprema; se si tratta solo di avvicinarla, è per la rigorosa incomunicabilità della sua essenza, perché non la si può altrimenti raggiungere che per se stessi.

    Un’altra espressione ancora più disgraziata di «Brahmanesimo esoterico», è quella di «teosofia brahmanica», usata dall’Oltramare; del resto questi confessa che l’ha adottata con qualche esitazione, perché sembra «legittimare le pretese dei teosofi occidentali» che invocano la testimonianza dell’India, pretesa che riconosce infondate. Certamente bisogna evitare quello che può generare le più spiacevoli confusioni, ma vi sono ancora delle ragioni ben più gravi e decisive che non permettono di accettare la denominazione proposta. Se i pretesi teosofi, di cui parla l’Oltramare, ignorano quasi generalmente le dottrine Indù, dopo averne preso in prestito parole di cui si servono a casaccio, essi si riattaccano men che mai alla vera teosofia, anche occidentale: perciò abbiamo avuto molta cura di distinguere «teosofia» e «teosofismo». Ma, mettendo da parte il teosofismo, aggiungeremo che nessuna dottrina indù, od anche più generalmente nessuna dottrina orientale, ha con la teosofia tali punti comuni perché le si possa attribuire lo stesso nome: ciò risulta immediatamente dal fatto che questo vocabolo indica esclusivamente concezioni di ispirazioni mistiche, dunque religiose ed anche specificamente cristiane. La teosofia è cosa propriamente tutta occidentale; perché voler attribuire questo stesso nome a dottrine a cui non si adatta ed alle quali non conviene meglio delle classificazioni dei sistemi filosofici occidentali? Ancora una volta, non si tratta di religione, e quindi nemmeno di teologia e di teosofia; queste due parole, d’altronde, erano quasi sinonimi originariamente, benché, per ragioni puramente storiche, abbiano poi preso accezioni molto differenti [Una simile annotazione potrebbe essere fatta per le parole «astrologia» ed «astronomia», che originariamente erano sinonimi e di cui ognuna, per i Greci, indicava contemporaneamente quello che l’una e l’altra hanno poi significato separatamente]. Si obbietterà forse che noi stessi abbiamo usato poc’anzi l’espressione «Conoscenza Divina», che, insomma, è l’equivalente significato primitivo delle parole «teosofia» e «teologia»; ciò è infatti vero, ma non possiamo considerare queste ultime solo tenendo conto della loro etimologia, poiché sono di quelle per le quali è diventato completamente impossibile astrarre dai cambiamenti di senso che un uso troppo prolungato ha fatto loro subire. Inoltre, riconosciamo molto volentieri che l’espressione «Conoscenza Divina» non è perfettamente adeguata; ma non ne abbiamo migliori a nostra disposizione, per l’insufficienza delle lingue europee ad esprimere idee puramente metafisiche; d’altronde non stimiamo che vi possano essere inconvenienti seri nell’uso di questa espressione, quando si ha l’accuratezza di prevenire che non bisogna soffermarsi sul carattere religioso che avrebbe quasi inevitabilmente se si riferisse a concezioni occidentali. Malgrado ciò potrebbe ancora sussistere un equivoco, poiché il termine sanscrito che si può tradurre il meno inesattamente per «Dio» non è Brahma, ma Ishwara; solamente, l’uso dell’aggettivo «divino», anche nel linguaggio ordinario, è meno stretto, più vago forse, perciò si presta meglio del sostantivo, da cui deriva, per una trasposizione come quella da noi qui usata. Bisogna far notare che le parole «teologia» e «teosofia», anche nella loro accezione etimologica ed al di fuori di ogni punto di vista religioso, non potrebbero tradursi in sanscrito che con la parola Ishwara-vidya; al contrario, quello che in un certo qual modo vogliamo esprimere per «Conoscenza Divina», quando si tratta del Vedanta, è Brahma-vidya poiché il punto di vista della metafisica pura implica essenzialmente la considerazione di Brahma o del Principio Supremo, di cui Ishwara o la «Personalità Divina» non è che una determinazione come principio della manifestazione universale ed in rapporto a questa. La considerazione di Ishwara è già dunque un punto di vista relativo: è la più alta relatività, la prima di tutte le determinazioni, ma non è men vero che esso è «qualificato» (saguna) e «concepito distintivamente» (savishesha), mentre Brahma è «non-qualificato» (nirguna), «di là da tutte le distinzioni» (nirvishesha), assolutamente incondizionato; e l’intera manifestazione universale è rigorosamente nulla dinanzi alla Sua Infinità. Metafisicamente, la manifestazione non può essere considerata che nella sua dipendenza riguardo al Principio Supremo, ed a titolo di semplice «appoggio» per elevarsi alla Conoscenza trascendente, o ancora, se si prendono le cose in senso inverso, a titolo d’applicazione della Verità principiale; in ogni caso, altro non bisogna scorgere, in ciò che vi si riferisce, se non una specie d’«illustrazione», destinata a rendere più facile la comprensione del «non-manifestato», oggetto essenziale della metafisica, per così permettere, come lo dicemmo interpretando la denominazione delle Upanishad, di avvicinare la Conoscenza per eccellenza [Per dettagli maggiori su tutte le considerazioni preliminari che abbiamo dovuto limitarci ad indicare molto sommariamente in questo capitolo, non possiamo fare di meglio che rinviare il lettore alla nostra Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, nella quale ci siamo proposti di trattare precisamente questi argomenti in modo più particolare].

     

    II. DISTINZIONE FONDAMENTALE FRA IL “SÈ” E L’“IO”

    Per comprendere perfettamente la dottrina del Vedanta, per ciò che concerne l’essere umano, è soprattutto necessario distinguere, il più nettamente possibile, e fondamentalmente, il «Sé», che è il principio stesso dell’essere, dall’«io» individuale. È quasi superfluo dichiarare espressamente che l’uso del termine «Sé» non implica per noi una comunanza di interpretazione con certe scuole che hanno adoperato questa parola e che hanno presentato sotto una terminologia orientale, il più spesso incompresa, semplici concezioni del tutto occidentali e d’altronde eminentemente fantastiche; alludiamo non solamente al teosofismo, ma anche ad altre scuole pseudo-orientali, che hanno interamente snaturato il Vedanta col pretesto di adattarlo alla mentalità occidentale e sulle quali abbiamo già avuto occasione di spiegarci. L’abuso di una parola non è, per noi, una ragione sufficiente perché si debba rinunciare a servirsene, a meno che non si trovi il mezzo di sostituirla con altra che sia altrettanto adatta per quello che si vuole esprimere, ma ciò non torna al caso nostro; d’altronde, se volessimo essere troppo rigorosi, finiremmo senza dubbio per avere solo pochissime parole a nostra disposizione, poiché difficilmente se ne trovano che non siano state più o meno abusivamente usate da qualche filosofo. Gli unici vocaboli che abbiamo intenzione di mettere da parte sono quelli espressamente creati per concezioni con le quali quelle che noi esponiamo non hanno niente in comune: per esempio, le denominazioni dei diversi generi di sistemi filosofici, ed altresì i termini che appartengono propriamente al vocabolario degli occultisti e degli altri «neospiritualisti»; ma, per quelle parole che questi ultimi hanno preso in prestito a dottrine anteriori, che hanno l’abitudine di plagiare sfrontatamente, senza capirle, non possiamo evidentemente avere scrupoli a farle nostre, restituendo quel significato che loro conviene normalmente.

    Invece dei termini «Sé» ed «io», possiamo anche usare quelli di «personalità» e di «individualità», con una riserva tuttavia, poiché il «Sé», come spiegheremo più avanti, può essere qualche cosa più della personalità. I teosofisti, che sembrano soddisfatti quando possano complicare la loro terminologia, attribuiscono alla personalità ed all’individualità un senso esattamente inverso di quello che correttamente debbono significare: essi identificano la prima all’«io» e la seconda al «Sé». Al contrario, prima di loro, anche in Occidente, ogni qual volta una qualsiasi distinzione è stata fatta fra queste due parole, la personalità è sempre stata considerata superiore all’individualità: in tal modo noi scorgiamo il loro rapporto normale che è vantaggioso conservare. La filosofia scolastica, particolarmente, non ha ignorato questa distinzione, ma non sembra vi abbia dato il suo pieno valore metafisico, né abbia dedotto le profonde conseguenze che vi sono implicite; ciò d’altronde accade frequentemente, anche quando essa presenta le più notevoli similitudini con certe parti delle dottrine orientali. In tutti i casi, la personalità, intesa metafisicamente, niente ha in comune con quello che filosofi moderni chiamano così spesso la «persona umana», che in realtà è l’individualità pura e semplice; del resto questa soltanto, e non la personalità, può essere propriamente chiamato umana. In modo generale, sembra che gli Occidentali, anche quando vogliono spingersi più oltre nelle loro concezioni di quanto non lo faccia la maggioranza, attribuiscono alla personalità quello che in verità è soltanto la parte superiore dell’individualità, od una semplice sua estensione [Léon Daudet, in due sue opere (L’Hérédo e Le Monde des Images), ha distinto nell’essere umano ciò che chiama il «sé» e l’«io», ma, per noi, entrambi fanno ugualmente parte dell’individualità, e tutto ciò cade nel dominio della psicologia, che, per contro, mai può raggiungere la personalità; questa distinzione è tuttavia una specie di notevole presentimento, per un autore che non ha la pretesa di essere un metafisico]; in tali condizioni, tutto ciò che riguarda l’ordine metafisico puro resta necessariamente al di fuori della loro comprensione.

    Il «Sé» è il principio trascendente e permanente di cui l’essere manifestato, l’essere umano per esempio, non è che una modificazione transitoria e contingente, modificazione che non potrebbe d’altronde affatto alterare il principio, come spiegheremo più ampiamente in seguito. Il «Sé», come tale, non è mai individualizzato, né può esserlo, poiché, dovendo sempre essere considerato nell’aspetto dell’eternità e dell’immutabilità, che sono gli attributi necessari dell’Essere puro, non è evidentemente suscettibile di alcuna particolarizzazione, che lo farebbe essere «altro che sé stesso». Immutabile nella sua propria natura, sviluppa semplicemente le possibilità indefinite che in sé comporta, per mezzo del passaggio relativo della potenza all’atto, attraverso un’indefinità di gradi, senza che la sua essenziale permanenza ne sia modificata, precisamente perché questo passaggio non è che relativo, e perché questo sviluppo è uno, propriamente parlando, solo considerandolo dal lato della manifestazione, fuori della quale non può essere questione di una qualsiasi successione, ma semplicemente di una perfetta simultaneità, di modo che anche quello che è virtuale sotto un certo rapporto non è meno realizzato nell’«eterno presente». Quanto alla manifestazione, si può dire che il «Sé» sviluppa le sue possibilità in tutte le modalità di realizzazione, in moltitudine indefinita, che sono, per l’essere integrale, altrettanti stati differenti, stati di cui uno solo, sottomesso a condizioni d’esistenza specialissime che lo definiscono, costituisce la parte o piuttosto la particolare determinazione di quest’essere che è l’individualità umana. Il «Sé» è così il principio per il quale esistono, ognuno nel suo proprio dominio, tutti gli stati dell’essere; non soltanto gli stati manifestati, di cui abbiamo già parlato, individuali, come lo stato umano, o sopra-individuali, ma anche, quantunque allora la parola «esistere» divenga impropria, lo stato non-manifestato, comprendente le possibilità che non sono suscettibili di alcuna manifestazione, nello stesso tempo che le possibilità di manifestazione stesse in modo principiale; ma questo «Sé» non esiste che per se stesso, non avendo, né potendo avere, nell’unità totale ed indivisibile della sua natura intima, alcun principio che ad esso sia esteriore [Abbiamo intenzione di esporre più completamente in altri studi la teoria metafisica degli stati multipli dell’essere; ci limitiamo per ora ad indicare ciò che è indispensabile per la comprensione di quanto concerne la costituzione dell’essere umano].

    Il «Sé», considerato in rapporto ad un essere, come abbiamo fatto, è propriamente la personalità; si potrebbe, è vero, restringere l’uso di quest’ultimo termine al «Sé» come principio degli stati manifestati, nello stesso modo che la «Personalità Divina», Ishwara, è il principio della manifestazione universale; ma lo si può anche estendere analogicamente al «Sé» come principio di tutti gli stati dell’essere, manifestati e non-manifestati. Questa personalità è una determinazione immediata, primordiale e non particolarizzata, del principio chiamato in sanscrito Atma o Paramatma, e che possiamo designare, in mancanza di una parola che meglio si addica, come lo «Spirito Universale», ma, si intende, a condizione di non scorgere nell’uso del termine «spirito» niente che possa ricordare le concezioni filosofiche occidentali, e, specialmente, di non farne un correlativo di «materia», come quasi abitualmente avviene per i moderni, che, a tale riguardo, anche inconsciamente, subiscono l’influenza del dualismo cartesiano [Teologicamente, quando si dice che «Dio è puro spirito», è verosimile che ciò non deve nemmeno intendersi nel senso dello «spirito» che si oppone alla «materia», per cui questi due termini debbono comprendersi relativamente l’uno all’altro, poiché si giungerebbe ad una specie di concezione «demiurgica», più o meno prossima a quella attribuita al Manicheismo; non è men vero che una tale espressione è di quelle che possono facilmente dare luogo a false interpretazioni, tendendo a sostituire «un essere» all’Essere puro]. La vera metafisica, diciamolo nuovamente a proposito, va molto oltre tutte le opposizioni di cui quella di «spiritualismo» e di «materialismo» ce ne offre il tipo, né si preoccupa delle questioni più o meno speciali, e spesso completamente artificiali, che sono prodotte da simili opposizioni.

    Atma penetra tutte le cose, che sono le sue modificazioni accidentali, e che, secondo l’espressione di Ramanuja, «costituiscono in qualche modo il suo corpo (questa parola deve essere intesa in senso puramente analogico), siano esse d’altronde di natura intelligente o non-intelligente», vale dire, secondo le concezioni occidentali, «spirituali» o «materiali», poiché, esprimendo questo solo una diversità di condizioni nella manifestazione, non comporta nessuna differenza per il principio incondizionato e non-manifestato. Questo, infatti, è il «Supremo Sé» (la traduzione letterale di Paramatma) di tutto ciò che esiste, in qualsiasi modo; ed è sempre «lo stesso», tanto attraverso la molteplicità indefinita dei gradi dell’Esistenza, intesa in senso universale, quanto di là dall’Esistenza stessa, vale a dire nella non-manifestazione principiale.

    Il «Sé», anche per un essere qualsiasi, è identico in realtà ad Atma, poiché è essenzialmente oltre tutte le distinzioni e particolarizzazioni; perciò, in sanscrito, la stessa parola atman, nei casi diversi dal nominativo, prende il posto del pronome riflessivo «se stesso». Il «Sé» non è dunque punto veramente distinto da Atma, tranne se lo si considera particolarmente e «distintivamente», in rapporto ad un essere, ed anche, più precisamente, in rapporto ad un certo stato definito di quest’essere, tale lo stato umano, ma soltanto finché lo si considera da questo punto di vista specializzato e limitato. In tal caso, d’altronde, il «Sé» non diventa effettivamente ed in qualche modo distinto da Atma, poiché non può essere «altro che sé stesso», come più sopra dicemmo, né potrebbe evidentemente essere modificato dal punto di vista dal quale lo si considera e nemmeno da alcun altra contingenza. È necessario aggiungere che, nella stessa misura in cui si fa questa distinzione, ci si allontana dalla diretta considerazione del «Sé», per prendere in esame veramente soltanto il suo riflesso nell’individualità umana, o in qualsivoglia altro stato dell’essere, poiché è superfluo dire che dinnanzi al «Sé» tutti gli stati della manifestazione sono rigorosamente equivalenti e possono essere considerati similmente; ma, presentemente, è l’individualità umana che ci interessa più particolarmente. Questo riflesso di cui parliamo determina ciò che si può chiamare il centro di questa individualità; ma, se lo si isola dal suo principio, vale a dire dal «Sé», la sua esistenza è allora puramente illusoria, poiché è dal principio che trae tutta la sua realtà, e possiede effettivamente questa realtà appunto in quanto partecipa alla natura del «Sé», vale a dire in quanto ad esso si identifica per universalizzazione.

    La personalità, vi insistiamo ancora, è essenzialmente dell’ordine dei principi nel senso più rigoroso della parola, vale dire dell’ordine universale; essa non può dunque essere considerata che dal punto di vista della metafisica pura, il cui dominio è precisamente l’Universale. I «pseudometafisici» dell’Occidente hanno l’abitudine di confondere l’Universale con cose che, in realtà, appartengono all’ordine individuale; o meglio, giacché essi non concepiscono affatto l’Universale, abusivamente attribuiscono d’ordinario questo nome al generale, che è precisamente una semplice estensione dell’individuale. Certuni spingono ancora oltre la confusione: i filosofi «empiristi», che non riescono neanche a concepire il generale, l’assimilano al collettivo, che, in verità, è solo del particolare; per queste successive degradazioni, ogni cosa si riduce infine allo stesso livello della conoscenza sensibile, che molti considerano infatti come la sola possibile, poiché il loro orizzonte mentale non si distende oltre; queste stesse persone vorrebbero altresì imporre a tutti le limitazioni, conseguenza della loro incapacità spesso naturale, talvolta acquisita da una speciale educazione.

    Per prevenire ogni equivoco del genere di quelli segnalati, daremo la seguente tavola, che precisa le distinzioni essenziali a questo riguardo, ed alla quale preghiamo i nostri lettori di riferirsi nelle occasioni necessarie, al fine di evitare ripetizioni alquanto fastidiose:

     

    Universale

    Individuale – Generale

    Particolare – Collettivo

    Singolare

     

    È necessario aggiungere che la distinzione dell’Universale e dell’individuale non deve essere considerata una correlazione, poiché il secondo dei due termini, annullandosi rigorosamente di fronte al primo, non gli potrebbe essere affatto opposto. Ciò è vero anche per quel che concerne il non-manifestato ed il manifestato; d’altronde, potrebbe sembrare a prima vista che l’Universale ed il non-manifestato debbano coincidere, e, da un certo punto di vista, la loro identificazione sarebbe infatti giustificata, poiché, metafisicamente, tutto l’essenziale è il non-manifestato. Tuttavia, non bisogna dimenticare certi stati di manifestazione che essendo informali, sono appunto perciò sopra-individuali; se dunque non si distingue che l’Universale e l’individuale, si dovrà necessariamente riferire questi stati all’Universale, ciò che si potrà fare altrettanto meglio poiché si tratta di una manifestazione in qualche modo ancora principiale, perlomeno in paragone con gli stati individuali; ma ciò, s’intende, non deve fare dimenticare che tutto quel che è manifestato, anche a questi gradi superiori, è necessariamente condizionato, vale dire relativo. Se si considerano le cose in tal modo, l’Universale sarà, non più solamente il non-manifestato, ma l’informale, comprendente nello stesso tempo il non-manifestato e gli stati di manifestazione sopra-individuali; quanto all’individuale, esso contiene tutti i gradi della manifestazione formale, vale a dire gli stati nei quali gli esseri sono rivestiti di forme, poiché il carattere speciale dell’individualità, che la costituisce essenzialmente come tale, è precisamente la presenza della forma fra le condizioni limitative che definiscono e determinano uno stato d’esistenza. Possiamo ancora riassumere queste ultime considerazioni nella tavola seguente:

     

    Universale - Non-manifestazione

    Manifestazione informale

     

    Individuale - Manifestazione formale - Stato sottile

    Stato grossolano.

     

    Le espressioni di «stato sottile» e «stato grossolano», che si riferiscono a gradi differenti della manifestazione formale, saranno spiegate più innanzi; ma possiamo indicare fin d’ora che quest’ultima distinzione ha valore alla sola condizione di prendere per punto di partenza l’individualità umana, o più esattamente il mondo corporeo o sensibile. Lo «stato grossolano» è infatti l’esistenza corporea stessa, alla quale l’individualità umana, come lo si vedrà, appartiene per una delle sue modalità, e non nel suo integrale sviluppo; quanto allo «stato sottile», comprende, da una parte, le modalità extracorporee dell’essere umano, o di tutt’altro essere nello stesso stato di esistenza, ed anche, d’altra parte, tutti gli stati individuali altri che quello. Si vede che questi due termini non sono veramente simmetrici e neanche possono avere comune misura, poiché l’uno dei due rappresenta soltanto una parte di uno degli stati indefinitamente multipli che costituiscono la manifestazione formale, mentre l’altro comprende tutto il resto di questa manifestazione [Spiegheremo questa asimmetria con una nota di applicazione comune, che rileva semplicemente della logica ordinaria: se si considera una attribuzione od una qualità qualunque, si dividono appunto perciò tutte le cose possibili in due gruppi: da una parte, quello delle cose che posseggono questa qualità, dall’altra, quella delle cose che non la posseggono; ma, mentre il primo gruppo è così positivamente definito e determinato, il secondo, che è caratterizzato in modo puramente negativo, non è perciò affatto limitato ed è veramente indefinito; non vi è dunque né comune misura né simmetria fra questi due gruppi, che così non costituiscono realmente una divisione binaria, e la cui distinzione vale d’altronde evidentemente al solo punto di vista speciale della qualità presa come punto di partenza, poiché il secondo gruppo non ha omogeneità e può comprendere cose non comuni fra loro, ciò che tuttavia non impedisce questa divisione di essere veramente valida nel rapporto considerato. Ora è appunto in tal modo che distinguiamo il manifestato ed il non-manifestato, poi, nel manifestato, il formale e l’informale, e finalmente, nel formale stesso, il corporeo e l’incorporeo]. Fino ad un certo punto, vi è simmetria, se ci limitiamo a rilevare la sola individualità umana; d’altronde è proprio da questo punto di vista che la distinzione di cui si tratta è stabilita in primo luogo dalla dottrina indù; anche se poi ci si pone di là da questo punto di vista, e se lo si è intravisto appunto per oltrepassarlo effettivamente, sempre dovremo inevitabilmente assumerlo come base e termine di paragone, poiché è ciò che concerne lo stato in cui attualmente ci troviamo. Diremo dunque che l’essere umano, considerato nella sua integralità, comporta un certo insieme di possibilità che costituiscono la sua modalità corporea o grossolana, nonché una moltitudine di altre possibilità che, prolungandosi in diversi sensi di là da questa, costituiscono le sue modalità sottili; ma tutte queste possibilità riunite non rappresentano tuttavia che un solo ed uno stesso grado dell’Esistenza universale. Risulta quindi che l’individualità umana è contemporaneamente molto più e molto meno di quello che la credono ordinariamente gli Occidentali: molto più, perché essi ne conoscono semplicemente la modalità corporea, infima parte delle sue possibilità; ma anche molto meno, perché questa individualità, lungi dal rappresentare realmente l’essere totale, non ne è che uno stato, fra una serie indefinita di altri stati, la cui stessa somma è niente ancora se paragonata alla personalità, che è l’essere vero, essendo il suo stato permanente ed incondizionato, l’unico che possa essere considerato assolutamente reale. Il resto è indubbiamente anche reale, ma soltanto in modo relativo, in virtù della sua dipendenza dal principio ed in quanto ne riflette qualche cosa, come l’immagine prodotta nello specchio trae la sua realtà dall’oggetto, senza il quale non avrebbe alcuna esistenza; ma questa minore realtà, che è solo partecipata, è illusoria in rapporto alla realtà suprema, come la stessa immagine è anche illusoria in rapporto all’oggetto; se si pretendesse isolarla dal principio, questa illusione diventerebbe irrealtà pura e semplice. Si comprende dunque come l’esistenza, vale a dire l’essere condizionato e manifestato, sia contemporaneamente reale in un certo senso e illusoria in un altro: questo è un punto essenziale, che mai hanno capito gli Occidentali che hanno oltraggiosamente deformato il Vedanta con le loro interpretazioni erronee e piene di pregiudizi.

    Dobbiamo ancora avvertire i filosofi più specialmente che l’Universale e l’individuale non sono affatto per noi ciò che essi chiamano «categorie», e ricorderemo, poiché i moderni sembrano averlo un po’ dimenticato, che le «categorie», nell’accezione aristotelica della parola, non sono che i più generali fra tutti i generi, perciò appartengono ancora al dominio dell’individuale, di cui d’altronde indicano il limite ad un certo punto di vista. Sarebbe più giusto assimilare all’Universale ciò che gli scolastici chiamano i «trascendentali», che oltrepassano precisamente tutti i generi e le stesse «categorie», ma, se questi «trascendentali» appartengono infatti all’ordine universale, sarebbe sempre un errore credere che costituiscano tutto l’Universale, od anche che siano ciò che vi è di più importante per la metafisica pura; essi sono coestensivi all’Essere, ma non oltrepassano punto l’Essere, al quale d’altronde si ferma la dottrina nella quale sono così considerati. Ora, se l’«ontologia» o la conoscenza dell’Essere rileva della metafisica, essa è lungi dal rappresentare la metafisica completa e totale, poiché l’Essere non è affatto il non-manifestato in sé, ma semplicemente il principio della manifestazione; e, poi, ciò che è al di là dell’Essere è molto più importante ancora, metafisicamente, dell’Essere stesso. In altre parole, è Brahma, non Ishwara, che deve essere riconosciuto come il Principio Supremo; ciò è espressamente e prima di tutto dichiarato dai Brahma-sutra, che esordiscono con queste parole: «Ora comincia lo studio di Brahma», a cui Shankaracharya aggiunge il seguente commento: «Ingiungendo la ricerca di Brahma, questo primo sutra raccomanda uno studio riflessivo dei testi delle Upanishad, fatto con l’aiuto di una dialettica che (prendendoli per base e principio) non sia mai in disaccordo con essi e che, come essi (ma a titolo di semplice mezzo ausiliario), si proponga per fine la Liberazione».

     

    III. IL CENTRO VITALE DELL’ESSERE UMANO, DIMORA DI BRAHMA

    Il «Sé», come già l’abbiamo visto in ciò che precede, non deve essere distinto da Atma, e, d’altra parte, Atma è identificato a Brahma stesso: possiamo chiamare ciò l’«Identità Suprema», da un’espressione dell’esoterismo islamico, la cui dottrina, su questo e su molti altri punti, malgrado le grandi differenze di forma, è in fondo la stessa di quella della tradizione indù. La realizzazione di quest’identità si opera per mezzo dello Yoga, vale a dire l’unione divina ed essenziale dell’essere col Principio Divino o piuttosto, se si preferisce, con l’Universale; il senso proprio della parola Yoga è, infatti, «unione» e non altro [La radice di questa parola si ritrova, appena alterata, nel latino «jungere» e nei suoi derivati], malgrado le interpretazioni multiple, queste più fantastiche di quelle, proposte dagli orientalisti e dai teosofisti. È necessario notare che questa realizzazione non deve essere considerata propriamente come una «effettuazione», o come «la produzione di un risultato non preesistente», secondo l’espressione di Shankaracharya, poiché l’unione di cui si tratta, anche se non realizzata attualmente, nel senso che noi qui intendiamo, esiste pur sempre potenzialmente o piuttosto virtualmente; si tratta dunque soltanto, per l’essere individuale (poiché non può parlarsi di «realizzazione» che in rapporto all’individuo), di prendere effettivamente coscienza di ciò che è realmente e dall’eternità.

    Perciò è detto che Brahma risiede nel centro vitale dell’essere umano, per qualsiasi essere umano, non soltanto per colui che è attualmente «unito» o «liberato»; queste due parole esprimono in fondo la stessa cosa vista da due differenti aspetti, il primo in rapporto al Principio, il secondo in rapporto alla manifestazione o all’esistenza condizionata. Questo centro vitale è considerato come corrispondente analogicamente al più piccolo ventricolo (guha) del cuore (hridaya), ma non deve essere tuttavia confuso col cuore nel senso ordinario della parola, vale a dire con l’organo fisiologico che ha appunto questo nome, poiché è in realtà non solamente il centro dell’individualità corporea, ma dell’individualità integrale, suscettibile di un’estensione indefinita nel suo dominio (che è d’altronde un semplice grado dell’Esistenza), e di cui la modalità corporea non costituisce che una parte ed anche molto limitata, come già abbiamo visto. Il cuore, considerato il centro della vita, lo è effettivamente dal punto di vista fisiologico, per la circolazione del sangue, al quale la vitalità stessa è essenzialmente legata in modo particolarissimo, come tutte le tradizioni lo riconoscono; ma è anche altresì considerato come tale, in un ordine superiore, ed in qualche modo simbolicamente, per l’Intelligenza universale (questo è il senso della parola araba El-Aqlu) nelle sue relazioni con l’individuo. A questo proposito, i Greci stessi, ed Aristotele fra gli altri, attribuivano al cuore la stessa funzione e lo consideravano anche come la dimora dell’intelligenza, se può essere usato questo modo di esprimerci, non del sentimento alla maniera ordinaria dei moderni; il cervello, infatti, non è veramente che lo strumento del «mentale», vale a dire del pensiero discorsivo e riflessivo; così, seguendo un simbolismo già indicato precedentemente, il cuore corrisponde al sole ed il cervello alla luna. Si capisce, del resto, che, quando si considera il cuore centro dell’individualità integrale, non bisogna reputare un’assimilazione ciò che è un’analogia, poiché si tratta propriamente di una corrispondenza, del resto per nulla arbitraria, ma perfettamente fondata, quantunque i nostri contemporanei siano abituati a disconoscerne le ragioni profonde.

    «In questa dimora di Brahma (Brahma-pura)», vale a dire nel centro vitale di cui abbiamo parlato, «vi è un piccolo loto, una dimora nella quale vi è una piccola cavità (dahara), occupata dall’Etere (Akasha); se si ricerca Ciò che risiede in questo luogo, Lo si conoscerà» [Chhandogya Upanishad, 8° Prapathaka, 1° Khanda, shruti 1]. In questo centro dell’individualità, non vi è soltanto, infatti, l’elemento etereo, principio degli altri quattro elementi sensibili, come potettero crederlo quelli che si fermarono al senso più esteriore, vale a dire a quello che si riferisce unicamente al mondo corporeo, nel quale questo elemento rappresenta infatti la parte del principio, ma in un’accezione molto relativa, come questo stesso mondo è eminentemente relativo, ed è proprio questa accezione che bisogna trasporre analogicamente. Come «appoggio» per questa trasposizione è designato l’Etere, e la fine stessa del testo l’indica espressamente, poiché, se non si trattasse di altra cosa in realtà, evidentemente niente vi sarebbe da ricercare; aggiungeremo ancora che il loto e la cavità di cui si tratta debbono essere anche rilevati simbolicamente, non dovendosi intendere letteralmente una tale «localizzazione», quando si oltrepassa il punto di vista dell’individualità corporea, poiché le altre modalità non sono più sottomesse alla condizione spaziale.

    Non si tratta veramente neanche soltanto dell’«anima vivente» (jivatma), vale a dire della manifestazione particolare del «Sé» nella vita (jiva), e dunque nell’individuo umano, considerato più specialmente nell’aspetto vitale che esprime una delle condizioni di esistenza che propriamente definiscono il suo stato, e che, d’altronde, si riferisce all’insieme delle sue modalità. Infatti, metafisicamente, questa manifestazione non deve essere considerata separatamente dal suo principio, vale dire dal «Sé»; se questo, nell’esistenza individuale, e dunque in modo illusorio, appare come jiva, esso è Atma nella realtà suprema. «Questo Atma, che sta nel cuore, è più piccolo di un chicco di riso, più piccolo di un chicco d’orzo, più piccolo di un chicco di mostarda, più piccolo di un chicco di miglio; più piccolo del germe racchiuso in un chicco di miglio; questo Atma, che sta nel cuore, è anche più grande della terra (il dominio della manifestazione grossolana), più grande dell’atmosfera (il dominio della manifestazione sottile), più grande del cielo (il dominio della manifestazione informale), più grande di tutti questi mondi insieme (vale dire oltre tutta la manifestazione, essendo l’incondizionato)» [Chhandogya Upanishad, 3° Prapathaka, 14° khanda, shruti 3. - E’ d’uopo ricordare a questo proposito la parabola del Vangelo: «il Regno dei Cieli è simile ad un granello di senapa che un uomo prende e semina nel suo campo; esso è il più piccolo di tutti semi; ma quando è cresciuto, è maggiore di tutti gli altri legumi e diviene albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a riposarsi sui suoi rami» (San Matteo, XIII, 31 e 32) quantunque il punto di vista sia sicuramente differente, facilmente si capirà come la concezione del «Regno dei Cieli» possa trasporsi metafisicamente: la crescita dell’albero è lo sviluppo delle possibilità; gli «uccelli del cielo», che rappresentano gli stati superiori dell’essere, ricordano un simbolismo simile usato in un altro testo delle Upanishad: «Due uccelli, compagni inseparabili, stanno sullo stesso albero; l’uno mangia il frutto dell’albero, l’altro guarda ma non mangia» (Mundaka Upanishad, 3° Mundaka, 1° khanda, shruti 1 ; Shwetashwatara Upanishad, 4° Adhyaya, shruti 6). Il primo di questi uccelli è jivatma, implicato nel dominio dell’azione e delle sue conseguenze; il secondo è Atma incondizionato, cioè pura Conoscenza; essi sono inseparabilmente uniti, poiché entrambi non si distinguono che in modo illusorio]. L’analogia, infatti, come precedentemente abbiamo visto, dovendo applicarsi in senso inverso, come l’immagine di un oggetto in uno specchio è invertita per l’oggetto, quello che è il primo o il più grande nell’ordine principiale è, per lo meno apparentemente, l’ultimo od il più piccolo nell’ordine della manifestazione [Ritroviamo la stessa cosa nettissimamente espressa nel Vangelo: «Gli ultimi saranno i primi ed i primi saranno gli ultimi» (San Matteo, XX, 16)]. Per rendere la cosa più chiara, prenderemo dei termini di paragone nelle matematiche: il punto geometrico è nulla quantitativamente, né occupa spazio, quantunque sia il principio per cui è prodotto tutto lo spazio, che è lo sviluppo delle sue proprie virtualità [Ad un certo punto di vista più esteriore, quello della geometria ordinaria ed elementare, notiamo che, per spostamento continuo, il punto produce la linea, la linea la superficie, questa produce il volume; ma, in senso inverso, la superficie è l’intersezione di due volumi, la linea è l’intersezione di due superficie, il punto è l’intersezione di due linee]; così parimenti l’unità aritmetica è il più piccolo dei numeri se la si considera come posta nella loro molteplicità, ma è il più grande in principio, poiché li contiene tutti virtualmente e produce l’intera serie con la sola ripetizione indefinita di se stessa. Il «Sé» sta potenzialmente nell’individuo, finché non è realizzata l’«Unione» [In realtà, d’altronde, è l’individuo che è nel «Sé», e l’essere ne prende effettivamente coscienza quando l’«Unione» è realizzata; ma questa presa di coscienza implica la liberazione dalle limitazioni che costituiscono l’individualità come tale, e che, più generalmente, condizionano l’intera manifestazione. Quando parliamo del «Sé» come in un certo modo nell’individuo, il nostro punto di vista è quello della manifestazione; anche qui si tratta dunque di un’applicazione del senso inverso], perciò è paragonabile ad un grano o ad un germe; ma l’individuo e l’intera manifestazione esistono soltanto per esso ed hanno realtà solo perché partecipano alla sua essenza, mentre esso oltrepassa immensamente l’intera manifestazione, essendo il Principio unico delle cose.

    Se diciamo che il «Sé» è potenzialmente nell’individuo e che l’«Unione» esiste solo virtualmente prima della realizzazione, si capisce che questo deve intendersi dal punto di vista dell’individuo stesso. Infatti, il «Sé» non è pregiudicato da contingenze, perché è essenzialmente incondizionato; è immutabile nella sua «permanente attualità», perciò non è affatto potenziale. Così è bene avere cura di distinguere «potenzialità» e «possibilità»: la prima indica l’attitudine per un certo sviluppo e presuppone una possibile «attualizzazione», può dunque riferirsi solamente al «divenire» od alla manifestazione; invece, le possibilità, considerate nello stato principiale e non-manifestato, che esclude ogni «divenire», non potrebbero affatto essere riguardate come potenziali. Soltanto per l’individuo, le possibilità che l’oltrepassano appaiono potenziali, appunto perché, fin quando si considera in modo «separativo», come se avesse in sé il suo proprio essere, ciò che può raggiungere è propriamente un riflesso (abhasa), e non queste possibilità stesse; quantunque ciò sia soltanto un’illusione, possiamo comunque affermare che queste possibilità restano sempre potenziali per l’individuo; finché si è tale, infatti, non le si può raggiungere, e, quando esse sono realizzate, non vi è più veramente l’individualità, come spiegheremo più completamente parlando della «Liberazione». Ma è bene ormai porci di là dal punto di vista individuale, al quale, anche considerandolo illusorio, non disconosciamo la realtà di cui è suscettibile nel suo ordine; quand’anche noi consideriamo l’individuo, è sempre per scorgerlo essenzialmente dipendente dal Principio, unico fondamento di questa realtà, ed in quanto si integra, virtualmente od effettivamente, all’essere totale; metafisicamente, tutto deve in definitiva riferirsi al Principio, che è il «Sé».

    Così, al punto di vista fisico, quello che risiede nel centro vitale è l’Etere; al punto di vista psichico, è l’«anima vivente»; fin qui non oltrepassiamo il dominio della possibilità individuali; ma anche e soprattutto, al punto di vista metafisico, quel che risiede nel centro vitale è il «Sé» principiale ed incondizionato. È dunque veramente lo «Spirito Universale» (Atma), che è in realtà Brahma stesso, il «Supremo Ordinatore»; così è pienamente giustificato di qualificare questo centro come Brahma-pura. Ora Brahma, inteso in tal modo nell’uomo (e lo si potrebbe considerare similmente in rapporto ad ogni stato dell’essere), è chiamato Purusha, perché riposa o risiede nell’individualità (si tratta, lo ripetiamo ancora, dell’individualità integrale, non semplicemente dell’individualità ristretta alla sua modalità corporea) come in una città (puri-shaya), poiché «pura», nel senso proprio letterale, significa «città» [Questa spiegazione della parola Purusha non deve essere indubbiamente considerata una derivazione etimologica; essa rileva del Nirukta, vale a dire d’una interpretazione che principalmente si basa sul valore simbolico degli elementi di cui sono composte le parole; questo genere di interpretazione, perlopiù incompreso dagli orientalisti, è abbastanza paragonabile con quello che si riscontra nella Qabbalah ebraica; non era nemmeno interamente sconosciuto dai Greci, e ve ne sono esempi nel Cratilo di Platone. - Quanto al significato di Purusha, facciamo notare che «puru» esprime un’idea di «pienezza»].

    Nel centro vitale, residenza di Purusha, «il sole non brilla e nemmeno la luna e le stelle ed i lampi; meno ancora questo fuoco visibile (l’elemento igneo sensibile, o Tejas, di cui la visibilità è la qualità propria); tutto brilla dopo l’irraggiamento di Purusha (riflettendo la sua chiarezza); e questo tutto (l’individualità integrale, considerata come «microcosmo») è illuminato dal suo splendore» [Katha Upanishad, 2° Adhyaya, 5° Valli, shruti 15; Mundaka Upanishad, 2° Mundaka, 2° Khanda, shruti 10; Shwetashwatara Upanishad, 6° Adhyaya, shruti 14]. Parimenti si legge nella Bhagavad-Gita [È noto che la Bhagavad-Gita è un episodio del Mahabharata, ed a questo proposito ricorderemo che gli Itihasa, vale a dire il Ramayana ed il Mahabharata, che fanno parte della Smriti, non sono punto veramente semplici «poemi epici» nel senso «profano» degli Occidentali]: «Bisogna ricercare il luogo (simbolizzante uno stato) da cui non è più possibile un ritorno (alla manifestazione), e rifugiarsi nel Purusha primordiale donde è venuto l’impulso originale (della manifestazione universale)... Questo luogo, né il sole, né la luna, né il fuoco lo rischiara; là è il mio soggiorno supremo» [Bhagavad-Gita, XV, 4 e 6. - Si può scorgere in questi testi una interessante similitudine con questo passo della descrizione della «Gerusalemme Celeste» nell’Apocalisse, XXI, 23: «E questa città non ha bisogno di essere rischiarata dal sole né dalla luna, poiché l’illumina la gloria di Dio e l’Agnello è il suo luminare». Si può scorgere da ciò che la «Gerusalemme Celeste» non è poi senza rapporto con la «città di Brahma»; per chi non ignori la relazione che unisce l’«Agnello» del simbolismo cristiano all’Agni vedico, il riavvicinamento è ancora più significativo. - Senza poter insistere su quest’ultimo punto, diremo, per evitare ogni falsa interpretazione, che non pretendiamo affatto stabilire una relazione etimologica fra Agnus e Ignis (l’equivalente latino di Agni); ma siffatti riavvicinamenti, come quello che esiste fra queste due parole, rappresentano spesso una parte importante nel simbolismo; del resto, per noi, a questo proposito, niente vi è di fortuito: ciò che è deve avere la sua ragione d’essere anche per le forme del linguaggio. Conviene ancora notare, nello stesso riguardo, che il veicolo d’Agni è un ariete]. Purusha è rappresentato con una luce (jyotis), perché la luce simbolizza la Conoscenza, ed esso è la sorgente di ogni altra luce, che in fondo è il suo riflesso, poiché la conoscenza relativa non può esistere che per partecipazione, sia pure indiretta e lontana, all’essenza della Conoscenza suprema. Nella luce di questa Conoscenza, tutte le cose sono in perfetta simultaneità, poiché, principialmente, non può esservi che un «eterno presente», l’immutabilità escludendo ogni successione; i rapporti delle possibilità che, in sé, sono eternamente contenute nel Principio non si traducono in modo successivo (ciò che non significa necessariamente temporale) che nell’ordine del manifestato. «Questo Purusha, della grandezza di un pollice (angushtha-matra, espressione che non deve intendersi letteralmente, come una dimensione spaziale, ma che si riferisce alla stessa idea del paragone con un chicco) [Si potrebbe anche, a questo proposito, stabilire un paragone con l’«endogenia dell’Immortale» della tradizione taoista], è d’una luminosità chiara come un fuoco senza fumo (senza alcun miscuglio d’oscurità o di ignoranza); è il maestro del passato e del futuro (essendo eterno, dunque onnipresente, in modo che contiene attualmente tutto ciò che appare come passato e futuro, per un qualunque momento della manifestazione; questo, d’altronde, si può trasporre al di fuori del modo speciale di successione che è propriamente il tempo); esso è oggi (nello stato attuale che costituisce l’individualità umana) e sarà domani (ed in tutti i cicli o stati d’esistenza) tale quale è (in sé, principialmente da ogni eternità)» [Katha Upanishad, 2° Adhyaya, 4° Valli, shruti 12 e 13: - Nell’esoterismo islamico, la stessa idee è espressa in termini quasi identici da Mohyddin Ibn-Arabi nel suo Trattato dell’Unità (Risalatu-l-Ahadiyah): «Egli (Allah) è ora tale com’era (da tutta l’eternità), tutti i giorni nello stato di Creatore Sublime». La sola differenza verte sull’idea di «creazione», propria alle dottrine tradizionali che, almeno parzialmente, si riattaccano al Giudaismo; ciò non è d’altronde in fondo che un modo speciale di esprimere ciò che si riferisce alla manifestazione universale ed alla sua relazione col Principio.

    Una traduzione del Trattato dell’Unità (Risalatu-l-Ahadiyah) è stata pubblicata nei fascicoli 7 e 8 della Rivista di Studi Tradizionali (N.d.Ed.)].

     

    IV. PURUSHA E PRAKRITI

     

    Considereremo ora Purusha, non più in se stesso, ma in rapporto alla manifestazione, per meglio rilevare in seguito come può essere inteso sotto molteplici aspetti, anche essendo uno in realtà. Diremo dunque che Purusha, perché la manifestazione si produca, deve entrare in correlazione con un altro principio, quantunque questa correlazione, relativamente al suo aspetto più elevato (uttama) sia inesistente, e non vi sia realmente altro principio, se non in senso relativo, al di fuori del Principio Supremo; ma, quando si tratta della manifestazione, anche principialmente, già siamo nella relatività. Il correlativo di Purusha è allora Prakriti, la sostanza primordiale indifferenziata, il principio passivo, rappresentato come femminile, mentre Purusha, chiamato anche Pumas, è il principio attivo, cioè maschile; e, mentre sono entrambi non-manifestati, tuttavia sono i due poli della manifestazione. L’unione di questi due principi complementari produce lo sviluppo integrale dello stato individuale umano, e ciò relativamente ad ogni individuo; potrebbe lo stesso asserirsi per tutti gli stati manifestati dell’essere, diversi da quello umano, poiché, se dobbiamo più specialmente studiare questo stato, è bene mai dimenticare che è solo uno stato fra gli altri; è necessario anche ricordare che Purusha e Prakriti ci appaiono risultanti in qualche modo da una polarizzazione dell’essere principiale non al limite della sola individualità umana, ma invece al limite della totalità degli stati manifestati, in molteplicità indefinita [Crediamo opportuno richiamare l’attenzione del lettore sulla parola «indefinito», che qui, come d’altronde ogni qual volta essa è usata nelle opere del Guénon, ha un senso ben preciso. L’«indefinito», infatti, procedendo dal finito, ne è l’estensione o lo sviluppo; non può dunque avere comune misura con l’Infinito, da cui lo si deve ben distinguere. Del resto, per tutti gli altri sviluppi che da ciò derivano, rimandiamo il lettore all’altra opera del Guénon: Les Etats multiple de l’Etre (Ndt)].

    Se, invece di considerare isolatamente ogni individuo, esaminiamo l’insieme del dominio formato da un grado determinato dell’Esistenza, quale il dominio individuale dove si dispiega lo stato umano, o qualsiasi altro analogo dell’esistenza manifestata, definito similmente da un certo insieme di condizioni speciali e limitative, Purusha, per un tale dominio (comprendente tutti gli esseri che vi sviluppano le loro possibilità di manifestazione corrispondenti, tanto successivamente quanto simultaneamente), è assimilato a Prajapati, il «Signore degli esseri prodotti», espressione di Brahma stesso, in quanto è concepito come Volontà Divina e Ordinatore Supremo [Prajapati è anche Vishwakarma, il «principio costruttivo universale»; il suo nome e la sua funzione sono suscettibili d’altronde di riferimenti multipli e più o meno specializzati, secondo che li si riferisca o non alla considerazione di tale o tal’altro ciclo o stato determinato]. Questa Volontà si manifesta più particolarmente, in ogni ciclo speciale d’esistenza, come il Manu di questo ciclo, che ad esso dà la sua Legge (Dharma); infatti, Manu, già l’abbiamo altrove spiegato, non deve affatto essere considerato un personaggio né un «mito», ma invece un principio, propriamente l’Intelligenza cosmica, immagine riflessa di Brahma (ed in realtà una con Lui), che si esprime come il Legislatore primordiale ed universale [È interessante notare che, in altre tradizioni, il Legislatore primordiale è anche designato con nome la cui radice è la stessa di quella del Manu indù: tali sono, specialmente, il Menes degli Egiziani ed il Minos dei Greci; è dunque un errore considerare questi nomi come quelli di personaggi storici]. Nello stesso modo che Manu è il prototipo dell’uomo (manava), la coppia Purusha-Prakriti, in rapporto ad uno stato d’essere determinato, può equivalere, nel dominio di esistenza che corrisponde a questo stato, a quella che per l’esoterismo islamico è l’«Uomo Universale» (El-Insanul-kamil) [È l’Adam Qadmon della Qabbalah ebraica; è anche il «Re» (Wang) della tradizione estremo-orientale (Tao-te-king, XXV)], concezione che può d’altronde essere poi estesa a tutto l’insieme degli stati manifestati, e che allora stabilisce l’analogia costitutiva della manifestazione universale e della sua modalità individuale umana [Ricorderemo che su questa analogia si fonda essenzialmente l’istituzione delle caste. - Sulla parte di Purusha considerato dal punto di vista che qui indichiamo, vedi specialmente il Purusha-Shukta del Rig-Veda, X, 90. - Vishwakarma, aspetto o funzione dell’«Uomo Universale», corrisponde al «Grande Architetto dell’Universo» delle iniziazioni occidentali], o, per usare il linguaggio di certe scuole occidentali, del «macrocosmo» e del «microcosmo» [Questi termini appartengono propriamente all’Ermetismo e sono di quelli per i quali stimiamo non avere a preoccuparci dell’uso più o meno abusivo che ne hanno fatto i pseudo-esoteristi contemporanei].

    Ora, è indispensabile aggiungere che la concezione della coppia Purusha-Prakriti non ha rapporti con qualsiasi «dualismo», e che, in particolare, è totalmente differente dal dualismo «spirito-materia» della filosofia occidentale moderna, la cui origine è in realtà imputabile alle concezioni cartesiane. Purusha non può corrispondere alla nozione filosofica di «spirito», e l’abbiamo già indicato a proposito della designazione d’Atma in quanto «Spirito Universale», accettabile a condizione di essere intesa in senso affatto differente da quello; malgrado le asserzioni di gran numero di orientalisti, Prakriti corrisponde ancora meno alla nozione di «materia», che, d’altronde, è tanto completamente estranea al pensiero indù da non esservi in sanscrito una parola con la quale possa tradursi, neanche approssimativamente, ciò che prova che una tale nozione non è veramente fondamentale. Del resto, è possibilissimo che gli stessi Greci non avessero la nozione della materia dei moderni, sia filosofi che fisici; in ogni caso, il senso della parola «» per Aristotele è infatti quello di «sostanza» in tutta la sua universalità, e «» (che la parola «forma» rende molto male in italiano, per gli equivoci a cui può facilmente dar luogo) corrisponde non meno esattamente all’«essenza» correlativa di questa «sostanza». Infatti, le parole «essenza» e «sostanza», nella loro più ampia accezione, sono forse, nelle lingue occidentali, quelle che meglio rendono l’idea della concezioni di cui si tratta, concezioni d’ordine molto più universale di quella di «spirito» e «materia», e di cui quest’ultima ne rappresenta tutt’al più un aspetto particolarissimo, una specificazione in rapporto ad un determinato stato d’esistenza, fuori dal quale cessa interamente d’essere valida, invece di essere riferibile all’integralità della manifestazione universale, come la concezione di «essenza» e di «sostanza». È ancora necessario aggiungere che la distinzione di queste ultime, per primordiale che sia in rapporto a tutt’altra, non per questo è meno relativa; essa è la prima della dualità, quella dalla quale derivano tutte le altre direttamente od indirettamente, e da dove propriamente ha principio la molteplicità; ma questa dualità non è l’espressione di una irriducibilità assoluta, che non potrebbe affatto trovarsi, poiché è l’Essere Universale che si polarizza in «essenza» ed in «sostanza», relativamente alla manifestazione di cui è il principio, senza peraltro che la sua intima unità ne sia affatto alterata. Ricorderemo a proposito che il Vedanta, appunto perché è puramente metafisico, è essenzialmente la «dottrina della non-dualità» (adwaita-vada) [Abbiamo spiegato, nell’Introduction à l’Etude des Doctrines Hindoues, che non bisogna confondere questo «non-dualismo» con il «monismo», che, come il «dualismo», sotto qualunque forma, è di ordine semplicemente filosofico e non metafisico; questa concezione metafisica non può nemmeno assimilarsi al «panteismo», poiché quest’ultima denominazione, quando è usato in senso ragionevole, sempre implica un certo «naturalismo», propriamente anti-metafisico]; se il Sankhya può sembrare «dualista» a chi non l’ha capito, ciò dipende dal suo punto di vista che si ferma alla considerazione della prima dualità, ciò che però non gli impedisce di ammettere quello che l’oltrepassa, contrariamente alle concezioni sistematiche, prerogativa dei filosofi.

    Preciseremo che cos’è Prakriti, il primo dei 25 principi (tattwa) enumerati dal Sankhya; ma abbiamo dovuto rilevare Purusha prima di Prakriti, poiché è inammissibile che il principio plastico o sostanziale (nello stretto senso etimologico della parola, che esprime il «substratum universale», vale a dire l’appoggio di tutta la manifestazione) [Aggiungiamo, per evitare ogni possibilità di erronee interpretazioni, che il senso da noi attribuito alla parola «sostanza» non è affatto quello usato anche da Spinoza; per un effetto della confusione «panteista», egli in realtà adopera questa parola per designare l’Essere Universale stesso, almeno nella misura in cui è capace di concepirlo: in realtà, l’Essere Universale è di là della distinzione di Purusha e Prakriti, che si unificano in esso come nel loro principio comune] sia dotato di «spontaneità», poiché è puramente potenziale e passivo, atto a qualunque determinazione, ma non possedendone attualmente alcuna. Prakriti non può dunque essere veramente causa per se stessa (alludiamo alla «causalità efficiente»), al di fuori dell’azione o piuttosto dell’influenza del principio essenziale o Purusha, che si potrebbe chiamare il «determinante» della manifestazione; tutte le cose manifestate sono prodotte da Prakriti, di cui sono determinazioni o modificazioni, però, senza la presenza di Purusha, queste produzioni sarebbero sprovviste di ogni realtà. L’opinione per la quale Prakriti sarebbe sufficiente a se stessa come principio della manifestazione non potrebbe esser dedotta che da una concezione completamente erronea del Sankhya proveniente semplicemente dal fatto che, in questa dottrina, ciò che è chiamato «produzione» è sempre considerato esclusivamente dal lato «sostanziale», e forse anche dall’essere Purusha enumerato quale venticinquesimo tattwa, d’altronde interamente indipendente dagli altri, che comprendono Prakriti e tutte le sue modificazioni; una simile opinione, del resto, sarebbe formalmente contraria all’insegnamento del Veda.

    Mula-Prakriti è la «Natura primordiale» (in arabo El-Fitrah), radice di ogni manifestazione («mula» significa infatti «radice»); essa è anche qualificata come Pradhana, vale a dire «ciò che è posto prima di ogni cosa», contenendo in potenza tutte le determinazioni; secondo i Purana è identificata a Maya, concepita «madre delle forme». È indifferenziata (avyakta), «indistinguibile», non avendo parti, né essendo dotata di qualità, solo potendo essere indotta per i suoi effetti, poiché non la si potrebbe percepire in se stessa, produttiva senza essere essa stessa produzione. «Essendo radice, è senza radice, poiché non sarebbe radice, se essa stessa ne avesse» [Sankhya-sutra, 1° Adhyaya, sutra 67]. «Prakriti, radice di tutto, non è produzione. Sette principi, il grande (Mahat, che è il principio intellettuale o Buddhi) e gli altri (Ahankara o la coscienza individuale, che genera la nozione dell’«io», ed i cinque tanmatra o determinazioni essenziali delle cose) sono contemporaneamente produzioni di (Prakriti) e produttivi (in rapporto ai seguenti). Sedici (gli undici indriya o facoltà di sensazione e d’azione, non escludendovi il Manas o «mentale», ed i cinque bhuta od elementi sostanziali e sensibili) sono produzioni (improduttive). Purusha non è né produzione, né produttivo (in se stesso)» [Sankhya-karika, shloka 3], quantunque la sua azione, o meglio la sua attività «non-agente», secondo una espressione della tradizione estremo-orientale, determini essenzialmente tutto ciò che è produzione sostanziale in Prakriti [Colebrooke (Essais sur la Philosophie des Hindous, tradotti in francese da G.Pauthier, I° Essais) ha significato con ragione la concordanza notevole che esiste fra l’ultimo passo citato e i seguenti, estratti dal trattato De Divisione Naturae di Scoto Erigena: «La divisione della Natura mi sembra dover essere stabilita in quattro differenti specie, di cui la prima è ciò che crea e non è creato; la seconda, ciò che è creato e crea a sua volta; la terza, ciò che è creato e non crea; e la quarta infine, ciò che non è creato e nemmeno crea» (Libro I). «Ma la prima specie e la quarta (rispettivamente assimilabili a Prakriti e da Purusha) coincidono (si confondono o piuttosto si uniscono) nella Natura Divina, poiché questa può essere detta creatrice ed increata, come essa è in sé, ma ugualmente né creatrice né creata, poiché, essendo infinita, non può niente produrre che le sia esteriore, e nemmeno vi è possibilità alcuna che essa non sia in sé e per sé» (Libro III). Si noterà tuttavia la sostituzione dell’idea di «creazione» a quella di «produzione»; d’altra parte, l’espressione «Natura Divina» non è perfettamente adeguata, poiché ciò che designa è propriamente l’Essere Universale: in realtà, è Prakriti che è la Natura primordiale, e Purusha, essenzialmente immutabile, è al di fuori della Natura, il cui nome stesso esprime un’idea di «divenire»].

    Aggiungeremo, per completare queste nozioni, che Prakriti, pure essendo necessariamente una nella sua «indistinzione», contiene in sé una triplicità che, attualizzandosi per l’influenza «ordinatrice» di Purusha, produce le sue multiple determinazioni. Infatti, possie­de tre guna o qualità costitutive, che sono in perfetto equilibrio nella sua indifferenziazione primordiale; ogni manifestazione o modificazione della sostanza rappre­senta una rottura di quest’equilibrio, e gli esseri, nei loro differenti stati di manifestazione, partecipano dei tre guna per gradi diversi e, per così dire, secondo pro­porzioni indefinitamente variate. Questi guna non sono dunque stati, ma condizioni dell’Esistenza universale, alle quali sono sottomessi tutti gli esseri manifestati, e che è bene aver cura di distinguere dalle condizioni spe­ciali che determinano e definiscono tale o tal’altro stato o modo della manifestazione. I tre guna sono: sattwa, la conformità all’essenza pura dell’Essere (Sat), che è iden­tificata alla Luce intelligibile od alla Conoscenza, ed è rappresentata come una tendenza ascendente; rajas l’im­pulso espansivo, secondo il quale l’essere si sviluppa in un certo stato e, in qualche modo, ad un livello determinato dell’esistenza; infine, tamas, l’oscurità, assimilata all’ignoranza, e rappresentata come una tendenza discendente. Ci limiteremo per ora a queste definizioni, che abbiamo già indicate altrove; non è qui il luogo per esporre più completamente queste considerazioni, che si allontanano qualche poco dal nostro soggetto, né par­lare delle applicazioni diverse alle quali esse dànno luo­go, specialmente per ciò che concerne la teoria cosmo­logica degli elementi; questi sviluppi troveranno mi­glior posto in altri studi.

     

    V. PURUSHA INALTERATO DALLE MODIFICAZIONI INDIVIDUALI

     

    Secondo la Bhagavad Gita, «vi sono nel mondo due Purusha, l’uno distruttibile, l’altro indistruttibile: il primo è ripartito fra tutti gli esseri, l’altro è l’immutabile. Ma vi è un altro Purusha, il più alto (uttama), che si chiama Paramatma, e che, Signore imperituro, penetra e sostiene questi tre mondi (la terra, l’atmosfera, il cielo, che rappresentano i tre gradi fondamentali fra i quali si dividono tutti i modi della manifestazione). Ora, poiché supero il distruttibile ed anche l’indistruttibile (quale Principio Supremo dell’uno e dell’altro), io sono celebrato nel mondo e nel Veda col nome di Pu­rushottama» [Bhagavad Gita, XV, 16 a 18]. Fra i primi due Purusha, il «distruttibile» è jivatma, la cui esistenza distinta è infatti transitoria e contingente come quella della stessa individualità; l’«indistruttibile» è Atma in quanto personalità, principio permanente dell’essere in tutti i suoi stati di manifestazione [Sono «i due uccelli che stanno su uno stesso albero», secondo testi delle Upanishad, citati in una nota precedente. D’altra parte, anche nella Katha Upanishad, 2° Adhyaya, 6° Valli, shruti I, si parla d’un albero, ma questi riferimenti simbolici sono allora «macrocosmici», non più «microcosmici»: «Il mondo è come un fico per­petuo (ashwattha sanatana) di cui la radice è rivolta in alto ed i cui rami sono infissi nella terra»; parimenti, nella Bhagavad Gita, XV, I: «È un fico imperituro, la radice in alto ed i rami in basso, di cui gli inni del Veda sono le foglie; quegli che lo conosce, conosce il Veda». La radice è in alto perché rappresenta il principio, ed i rami sono in basso perché rappresentano il dispiegarsi della manifestazione; la figura dell’albero è così capovolta, l’analogia dovendo usarsi, qui come dovunque, in senso inverso. Nei due casi l’albero è desi­gnato come il fico sacro (ashwattha o pippala); in questa forma od in un’altra, il simbolismo dell’«Albero del Mondo» è lungi dall’essere particolare all’India: la quercia dei Celti, il tiglio dei Germani, il frassino degli Scandinavi rappresentano esattamente la stessa cosa]; quanto al terzo, ed il testo espressamente lo dichiara, è Paramatma, di cui la personalità è una determinazione primordiale, come precedentemente l’abbiamo spiegato. Quantunque la personalità sia real­mente di là dal dominio della molteplicità, si può tutta­via, in un certo modo, parlare di una personalità per ogni essere (si tratta naturalmente dell’essere totale, e non di uno stato considerato isolatamente): perciò il Sankhya, il cui punto di vista mai s’eleva a Purushot­tama, spesso rileva Purusha come multiplo; ma si deve notare che, anche in questo caso, il suo nome è sempre usato al singolare, per affermare nettamente la sua unità essenziale. Il Sankhya non ha dunque comunanze con un «monadismo» del genere di quello del Leibnitz, nel quale, d’altronde, la «sostanza individuale» è conside­rata un tutto completo, una specie di sistema chiuso, concezione incompatibile con nozioni d’ordine veramente metafisico.

    Purusha, considerato identico alla personalità, «è per così dire [La parola iva indica che si tratta di un paragone (upama) o d’un modo di parlare destinato a facilitare la comprensione, ma che non dev’essere inteso alla lettera.   Ecco un testo taoista che esprime una idea similare: «Le norme di ogni specie, come quella che fa un corpo di più organi (od un essere di più stati),... sono altrettante partecipa­zioni del Rettore Universale. Queste partecipazioni non L’aumentano, né Lo diminuiscono, poiché sono comunicate da Lui, non distaccate da Lui» (Tchoang tseu, cap. II; traduzione del P. Wieger, p. 217)] una parte (ansha) del Supremo Ordinatore (che, tuttavia, non ha realmente parti, essendo as­solutamente indivisibile e «senza dualità»), come una scintilla l’è del fuoco (la cui natura è d’altronde intera­mente in ogni scintilla)» [Brahma Sutra, 2° Adhyaya, 3° Pada, sutra 43.   Ricordiamo che noi seguiamo principalmente, nella nostra interpretazione, il commento di Shankaracharya]. Purusha non è mai sotto­messo alle condizioni che determinano l’individualità, e, anche nei suoi rapporti con questa, resta inalterato dalle modificazioni individuali (quali, per esempio, il piacere ed il dolore), che sono puramente contingenti ed accidentali, non essenziali all’essere, e che proven­gono tutte dal principio plastico, Prakriti o Pradhana, come dalla loro unica radice. È da questa sostanza, che contiene in potenza tutte le possibilità di manifestazio­ne, che le modificazioni sono prodotte nell’ordine mani­festato, per lo sviluppo stesso di queste possibilità, o, per usare un linguaggio aristotelico, per il loro passag­gio dalla potenza all’atto. «Qualsiasi modificazione (pa­rinama), dice Vijnana Bhikshu, dalla produzione origi­nale del mondo (vale a dire d’ogni ciclo d’esistenza) alla sua dissoluzione finale, proviene esclusivamente da Prakriti e dai suoi derivati», vale a dire dai ventiquattro primi tattwa del Sankhya,

    Purusha è tuttavia il principio essenziale delle cose, poiché determina lo sviluppo delle possibilità di Prakriti; ma esso mai entra nella manifestazione, per conseguenza le cose, in quanto sono considerate distintiva­mente, gli sono differenti, e nulla di ciò che le concerne come tali (costituendo quello che si può chiamare il «divenire») potrebbe pregiudicare la sua immutabilità. «Così la luce solare o lunare (suscettibile di modifica­zioni multiple) sembra identica alla sua sorgente (la sor­gente luminosa immutabile in se stessa), ma tuttavia essa ne è distinta (nella sua manifestazione esteriore, e parimenti le modificazioni o le qualità manifestate sono, come tali, distinte dal loro principio essenziale, poiché non possono affatto alterarlo). Come l’immagine del sole riflessa nell’acqua trema o vacilla, secondo le ondu­lazioni di questa, senza tuttavia pregiudicare le altre im­magini riflesse, né, a più forte ragione, l’orbe solare stesso, così le modificazioni di un individuo non alte­rano un altro individuo, né soprattutto il Supremo Or­dinatore stesso» [Brahma Sutra, 2° Adhyaya, 3° Pada, sutra 46 a 53], che è Purushottama, ed al quale la personalità è realmente identica nella sua essenza, come ogni scintilla l’è al fuoco, considerato indivisibile nella sua natura intima.

    È appunto l’«anima vivente» (jivatma) che qui è paragonata all’immagine del sole nell’acqua, poiché è il riflesso (abhasa), nell’individuale ed in rapporto ad ogni individuo, della Luce, principalmente una, dello «Spi­rito Universale» (Atma); il raggio luminoso che fa esi­stere questa immagine e la unisce alla sua sorgente, è, come vedremo, l’intelletto superiore (Buddhi), che ap­partiene alla manifestazione informale [Bisogna notare che il raggio presuppone un ambiente di propagazione (manifestazione in modo non individualizzato), e che l’imma­gine presuppone un piano di riflessione (individualizzazione per le condizioni d’un certo stato d’esistenza)]. Quanto all’acqua, che riflette la luce solare, e abitualmente il simbolo del principio plastico (Prakriti), l’immagine della «passività universale»; d’altronde, questo simbolismo, con lo stesso significato, è comune a tutte le dottrine tradi­zionali [Si può a questo riguardo riferirsi in particolare al principio della Genesi, I, 2: «E lo Spirito Divino era portato sulla superficie delle Acque». Nel passo citato vi è una nettissima indicazione in rapporto ai due principi complementari di cui parliamo, lo Spirito corrispon­dendo a Purusha e le Acque a Prakriti. Ad un differente punto di vista, ma non di meno collegato analogicamente al precedente, il Ruahh Elohim del testo ebraico è anche assimilabile a Hamsa, il Ci­gno simbolico, veicolo di Brahma, che cova il Brahmanda o l’«Uovo del Mondo», contenuto nelle Acque primordiali; bisogna notare che Hamsa è ugualmente il «soffio» (spiritus), ciò che è il senso primo di Ruahh in ebraico. Finalmente e specie al punto di vista della costi­tuzione del mondo corporeo, Ruahh è l’Aria (Vayu); se ciò non do­vesse portarci a troppo lunghe considerazioni, potremmo dimostrare la perfetta concordanza fra la Bibbia ed il Veda, per quel che concerne l’ordine dello sviluppo degli elementi sensibili. In ogni caso, si può trovare, in ciò che abbiamo detto, l’indicazione di tre sensi sovrapposti, che si riferiscono rispettivamente ai tre gradi fondamentali della manifestazione (informale, sottile, grossolana), che sono desi­gnati come ì «tre mondi» (Tribhuvana) dalla tradizione indù.   Que­sti tre mondi figurano altresì nella Qabbalah ebraica con i nomi di Beriah, Ietsirah, Asiah; al di sopra di tutti sta Atsiluth, lo stato prin­cipiale della non manifestazione]. Tuttavia, bisogna qui restringere il suo senso generale, poiché Buddhi, pur essendo informale e so­pra individuale, è ancora manifestata, e, poi, deriva da Prakriti di cui è la prima produzione; l’acqua non può dunque qui rappresentare che l’insieme potenziale delle possibilità formali, vale a dire il dominio della manifestazione in modo individuale, e così essa lascia fuori di sé quelle possibilità informali che, anche corrisponden­do a stati di manifestazione, debbono tuttavia essere riferite all’Universale [Se si conserva al simbolo dell’acqua il significato generale che ad esso è proprio, l’insieme delle possibilità formali è designato come le «Acque inferiori», e quello delle possibilità informali come le «Acque superiori». La separazione delle «Acque inferiori» e delle Acque superiori», al punto di vista cosmogonico, si trova anche descritta nella Genesi, I, 6 e 7; bisogna notare che la parola Maim, che designa l’acqua in ebraico, ha la forma del duale, ciò che, fra altri significati, può essere riferito al «duplice caos» delle possibilità formali ed informali allo stato potenziale. Le Acque primordiali, pri­ma della separazione, sono la totalità delle possibilità di manifesta­zione, in quanto costituisce l’aspetto potenziale dell’Essere Universa­le, vale a dire propriamente Prakriti. Lo stesso simbolismo offre ancora un altro senso superiore che si ottiene trasponendolo di là dal­l’Essere stesso: le Acque rappresentano allora la Possibilità Univer­sale, considerata in modo assolutamente totale, vale a dire in quanto abbraccia contemporaneamente, nella sua Infinità, il dominio della manifestazione e quello della non manifestazione. Quest’ultimo senso è il più elevato; al grado immediatamente inferiore, nella polarizzazione primordiale dell’Essere, vi è Prakriti, con la quale siamo ancora nel principio della manifestazione. Inoltre, seguitando a percorrere altri gradi inferiori, possiamo considerare i tre gradi di questa, come precedentemente l’abbiamo fatto: avremo allora, per i due primi, il «duplice caos» di cui già abbiamo parlato, e finalmente, per il mondo corporeo, l’Acqua in quanto elemento sensibile (Ap), quest’ultima trovandosi d’altronde già implicitamente contenuta, come tutto ciò che appartiene alla manifestazione grossolana, nel dominio delle «Ac­que inferiori», poiché la manifestazione sottile rappresenta la parte del Principio immediato e relativo in rapporto a questa manifestazione grossolana.   Quantunque queste spiegazioni siano un po’ lunghe, crediamo che non saranno inutili per far comprendere, con esem­pi, come si possa considerare una pluralità di significati e di applicazioni nei testi tradizionali].

     

    VI. I GRADI DELLA MANIFESTAZIONE INDIVIDUALE

     

    Noi dobbiamo ora enumerare i diversi gradi della manifestazione di Atma, considerato come la personalità, in quanto questa manifestazione costituisce l’individualità umana; e possiamo ben dire che essa la costi­tuisce effettivamente, poiché l’individualità non avreb­be esistenza se fosse separata dal suo principio, che è la personalità. Tuttavia, il nostro modo d’esprimerci ri­chiede una riserva: per la manifestazione d’Atma, inten­diamo la manifestazione riferita ad Atma, come al suo principio essenziale; ma non bisognerebbe perciò cre­dere che Atma si manifesti in qualche modo, poiché mai entra nella manifestazione, che non può condizionarlo. In altre parole, Atma è «Ciò per cui tutto è manife­stato, senza che sia da nulla manifestato» [Kena Upanishad, 1° Khanda, shruti 5 a 9; l’intero passo sarà riprodotto in seguito]; per quel che segue mai bisognerà dimenticare quanto abbiamo detto. Ricorderemo ancora che Atma e Purusha sono uno stesso ed unico principio, e che la manifestazione è prodotta da Prakriti, non da Purusha; ma, se il San­khya rileva soprattutto questa manifestazione come lo sviluppo o l’«attuazione» delle potenzialità di Prakriti, poiché il suo punto di vista è principalmente «cosmo­logico», non propriamente metafisico, il Vedanta deve scorgervi altra cosa, considerando Atma, che è fuori della modificazione e del «divenire», come il vero prin­cipio a cui tutto dev’essere infine riferito. Potremo dire che, a questo riguardo, v’è il punto di vista della «so­stanza» e quello dell’«essenza», ed è il primo che rap­presenta l’aspetto «cosmologico», poiché è quello della Natura e del «divenire»; ma, d’altra parte, la metafi­sica non si limita all’«essenza», concepita correlativa della «sostanza», e nemmeno all’Essere, nel quale que­sti due termini sono unificati; essa li supera entrambi, poiché s’estende anche a Paramatma o Purushottama, il Supremo Brahma, perciò il suo punto di vista (per quanto quest’espressione possa ancora usarsi in tal caso) è veramente illimitato.

    D’altra parte, quando parliamo dei differenti gradi della manifestazione individuale, facilmente si capisce che questi gradi corrispondono a quelli della manifesta­zione universale, per l’analogia costitutiva del «macro­cosmo» e del «microcosmo», alla quale più sopra allu­devamo. Meglio ancora si capirà se si rifletta che tutti gli esseri manifestati sono ugualmente sottomessi alle condizioni generali che definiscono gli stati d’esistenza nei quali essi sono posti; se, considerando un essere qualunque, è impossibile isolarne realmente uno stato dall’insieme degli altri stati fra i quali, ad un determi­nato livello, gerarchicamente si colloca, similmente non si può, ad un altro punto di vista, isolare questo stato da ciò che appartiene, non più allo stesso essere, ma allo stesso grado dell’Esistenza universale; così tutto è collegato in più modi, sia nella stessa manifestazione, sia in quanto questa, formando un insieme unico nella sua molteplicità indefinita, si riattacca al suo principio, vale a dire all’Essere, e quindi al Principio Supremo. La mol­teplicità esiste secondo il suo modo proprio, quando essa è possibile, ma siffatto modo è illusorio, abbiamo già avuto l’occasione di precisare in qual senso (quello di una «minore realtà»), perché l’esistenza stessa di questa molteplicità ha per base l’unità, da cui essa è prodotta e nella quale è principialmente contenuta. Con­siderando in tal modo l’insieme della manifestazione universale, diremo che, nella stessa molteplicità dei suoi gradi e dei suoi modi, «l’Esistenza è unica», secondo una formula dell’esoterismo islamico; a questo proposito, faremo notare una differenza importante fra «unicità» e «unità»: la prima comporta la molteplicità come tale, la seconda ne è il principio (non la «radice», nel senso in cui questa parola è riferita solamente a Prakriti, ma in quanto contiene in sé tutte le possibilità di manifestazione, tanto «essenzialmente» quanto «so­stanzialmente»). Dunque l’Essere è propriamente uno, ed è l’Unità stessa [È ciò che esprime anche l’adagio scolastico: Esse et unum convertuntur], in senso metafisico d’altronde, non in senso matematico, poiché siamo ormai di là dalla quantità: fra l’Unità metafisica e l’unità matematica, vi è analogia, non identità; parimenti, quando si parla della molteplicità della manifestazione universale, non si tratta nemmeno di una molteplicità quantitativa, poiché la quantità è solamente una condizione speciale di certi stati manifestati. Infine, se l’Essere è uno, il Prin­cipio Supremo è «senza dualità», come appresso vedre­mo: l’unità, infatti, è la prima di tutte le determina­zioni, ma è già una determinazione, e, come tale, non potrebbe essere riferita propriamente al Principio Su­premo.

    Dopo queste indispensabili nozioni, ritorniamo alla considerazione dei gradi della manifestazione: è neces­sario innanzi tutto fare una distinzione, come già l’ab­biamo veduto, fra la manifestazione informale e quella formale; ma, quando ci limitiamo all’individualità, si tratta sempre esclusivamente della seconda. Lo stato propriamente umano, parimenti che ogni altro stato in­dividuale, appartiene interamente all’ordine della mani­festazione formale, poiché è precisamente la presenza della forma, fra le condizioni d’un certo modo d’esisten­za, che lo caratterizza come individuale. Se dunque con­sideriamo un elemento informale, questo sarà perciò un elemento sopra individuale, e, quanto ai suoi rapporti con l’individualità umana, dovrà essere rilevato, non perché la costituisca o ne faccia parte ad un qualche ti­tolo, ma perché collega l’individualità alla personalità. Infatti quest’ultima è non manifestata, anche se è con­siderata più specialmente come il principio degli stati manifestati, parimenti all’Essere, che, pur essendo pro­priamente il principio della manifestazione universale, è al di fuori e di là da questa manifestazione (ricordia­mo qui il «motore immobile» d’Aristotele); ma, d’al­tra parte, la manifestazione informale è ancora princi­piale, in un senso relativo, in rapporto alla manifesta­zione formale; essa stabilisce così un legame fra questa ed il suo principio superiore non manifestato, che, del resto, è il principio comune a questi due ordini di manifestazione. Parimenti, se si distingue poi, nella mani­festazione formale od individuale, lo stato sottile e quello grossolano, il primo è, più relativamente ancora, principiale in rapporto al secondo, e, poi, si colloca gerarchicamente fra quest’ultimo e la manifestazione in­formale. Si ha dunque, per una serie di principi di più in più relativi e determinati, un concatenamento con­temporaneo logico ed ontologico (d’altronde i due pun­ti di vista si corrispondono tanto che è impossibile se­pararli se non artificialmente), che va dal non manife­stato alla manifestazione grossolana, per l’intermediario della manifestazione informale, poi di quella sottile; questo è l’ordine generale che dev’essere seguito nello sviluppo delle possibilità di manifestazione, sia che si tratti del «macrocosmo» o del «microcosmo».

    Gli elementi di cui parleremo sono i tattwa enume­rati dal Sankhya, tranne s’intende il primo e l’ultimo, vale a dire Prakriti e Purusha; come abbiamo visto, fra questi tattwa gli uni sono considerati «produzioni pro­duttive», gli altri «produzioni improduttive». Una questione si presenta a proposito: questa divisione è equivalente a quella che abbiamo precisato per i gradi della manifestazione, oppure le corrisponde per lo me­no in certo qual modo? Per esempio, se ci limitiamo al punto di vista dell’individualità, si potrebbe essere ten­tati di riferire i tattwa del primo gruppo allo stato sot­tile e quelli del secondo allo stato grossolano, tanto più che, in un certo senso, la manifestazione sottile è pro­duttrice di quella grossolana, mentre questa non è produttrice di nessun altro stato; ma le cose non vanno tanto semplicemente in realtà. Infatti, nel primo gruppo v’è soprattutto Buddhi, che è l’elemento informale al quale poc’anzi alludevamo; quanto agli altri tattwa che vi si trovano congiunti, ahankara ed i tanmatra, essi ap­partengono infatti al dominio della manifestazione sottile. D’altra parte, nel secondo gruppo, i bhuta appar­tengono incontestabilmente al dominio della manifesta­zione grossolana, poiché sono gli elementi corporei; ma il manas, non essendo affatto corporeo, dev’essere rife­rito alla manifestazione sottile, per lo meno in se stesso, quantunque la sua attività si eserciti anche in rapporto alla manifestazione grossolana; gli altri indriya hanno in qualche modo un aspetto duplice, potendo essere considerati nello stesso tempo come facoltà e come or­gani, dunque psichicamente e corporalmente, vale a dire allo stato sottile ed a quello grossolano. Del resto, deve ben essere inteso che quanto è rilevato della manifesta­zione sottile, in tutto ciò, non è altro propriamente se non quel che concerne lo stato individuale umano, nelle sue modalità extra corporee; e, quantunque queste siano superiori alla modalità corporea, in quanto ne conten­gono il principio immediato (nello stesso tempo che il loro dominio si prolunga molto più oltre), tuttavia, se le si ricolloca nell’insieme dell’Esistenza universale, esse apparterranno ancora allo stesso grado di quest’Esisten­za, nel quale è interamente compreso lo stato umano. La stessa osservazione si applica anche quando diciamo che la manifestazione sottile è produttrice di quella grossolana: perché ciò sia rigorosamente esatto, bisogna apportarvi, per quanto riguarda la prima, quella restri­zione che già abbiamo indicato, poiché lo stesso rap­porto non può essere stabilito per altri stati ugualmente individuali, ma non umani, ed interamente differenti per le loro condizioni (salvo la presenza della forma), stati che tuttavia si è obbligati ad includere anche nella manifestazione sottile, quando l’individualità umana è presa per termine di paragone, come è necessario inevi­tabilmente farlo, anche rendendosi conto che questo stato è in realtà né più né meno d’un qualsiasi altro.

    Un’ultima osservazione è ancora necessaria: allorché si parla dell’ordine di sviluppo delle possibilità di mani­festazione, o dell’ordine nel quale debbono essere enu­merati gli elementi che corrispondono alle differenti fasi di questo sviluppo, bisogna aver cura di precisare che un tale ordine non implica che una successione puramente logica, che traduce d’altronde un collegamento ontolo­gico reale, e che in nessun modo potrebbe parlarsi qui d’una successione temporale. Infatti, lo sviluppo nel tempo non corrisponde che ad una speciale condizione d’esistenza, che è una di quelle che definiscono il domi­nio nel quale è contenuto lo stato umano; e vi è una serie indefinita d’altri modi di sviluppo ugualmente pos­sibili ed ugualmente compresi nella manifestazione uni­versale. L’individualità umana non può dunque essere situata temporalmente in rapporto agli altri stati del­l’essere, poiché essi, in modo generale, sono extra tem­porali, e ciò anche quando si tratta di stati che ugual­mente rilevano della manifestazione formale. Potremmo ancora aggiungere che certe estensioni dell’individualità umana, al di fuori della sua modalità corporea, già sfug­gono al tempo, senza essere però sottratte alle altre con­dizioni generali dello stato al quale appartiene questa individualità, perciò esse si situano veramente in sem­plici prolungamenti di questo stesso stato; ed avremo senza dubbio l’occasione di spiegare, in altri studi, che tali prolungamenti possono precisamente essere raggiunti col sopprimere l’uno o l’altra delle condizioni il cui insieme completo definisce il mondo corporeo. Se così è, s’intende naturalmente che non potrebbe, a più forte ragione, essere questione di fare intervenire la con­dizione temporale in quel che non appartiene più allo stesso stato, né conseguentemente nei rapporti dello stato umano integrale con altri stati; e, ancora a più forte ragione, non lo si può fare quando si tratta di un principio comune a tutti gli stati di manifestazione, o di un elemento che, anche se già manifestato, è superiore ad ogni manifestazione formale, come quello che pren­deremo in esame in primo luogo.

     

    VII. BUDDHI O L’INTELLETTO SUPERIORE

     

    Il primo grado della manifestazione d’Atma, usando questa parola nel senso già precisato nel capitolo prece­dente, è l’intelletto superiore (Buddhi), anche chiamato Mahat o il «grande principio»: è il secondo dei venti­cinque principi del Sankhya, dunque la prima di tutte le produzioni di Prakriti. Questo principio è ancora d’ordine universale, poiché è informale; tuttavia, non bisogna dimenticare che già appartiene alla manifesta­zione, perciò procede da Prakriti; infatti ogni manife­stazione, in qualunque grado la si considera, presup­pone necessariamente questi due termini correlativi e complementari, Purusha e Prakriti, l’«essenza» e la «sostanza». Non è men vero che Buddhi è in realtà di là dal dominio, non soltanto dell’individualità umana, ma di ogni stato individuale, qualunque esso sia; ciò giustifica il suo nome di Mahat; essa non è dunque mai individualizzata in realtà, e non è che allo stadio se­guente che noi troveremo l’individualità effettuata con la coscienza particolare (o meglio «particolarista») del­l’«io».

    Buddhi, considerata in rapporto all’individualità umana od agli altri stati individuali, ne è dunque il principio immediato, ma trascendente, come, al punto di vista dell’Esistenza universale, la manifestazione in­formale l’è per quella formale; essa è contemporanea­mente ciò che si potrebbe chiamare l’espressione della personalità nella manifestazione, dunque ciò che unifica l’essere attraverso la molteplicità indefinita dei suoi stati individuali (poiché lo stato umano, in tutta la sua esten­sione, è appena uno di questi stati). In altre parole, se si considera il «Sé» (Atma) o la personalità come il Sole spirituale [Per il senso che conviene dare a quest’espressione, rinviamo al­l’osservazione già fatta a proposito dello «Spirito Universale»] che brilla al centro dell’essere totale, Buddhi sarà il raggio direttamente emanato da questo Sole ed illuminante, nella sua integralità, lo stato indi­viduale che considereremo più specialmente; questo rag­gio ricollega al tempo stesso lo stato considerato agli altri stati individuali dello stesso essere, od anche, più generalmente, a tutti i suoi stati manifestati (individuali e non individuali), e di la da essi al centro stesso. È ­bene d’altronde notare, senza troppo insistervi, per at­tenerci al seguito della nostra esposizione, che, per l’u­nità fondamentale dell’essere in tutti i suoi stati, si deve considerare il centro di ogni stato, nel quale si proietta questo raggio spirituale, come identificato virtualmente, se non effettivamente, col centro dell’essere totale; per­ciò qualunque stato, tanto l’umano quanto gli altri, può essere la base per realizzare l’«Identità Suprema». È precisamente in questo senso ed in virtù di questa iden­tificazione che si può asserire, come l’abbiamo detto fin dal primo momento, che Purusha stesso risiede al cen­tro dell’individualità umana, vale a dire al punto dove l’intersezione del raggio spirituale con le possibilità vi­tali determina l’«anima vivente» (jivatma) [È evidente che qui vogliamo parlare non d’un punto matema­tico, ma di ciò che si potrebbe chiamare analogicamente un punto metafisico, senza tuttavia che una tale espressione debba evocare l’i­dea della monade leibnitziana, poiché jivatma non è che una mani­festazione particolare e contingente d’Atma: la sua esistenza separata è propriamente illusoria. Il simbolismo geometrico al quale ci rife­riamo sarà d’altronde esposto in un altro studio con gli sviluppi ai quali è suscettibile].

    D’altra parte, Buddhi, come tutto ciò che proviene dallo sviluppo delle potenzialità di Prakriti, partecipa dei tre guna; perciò, considerata nel rapporto della co­noscenza distintiva (vjinana), essa è concepita come ter­naria, e, nell’ordine dell’Esistenza universale, è allora identificata alla Trimurti divina: «Mahat è concepito distintamente come tre Dii (nel senso di tre aspetti della Luce intelligibile; tale è propriamente il significato del vocabolo sanscrito Deva, di cui il nome «Dio» è etimo­logicamente d’altronde l’esatto equivalente) [Se si desse al termine «Dio» il senso che ad esso è stato ulte­riormente attribuito nelle lingue occidentali, il plurale sarebbe un non senso, sia dal punto di vista indù che da quello giudaico cristiano ed islamico, poiché questo termine, come precedentemente l’abbiamo spiegato, non potrebbe allora applicarsi che ad Ishwara esclusiva­mente, nella sua indivisibile unità, che è quella dell’Essere Universale, qual che sia la molteplicità degli aspetti che vi si possono consi­derare secondariamente], per l’in­fluenza dei tre guna, poiché è una sola manifestazione (murti) in tre Dii. Nell’Universale, esso è la Divinità (Ishwara, non in sé, ma nei suoi tre aspetti principali di Brahma, Vishnu e Shiva, cioè la Trimurti o «triplice manifestazione»); ma, considerato distributivamente (nell’aspetto, d’altronde puramente contingente, della «separativita»), appartiene (senza peraltro essere individualizzato) agli esseri individuali (ai quali comunica la possibilità di partecipazione agli attributi divini, vale a dire alla natura stessa dell’Essere Universale, princi­pio di ogni esistenza)» [Matsya Purana.   Si noterà che Buddhi non è senza relazione col Logos alessandrino]. È facile vedere che Buddhi è qui rilevata in relazione rispettiva con i primi due dei tre Purusha della Bhagavad Gita: nell’ordine «macro­cosmico», infatti, quello che è designato «immutabile» è Ishwara stesso, di cui la Trimurti ne è l’espressione in modo manifestato (si tratta della manifestazione infor­male, poiché in questo caso niente v’è d’individuale); l’altro Purusha invece è detto «ripartito fra tutti gli es­seri». Ugualmente, nell’ordine «microcosmico», Bud­dhi può essere nello stesso tempo considerata in rap­porto alla personalità (Atma) ed all’«anima vivente» (jivatma), quest’ultima d’altronde non essendo che il ri­flesso della personalità nello stato individuale umano, riflesso che non potrebbe esistere senza l’intermediario di Buddhi: ricordiamo a proposito il simbolo del sole e della sua immagine riflessa nell’acqua; Buddhi è, già l’abbiamo detto, il raggio che determina la formazione dell’immagine e che, contemporaneamente, la ricollega alla sorgente luminosa.

    È proprio in virtù del duplice rapporto indicato, e di questa parte d’intermediario fra la personalità e l’individualità, che si può considerare, malgrado tutto ciò che v’è di necessariamente inadeguato in tali espressioni, l’intelletto come passante in un certo senso dallo stato di potenza universale allo stato individualizzato. D’al­tronde, l’intelletto non cessa perciò veramente di essere quello che era; la sua apparente individualizzazione non esiste che per il fatto della sua intersezione col dominio speciale di certe condizioni d’esistenza, dalle quali è de­finita l’individualità considerata; esso produce allora, come risultante di questa intersezione, la coscienza indi­viduale (ahankara), implicita nell’«anima vivente» (jivatma), alla quale è inerente. Questa coscienza, che è il terzo principio del Sankhya, dà nascita alla nozione dell’«io» (aham, da dove proviene il nome d’ahankara, letteralmente, «ciò che fa l’io»), poiché ha per funzio­ne propria di prescrivere la convinzione individuale (abhimana), vale a dire precisamente la nozione dell’«io sono» in rapporto agli oggetti esterni (bahya) ed in­terni (abhyantara), rispettivamente oggetti di percezio­ne (pratyaksha) e di contemplazione (dhyana); l’insie­me di questi oggetti è designato con la parola idam, «questo», quando è così concepito in opposizione con aham o l’«io», opposizione tutta relativa del resto e molto differente da quella che i filosofi moderni preten­dono stabilire fra «soggetto» ed «oggetto», o fra lo «spirito» e le «cose». Così la coscienza individuale procede immediatamente, ma a titolo di semplice modalità «condizionale», dal principio intellettuale, e, a sua volta, produce gli altri principi od elementi speciali dell’individualità umana, di cui ora ci occuperemo.

     

    VIII. MANAS O IL SENSO INTERNO; LE DIECI FACOLTÀ ESTERNE DI SENSAZIONE E D’AZIONE

     

    Dopo la coscienza individuale (ahankara), l’enume­razione dei tattwa del Sankhya comporta, nello stesso gruppo delle «produzioni produttive», i cinque tanma­tra, determinazioni elementari sottili, dunque incorpo­ree e non percettibili esteriormente; i tanmatra sono, in modo diretto, i principi rispettivi dei cinque bhuta od elementi corporei e sensibili, ed hanno la loro definita espressione nelle condizioni stesse dell’esistenza indivi­duale al grado dove si colloca lo stato umano. La paro­la tanmatra significa letteralmente un’«assegnazione» (matra, misura, determinazione) che delimita l’estensio­ne propria d’una certa qualità (tad o tat, pronome neu­tro «quello», nel senso di «quiddità», come l’arabo dhat) [Crediamo opportuno far notare che i termini tat e dhat sono foneticamente identici fra loro, e lo sono anche con la parola inglese that, che ha lo stesso significato] nell’Esistenza universale; ma non è qui il luogo di sviluppare più ampiamente questo punto. Diremo soltanto che i cinque tanmatra sono abitualmente desi­gnati con i nomi delle qualità sensibili: auditiva o so­nora (shabda), tangibile (sparsha), visibile (rupa, nel duplice significato di forma e di colore), sapida (rasa), olfattiva (gandha); ma siffatte qualità, poiché saranno effettivamente manifestate nell’ordine sensibile soltanto dai bhuta, non possono essere qui considerate che allo stato principiale e «non sviluppato»; la relazione dei tanmatra ai bhuta è analoga, nel suo grado relativo, a quella fra l’«essenza» e la «sostanza», perciò i tanma­tra potrebbero giustamente chiamarsi «essenze elemen­tari» [In un senso molto vicino alla considerazione dei tanmatra, Fabre d’Olivet, nella sua interpretazione della Genesi (La Langue hebraïque restituée), usa l’espressione d’«elementizzazione intelli­gibile»]. I cinque bhuta sono, nell’ordine della loro pro­duzione o della loro manifestazione (che corrisponde a quello già indicato per i tanmatra, poiché ad ogni ele­mento è propria una qualità sensibile), l’Etere (Aka­sha), l’Aria (Vayu), il Fuoco (Tejas), l’Acqua (Ap) e la Terra (Prithvi o Prithivi); tutta la manifestazione gros­solana o corporea è appunto formata da questi ele­menti.

    Fra i tanmatra ed i bhuta, e costituendo con questi ultimi il gruppo delle «produzioni improduttive», vi sono undici facoltà distinte, propriamente individuali, che procedono d’ahankara, e che partecipano tutte con­temporaneamente dei cinque tanmatra. Dieci di queste undici facoltà sono esterne: cinque di sensazione ed al­trettante d’azione; l’undecima, la cui natura partecipa contemporaneamente di queste e di quelle, è il senso interno o la facoltà mentale (manas), che è unita alla coscienza (ahankara) direttamente [Sulla produzione di questi lavori principi, dal punto di vista «macrocosmico», cfr. Manava Dharma Shastra (Legge di Manu), 1° Adhyaya, shloka 14 a 20]. A questo manas deve essere riferito il pensiero individuale, d’ordine formale (e vi includiamo tanto la ragione quanto la memo­ria e l’immaginazione) [Indubbiamente bisogna intendere in questo senso ciò che dice Aristotele: «l’uomo (in quanto individuo) mai pensa senza immagini», vale a dire senza forme], e per nulla inerente all’intelletto trascendente (Buddhi), le cui attribuzioni sono essen­zialmente informali. Ugualmente per Aristotele, l’intel­letto puro è d’ordine trascendente ed ha per oggetto proprio la conoscenza dei principi universali; questa co­noscenza, nient’affatto discorsiva, è ottenuta direttamen­te ed immediatamente dall’intuizione intellettuale, la quale, aggiungiamo subito per evitare confusioni, non ha alcun punto comune con la pretesa «intuizione», d’or­dine unicamente sensitivo e vitale, così in voga nelle teorie nettamente antimetafisiche di certi filosofi con­temporanei.

    Sullo sviluppo delle differenti facoltà dell’uomo in­dividuale, riprodurremo l’insegnamento dei Brahma Sutra: «L’intelletto, il senso interno e le facoltà di sen­sazione e d’azione sono sviluppati (nella manifestazio­ne) e riassorbiti (nel non manifestato) in un simile or­dine (ma, per il riassorbimento, in senso inverso che per lo sviluppo) [Ricorderemo che non si tratta d’un ordine di successione tem­porale], ordine che è sempre quello degli ele­menti da cui procedono queste facoltà per la loro costi­tuzione [Può trattarsi contemporaneamente dei tanmatra e dei bhuta, secondo che gli indriya siano considerati allo stato sottile o a quello grossolano, cioè come facoltà o come organi] (tranne tuttavia l’intelletto, che è sviluppato, nell’ordine informale, precedentemente ad ogni princi­pio formale o propriamente individuale). Riguardo a Purusha (o Atma), la sua emanazione (in quanto è considerato come la personalità d’un essere) non è una na­scita (neanche nella più vasta accezione della parola [Si può, infatti, chiamare «nascita» e «morte» il principio e la fine d’un ciclo qualunque, vale a dire dell’esistenza in uno qualsiasi degli stati di manifestazione, e non solamente in quello umano; come appresso lo spiegheremo, il passaggio da uno stato ad un altro è allora contemporaneamente una morte ed una nascita, secondo lo si consi­dera in rapporto allo stato antecedente o conseguente] e tanto meno una produzione (che determini un punto di partenza per la sua effettiva esistenza, come per tutto ciò che proviene da Prakriti). Non può infatti essere ad esso attribuita alcuna limitazione (per qualche partico­lare condizione d’esistenza), poiché, essendo identificato al Supremo Brahma, partecipa della Sua essenza infini­ta [La parola «essenza», quando si applica così analogicamente, non è più il correlativo di «sostanza»; d’altronde, ciò che ha un qua­lunque correlativo non può essere infinito. Parimenti, la parola «na­tura», riferita all’Essere Universale od anche di là dall’Essere, perde interamente il suo senso proprio ed etimologico, con l’idea di «dive­nire» che vi si trova implicita] (che implica il possesso degli attributi divini, per lo meno virtualmente, ed anche attualmente in quanto questa partecipazione è realizzata effettivamente nel­l’«Identità Suprema», senza parlare di tutto ciò che è di la da ogni attribuzione, poiché qui si tratta del Su­premo Brahma, che è nirguna, non soltanto di Brahma saguna, vale a dire d’Ishwara) [Il possesso degli attributi divini è chiamato in sanscrito aishwa­rya, poiché è una vera «connaturalità» con Ishwara]. Esso è attivo, ma solo principialmente (dunque «non agente») [Aristotele ha avuto ragione d’insistere anche su questo punto, che il primo motore delle cose (o il principio del movimento) dev’es­sere immobile; ciò, in altre parole, significa che il principio di ogni azione dev’essere «non agente»], poiché que­sta attività (kartritwa) non gli è né essenziale né inerente, bensì eventuale e contingente (relativa solamente ai suoi stati di manifestazione). Come il carpentiere, che ha in mano l’ascia e gli altri suoi utensili, li mette poi da parte e gode della tranquillità e del riposo, così quest’Atma, nell’unione con i suoi strumenti (per cui le sue facoltà principiali sono espresse e sviluppate in ogni suo stato di manifestazione, e che quindi sono queste facoltà manifestate con i loro rispettivi organi), è attivo (quantunque questa attività non ne alteri l’intima na­tura), e, deponendoli, gode del riposo e della tranquillità (nel «non agire», da cui, in se, non è mai uscito)» [Brahma Sutra, 2° Adhyaya, 3° Pada, sutra 15 a 17 e 33 a 40].

    «Le diverse facoltà di sensazione e d’azione (desi­gnate con la parola prana in un’accezione secondaria) sono undici: cinque di sensazione (buddhindrya o jna­nendrya, mezzi o strumenti di conoscenza nel loro cam­po particolare), cinque d’azione (karmendriya), ed il senso interno (manas). Quando un numero più grande (tredici) è specificato, il vocabolo indriya è usato nel suo senso più ampio e comprensivo, distinguendo nel manas, per la pluralità delle sue funzioni, l’intelletto (non in sé e nell’ordine trascendente, ma come determi­nazione particolare in rapporto all’individuo), la co­scienza individuale (akankara, da cui il manas non può essere separato), ed il senso interno propriamente detto (quello che i filosofi scolastici chiamano «sensorium commune»). Quando un numero più piccolo è menzionato (ordinariamente sette), la stessa parola è usata in un’accezione più limitata: così è detto di sette organi sensitivi, relativi ai due occhi, ai due orecchi, alle due narici ed alla bocca od alla lingua (perciò in questo caso, si tratta soltanto delle sette aperture od orifizi della testa). Le undici facoltà menzionate (quantunque desi­gnate nel loro insieme con la parola prana) non sono (come i cinque vayu, di cui parleremo) semplici modificazioni del mukhya prana o dell’atto vitale principale (la respirazione, con l’assimilazione che ne risulta), ma invece principi distinti (al punto di vista speciale del­l’individualità umana)» [Brahma Sutra, 2° Adhyaya, 4° Pada, sutra 1 a 7].

    La parola prana, nella sua più abituale accezione, si­gnifica propriamente «soffio vitale»; ma, in certi testi vedici, ciò che è così designato è, in senso universale, identificato in principio allo stesso Brahma; infatti è detto che nel sonno profondo (sushupti) le facoltà sono riassorbite nel prana, poiché, «mentre un uomo dorme senza sognare, il suo principio spirituale (Atma, consi­derato in rapporto ad esso) è uno con Brahma» [Commento di Shankaracharya sui Brahma Sutra, 3° Adhyaya, 2° Pada, sutra 7], que­sto stato essendo oltre la distinzione, dunque veramente sopra individuale; perciò la parola swapiti, «dorme», è interpretata con swam apito bhavati, «è entrato nel suo proprio («Sé»)» [Chhandogya Upanishad, 6° Prapathaka, 8° Khanda, shruti 1.   È inutile dire che si tratta d’una interpretazione per i procedimenti del Nirukta, non di una derivazione etimologica].

    Il vocabolo indriya significa propriamente «potere», ciò che è anche il senso primo della parola «facoltà»; ma, per estensione, il suo significato, come già l’abbia­mo indicato, implica contemporaneamente la facoltà ed il suo organo corporeo, il cui insieme costituisce uno strumento sia di conoscenza (buddhi o jnana, queste parole sono qui prese nella loro più vasta accezione), sia d’azione (karma), e che sono così designate da uno stes­so ed un unico vocabolo. I cinque strumenti di sensa­zione sono: gli orecchi o l’udito (shrotra), la pelle o il tatto (twach), gli occhi o la vista (cakshus), la lingua od il gusto (rasana), il naso o l’odorato (ghrana), essen­do così enumerati nell’ordine dello sviluppo dei sensi, vale a dire quello degli elementi (bhuta) corrispondenti; ma, per esporre dettagliatamente questa corrisponden­za, bisognerebbe specificare completamente le condi­zioni dell’esistenza corporea, ciò che non possiamo fare a questo proposito. I cinque strumenti d’azione sono: gli organi di escrezione (payu), gli organi generatori (upastha), le mani (pani), i piedi (pada), e finalmente la voce o l’organo della parola (vach) [Il termine vach è identico al latino vox], che è enumerato decimo. Il manas dev’essere considerato l’undecimo, poiché implica per la sua propria natura la duplice fun­zione, serve cioè alla sensazione ed all’azione, e poi, partecipa alle proprietà degli uni e degli altri strumenti, che centralizza in certo modo in se stesso [Manava Dharma Shastra, 2° Adhyaya, shloka 89 a 92].

    Per il Sankhya, queste facoltà, con i loro organi ri­spettivi, sono, distinguendo tre princìpi nel manas, i tre­dici strumenti della conoscenza nel dominio dell’indivi­dualità umana (poiché l’azione non ha il suo fine in se stessa, ma solo in relazione con la conoscenza): tre in­terni e dieci esterni, paragonati a tre sentinelle ed a dieci porte (il carattere cosciente essendo inerente ai primi, non ai secondi, se considerati distintivamente). Un senso corporeo percepisce, ed un organo d’azione esegue (l’uno è in certo senso una «entrata», l’altro una «uscita»: sono due fasi successive e complemen­tari, di cui la prima e un movimento centripeto e la se­conda centrifugo); fra i due, il senso interno (manas) esamina; la coscienza (ahankara) compie il riferimento individuale, vale a dire l’assimilazione della percezione all’«io», di cui essa ormai fa parte a titolo di modifica­zione secondaria; e, finalmente, l’intelletto puro (Bud­dhi) traspone nell’Universale i dati delle facoltà pre­cedenti.

     

    IX. GLI INVOLUCRI DEL «SÉ»; I CINQUE VAYU O FUNZIONI VITALI

     

    Purusha o Atma, manifestandosi come jivatma nella forma vivente dell’essere individuale, secondo il Vedanta, si riveste con una serie d’«involucri» (kosha) o «veicoli» successivi, che rappresentano altrettante fasi della sua manifestazione; sarebbe però completamente erroneo assimilare a «corpi» questi involucri, perché l’ultima fase soltanto è d’ordine corporeo. Del resto, non si può rigorosamente affermare che Atma sia in realtà contenuto in questi involucri, perché, per la sua propria natura, non è suscettibile di alcuna limitazione, né può essere condizionato da qualche stato di manife­stazione [Nella Taittiriya Upanishad, 2° Valli, 8° Anuvaka, shruti 1, e 3° Valli, 10° Anuvaka, shruti 5, le designazioni dei diversi involucri sono direttamente riferite al «Sé», secondo lo si consideri in rap­porto a tale o talaltro stato di manifestazione].

    Il primo involucro (anandamaya kosha, la particella maya significa «che è fatto di» o «che consiste in» ciò che specifica il vocabolo al quale è unita) è l’insieme di tutte le possibilità di manifestazione che Atma com­porta in sé, nella sua «permanente attualità», allo stato principiale ed indifferenziato. Si dice «fatto di Beatitudine» (Ananda), poiché il «Sé», in questo stato pri­mordiale, gode della pienezza del suo proprio essere, e non è affatto veramente distinto dal «Sé»; esso è supe­riore all’esistenza condizionata, che lo presuppone, ed è al grado dell’Essere puro: perciò è ritenuto come carat­teristica d’Ishwara [Mentre le altre designazioni (quelle dei quattro involucri se­guenti) possono essere considerate come caratterizzanti jivatma, quel­la d’anandamaya conviene, non solamente ad Ishwara, ma, per tra­sposizione, anche a Paramatma od al Supremo Brahma; perciò è detto nella Taittiriya Upanishad, 2° Valli, 5° Anuvaka, shruti 1: «L’altro Sé interiore (anyo’ntara Atma), che consiste in Beatitudine (ananda­maya), è differente da quello che consiste in conoscenza distintiva (vijnanamaya)».   Cfr. Brahma Sutra, 1° Adhyaya, 1° Pada, sutra 12 a 19]. Siamo qui dunque nell’ordine in­formale; è solamente quando lo si considera in rapporto alla manifestazione formale, ed in quanto il principio di questa vi si trova contenuto, che si può dire che è la forma principiale o causale (karana sharira), ciò per cui la forma sarà manifestata ed attualizzata agli stadi se­guenti.

    Il secondo involucro (vijnanamaya kosha) è formato dalla Luce (nel senso intelligibile), direttamente riflessa, della Conoscenza integrale ed universale (jnana, la par­ticella vi implicando il modo distintivo) [La parola sanscrita jnana è identica al greco  per la ra­dice, che, d’altronde, è anche quella del vocabolo «conoscenza» (da co gnoscere), e che esprime un’idea di «produzione» o di «genera­zione», poiché l’esame «diviene» ciò che conosce e si realizza appun­to per questa conoscenza]; esso è altresì composto delle cinque «essenze elementari» (tanma­tra), «concepibili», ma non «percettibili», nel loro stato sottile; e consiste nella congiunzione dell’intel­letto superiore (Buddhi) alle facoltà principiali di percezione che procedono rispettivamente dai cinque tanma­tra, ed il cui sviluppo esteriore costituirà i cinque sensi nell’individualità corporea [Il vocabolo sharira s’applica propriamente a partire da questo secondo involucro, soprattutto se si dà a questa parola, interpretata per i metodi del Nirukta, il senso di «dipendente dai sei (principi)», vale a dire da Buddhi (o d’ahankara, che direttamente ne deriva e che è il primo principio d’ordine individuale) e dai cinque tanmatra (Manava Dharma Shastra, 1° Adhyiya, shloka 17)]. Il terzo involucro (mano­maya kosha), nel quale il senso interno (manas) è unito con il precedente involucro, implica specialmente la co­scienza mentale [Con questa espressione vogliamo intendere qualche cosa di più, quanto determinazione, della coscienza individuale pura e semplice: si potrebbe dire che è la risultante dell’unione del manas con ahan­kara] o facoltà pensante, che, come prece­dentemente abbiamo detto, è d’ordine esclusivamente individuale e formale, ed il cui sviluppo procede dall’ir­radiazione in modo riflesso dell’intelletto superiore in uno stato individuale determinato, che è qui lo stato umano. Il quarto involucro (pranamaya kosha) com­prende le facoltà che procedono dal «soffio vitale» (pra­na), cioè i cinque vayu (modalità di questo prana), nonché le facoltà d’azione e di sensazione (queste ultime già esistevano principialmente nei due precedenti invo­lucri, come facoltà puramente «concettive», quando, d’altra parte, non poteva essere affatto questione di alcu­na specie d’azione, e nemmeno di percezione esteriore). L’insieme di questi tre involucri (vijnanamaya, mano­maya e pranamaya) costituisce la forma sottile (suksh­ma sharira o linga sharira), in opposizione a quella gros­solana o corporea (sthula sharira); ritroviamo qui dunque la distinzione dei due modi di manifestazione for­male, di cui già più volte abbiamo parlato.

    Le cinque funzioni od azioni vitali sono chiamate vayu, quantunque non siano propriamente l’aria od il vento (che è il senso generale della parola vayu o vata, dalla radice verbale va, andare, muoversi, che abitual­mente designa l’elemento aria, di cui la mobilità è una proprietà caratteristica) [Ci riferiremo, a questo proposito, a quello che abbiamo detto in una precedente nota in merito alle differenti applicazioni della parola ebraica Ruahh, che corrisponde abbastanza esattamente al sanscrito Vayu], tanto più che si riferiscono allo stato sottile, non a quello corporeo; ma, come di­cemmo, esse sono modalità del «soffio vitale» (prana, o più generalmente ana) [La radice an si ritrova, con lo stesso senso, nel greco  «soffio» o «vento», e nel latino anima, il cui senso proprio e primitivo è esattamente quello di «soffio vitale»], rilevato principalmente in rapporto alla respirazione. Queste funzioni sono: 1° l’a­spirazione, vale a dire la respirazione ascendente nella sua fase iniziale (prana, nel senso più stretto della pa­rola), che attira gli elementi non ancora individualizzati dell’ambiente cosmico, per farli partecipare, per assimi­lazione, alla coscienza individuale; 2° l’ispirazione di­scendente in una fase successiva (apana), per la quale questi elementi penetrano nell’individualità; 3° una fase intermediaria fra le due precedenti (vyana), che, da una parte, consiste nell’insieme delle azioni e reazioni reci­proche, prodotte dal contatto fra l’individuo e gli ele­menti ambienti, e, d’altra parte, nei diversi movimenti vitali che ne risultano, la cui corrispondenza nell’orga­nismo corporeo è la circolazione sanguigna; 4° la espirazione (udana), che proietta il soffio, e lo trasforma, di là dai limiti dell’individualità ristretta (cioè ridotta alle sole modalità che sono comunemente sviluppate per tutti gli uomini), nel campo delle possibilità dell’individualità estesa, considerata nella sua integralità [La parola «espirare» significa contemporaneamente «ricacciare il soffio» (nella respirazione) e «morire» (quanto alla parte corporea dell’individualità umana); questi due sensi sono entrambi in rapporto con l’udana di cui si tratta]; 5° la digestione, o l’assimilazione sostanziale intima (sama­na), per la quale gli elementi assorbiti divengono parte integrante dell’individualità [Brahma Sutra, 2° Adhyaya, 4° Pada, sutra 8 a 13.   Chhandogya Upanishad, 5° Prapathaka, 19° a 23° Khanda; Maitri Upanishad 2° Prapathaka, shruti 6]. È nettamente specificato che non si tratta d’una semplice operazione d’uno o più organi corporei; ciò infatti non dev’essere considerato solamente per le funzioni fisiologiche analogicamente corrispondenti, ma anche per l’assimilazione vitale nel suo più vasto senso.

    La forma corporea o grossolana (sthula sharira) è il quinto ed ultimo involucro, quello che corrisponde, per lo stato umano, al modo di manifestazione più esterio­re; è l’involucro alimentare (annamaya kosha), compo­sto dei cinque elementi sensibili (bhuta), a cominciare dai quali sono costituiti tutti i corpi. Esso si assimila gli elementi composti che ha ricevuto dal cibo (anna, pa­rola derivata dalla radice verbale ad, mangiare) [Questa radice è quella del latino edere, ed anche, quantunque in una forma più alterata, dell’inglese eat e del tedesco essen], secer­nendo le parti più fini, che stanno nella circolazione or­ganica, ed escretando o rigettando le più grossolane, tranne tuttavia quelle deposte nelle ossa. Come risultato di questa assimilazione, le sostanze terree diven­tano la carne, quelle acquee il sangue, quelle ignee il grasso, il midollo ed il sistema nervoso (materia fosfo­rica); poiché vi sono sostanze corporee nelle quali la natura di taluno o talaltro elemento predomina, quan­tunque tutte siano formate dall’unione dei cinque ele­menti [Brahma Sutra, 2° Adhyaya, 4° Pada, sutra 21.   Cfr. Chhan­dogya Upanishad, 6° Prapathaka, 5° Khanda, shruti 1 a 3].

    Qualunque essere organizzato, che sta in una siffatta forma corporea, possiede, ad un grado di sviluppo più o meno completo, le undici facoltà individuali di cui ab­biamo precedentemente parlato; come già ugualmente l’abbiamo detto, queste facoltà sono manifestate nella forma dell’essere dagli undici organi corrispondenti (avayava, designazione che è del resto riferita anche allo stato sottile, ma soltanto per analogia con quello gros­solano). Per Shankaracarya [Commento sui Brahma Sutra, 3° Adhyaya, 1° Pada, sutra 10 e 21.   Cfr. Chhandogya Upanishad, 6° Prapathaka, 3° Khanda, shruti 1; Aitareya Upanishad, 5° Khanda, shruti 3. Quest’ultimo testo, oltre le tre classi d’esseri viventi enumerate negli altri, ne menziona una quarta: gli esseri nati dal calore umido (swedaja); ma questa classe può essere riferita a quella dei germinipari], si distinguono tre classi d’esseri organizzati, secondo il loro modo di riproduzione: 1° i vivipari (jivaja o yonija, od ancora jarayuja), cioè l’uomo ed i mammiferi; 2° gli ovipari (andaia), cioè gli uccelli, i rettili, i pesci, gl’insetti; 3° i germinipari (udbhijja), che comprendono contemporaneamente gli animali inferiori ed i vegetali, i primi, mobili, che na­scono principalmente nell’acqua, mentre i secondi, che sono fissi, nascono abitualmente dalla terra; tuttavia, secondo certi passi dei Veda, il cibo (anna), cioè il vege­tale (oshadhi), procede anche dall’acqua, poiché è la pioggia (varsha) che fertilizza la terra [Specialmente vedi Chhandogya Upanishad, 1° Prapathaka, 1° Khanda, shruti 2: «i vegetali sono l’essenza (rasa) dell’acqua»; 3° Prapathaka, 6° Khanda, shruti 2, e 7° Prapathaka, 4° Kanda, shruti 2: anna proviene o procede da varsha.   La parola rasa letteralmente significa «linfa», e, come già dicemmo, significa anche «gusto» o «sapore»; del resto, in francese ugualmente, le parole sève, «linfa», e saveur, «sapore», hanno una stessa radice (sap), che è nello stesso tempo quella di savoir, «sapere», per l’analogia che esiste fra l’as­similazione nutritiva nell’ordine corporeo e quella cognitiva nell’or­dine intellettuale e mentale.   È d’uopo significare che la parola anna designa qualche volta l’elemento terra, l’ultimo nell’ordine dello svi­luppo, e che deriva anche dall’elemento acqua, che immediatamente lo precede (Chhandogya Upanishad, 6° Prapathaka, 2° Khanda, shruti 4)].

     

    X. UNITÀ ED IDENTITÀ ESSENZIALI DEL «SÉ» IN TUTTI GLI STATI DELL’ESSERE

     

    Crediamo qui opportuno insistere su un punto es­senziale: tutti i principi o gli elementi di cui abbiamo parlato, che sono descritti come distinti, e che effettiva­mente lo sono dal punto di vista individuale, ma tutta­via esclusivamente a questo punto di vista, costituiscono realmente altrettante modalità manifestate dello «Spi­rito Universale» (Atma). In altre parole, quantunque accidentali e contingenti in quanto manifestati, essi sono l’espressione di alcune essenziali possibilità d’Atma (quelle che, per la loro natura, sono possibilità di mani­festazione); queste possibilità, in principio e nella loro profonda realtà, non si distinguono affatto da Atma. Perciò le si deve considerare, nell’Universale (e non più in rapporto agli esseri individuali), come veramente Brahma stesso, che è «senza dualità», e fuori del quale niente vi è, né manifestato né non manifestato [Mohyiddin ibn Arabi, nel suo Trattato dell’Unità (Risalatul-Ahadiyah), dice nello stesso senso: «Allah   che sia esaltato   non ha simili né rivali ed è libero da ogni contrario od opposto». Ancora a questo riguardo vi è una perfetta concordanza fra il Vedanta e l’eso­terismo islamico]. D’al­tronde, quel che ha qualche cosa fuori di sé non può essere infinito, poiché è proprio limitato da ciò che gli è esteriore; perciò il Mondo, intendendo con questa pa­rola l’insieme della manifestazione universale, non può distinguersi da Brahma che in modo illusorio, mentre Brahma, invece, è assolutamente «distinto da quello che penetra» [Vedi il testo del trattato della Conoscenza del Sé (Atma Bodha) di Shankaracharya, che sarà citato più avanti], vale a dire dal Mondo, perché non Gli si possono attribuire le qualifiche determinative che a questo convengono, ed anche perché l’intera manifesta­zione universale è rigorosamente nulla di fronte alla Sua Infinità. Altrove abbiamo notato che questa irrecipro­cità di relazione implica la condanna formale tanto del «panteismo» che di qualsiasi «immanentismo»; ciò è anche affermato molto nettamente nella Bhagavad Gita in questi termini: «Tutti gli esseri sono in me, mentre io non sono in essi... La mia Essenza, che sostiene tutti gli esseri, i quali esistono soltanto per essa, non è negli esseri» [Bhagavad Gita, IX, 4 e 5]. Si potrebbe ancora dire che Brahma è il Tutto assoluto, appunto perché è infinito; ma, d’altra parte, se le cose sono in Brahma, non sono Brahma, se conside­rate nel loro aspetto distintivo, appunto precisamente perché cose relative e condizionate; la loro esistenza d’altronde è pura illusione per la realtà suprema; ciò che è detto per le cose e non potrebbe convenire a Brahma, non è che l’espressione della relatività, e, giac­ché questa è illusoria, la distinzione lo è ugualmente, poiché l’uno dei suoi termini s’annulla dinnanzi all’al­tro; infatti niente può entrare in correlazione con l’In­finito; le cose sono Brahma solamente in principio, ma e proprio questa la loro realtà profonda; è bene ricordare quanto abbiamo detto se si vuol meglio compren­dere ciò che seguirà [Citeremo un testo taoista nel quale si trovano espresse le stesse idee: «Non domandate se il Principio è in questo od in quello; Esso è in ogni essere. Perciò Gli si dànno gli epiteti di grande, supremo, intero, universale, totale... Colui per il quale gli esseri sono esseri, non è sottomesso alle stesse leggi degli esseri. Colui per il quale gli esseri sono limitati, è illimitato, infinito... Quanto alla manifestazione, il Principio produce la successione delle sue fasi, ma non è questa suc­cessione (né vi è implicato). Esso è l’autore delle cause e degli effetti (la causa prima), ma non è le cause e gli effetti (particolari e manife­stati). Esso è l’autore delle condensazioni e delle dissipazioni (nascite e morti, cambiamenti di stato), ma non è condensazione o dissipazione. Tutto da Esso procede e si modifica per e sotto la Sua influenza. È in tutti gli esseri, per un termine di norma, ma non è identico agli esseri, non essendo né differenziato, né limitato» (Tchoang tseu, cap. XXII; trad. del P. Wieger, pp. 395 397)].

    «Alcuna distinzione (che verta su modificazioni con­tingenti, come la distinzione dell’agente, dell’azione e dello scopo o del risultato di questa) può alterare l’unità e l’identità essenziale di Brahma come causa (karana) ed effetto (karya) [Brahma è karana in quanto è nirguna, ed è karya in quanto è saguna; il primo è il «Supremo» o Para Brahma, il secondo è il «Non Supremo» o Apara Brahma (che è Ishwara); ma non risulta affatto che Brahma cessi in qualche modo di essere «senza dualità» (adwaita), poiché lo stesso «Non Supremo» è illusorio se è distinto dal «Supremo», come l’effetto non è niente che sia veramente ed essenzialmente differente dalla sua causa. Notiamo che mai bisogna tradurre Para Brahma ed Apara Brahma per «Brahma superiore» e «Brahma inferiore», poiché queste espressioni suppongono un para­gone o una correlazione che non potrebbe affatto trovarsi]. Il mare è lo stesso delle sue acque e non ne è differente (in natura), quantunque le onde, gli spruzzi, la schiuma, le gocce, e le altre modificazioni ac­cidentali, che queste acque subiscono, esistano separa­tamente od unitamente come differenti le une dalle altre (se considerate particolarmente, sia nell’aspetto della successione od in quello della simultaneità, ma senza che la loro natura cessi d’essere la stessa) [Questo paragone col mare e le sue acque mostra che Brahma è qui considerato come la Possibilità Universale, che è la totalità assoluta delle possibilità particolari]. Un effetto non è altro (in essenza) che la sua causa (ma questa è invece più dell’effetto); Brahma è uno (in quanto Esse­re) e senza dualità (in quanto Principio Supremo); Sé stesso, Egli non è affatto separato (per alcuna limita­zione) dalle Sue modificazioni (sia formali che infor­mali); Egli è Atma (in tutti gli stati possibili), ed Atma (in sé, allo stato incondizionato) è Lui (e non altro che Lui) [È la formula stessa dell’«Identità Suprema», espressa nel modo più netto che sia possibile]. Una stessa terra offre diamanti ed altri minerali preziosi, rocce di cristallo e pietre volgari e senza va­lore; uno stesso suolo produce una diversità di piante, di grande varietà e nelle foglie e nei fiori e nelle frutta; lo stesso cibo è convertito nell’organismo in sangue, in carne, in varie escrescenze come i capelli e le unghie. Parimenti che il latte si cambia spontaneamente in ca­gliato e l’acqua in ghiaccio (senza che questo passaggio da uno stato ad un altro implichi un cambiamento di natura), così Brahma Si modifica diversamente (nella molteplicità indefinita della manifestazione universale), senza bisogno di strumenti o mezzi esteriori di qualsiasi specie (e senza che la Sua identità ed unità ne sia alterata, dunque senza che si possa affermare che Egli sia realmente modificato, quantunque le cose esistano effet­tivamente solo quali Sue modificazioni) [Non bisogna dimenticare, per risolvere quest’apparente difficoltà, che qui siamo oltre la distinzione di Purusha e Prakriti, e che en­trambi, essendo già unificati nell’Essere, sono a più forte ragione compresi nel Supremo Brahma; perciò, se così è permesso d’esprimerci, essi sono due aspetti complementari del Principio, ma solo d’altronde in rapporto alla nostra concezione: in quanto Egli Si modifica, è l’a­spetto analogo di Prakriti; in quanto tuttavia non è modificato, è l’aspetto analogo di Purusha; e si noterà che quest’ultimo risponde più profondamente e più adeguatamente dell’altro alla realtà suprema nella sua immutabilità. Perciò Brahma stesso è Purushottama, mentre Prakriti rappresenta soltanto, in rapporto alla manifestazione, la Sua Shakti, vale a dire la Sua «Volontà produttrice», che è propriamente l’«onnipotenza» (attività «non agente» quanto al Principio, che di­venta passività quanto alla manifestazione). Conviene aggiungere che, se così si traspone la concezione di là dall’Essere, non si tratta più dell’«essenza» e della «sostanza», ma invece dell’Infinito e del­la Possibilità, come indubbiamente lo spiegheremo in un’altra occa­sione; la tradizione estremo orientale chiama ciò la «perfezione atti­va» (Khien) e la «perfezione passiva» (Khouen), che coincidono d’altronde nella Perfezione in senso assoluto]. Così il ragno tesse la tela con la propria sostanza, gli esseri sottili assumono forme diverse (non corporee), ed il loto cre­sce senza organi di locomozione da palude a palude. Che Brahma sia indivisibile e senza parti (come Egli lo è), non è un’obiezione (a questa concezione della molteplicità universale nella Sua unità, o piuttosto nella Sua «non dualità»); non è la Sua totalità (eternamente immutabile) che è modificata dalle apparenze del Mon­do (né qualcuna delle Sue parti, poiché non ne ha, ma Lui stesso rilevato nell’aspetto speciale della distinzione o della differenziazione, vale a dire come saguna o savishesha; ed Egli può essere così considerato perché com­porta in Sé tutte le possibilità, senza che queste siano affatto parti di Lui stesso) [Anche per l’esoterismo islamico, l’Unità, considerata in quanto contiene tutti gli aspetti della Divinità (Asrar rabbanyah o «misteri domenicali»), «è dell’Assoluto la superficie riverberante ad innu­merevoli facce, che magnifica ogni creatura che vi si specchi diretta­mente». Questa superficie è ugualmente Maya considerata nel suo senso più elevato, come la Shakti di Brahma, vale a dire l’«onnipotenza» del Principio Supremo.   Ancora e parimenti nella Qabbalah ebraica, Kether (la prima delle dieci Sephiroth) è la «veste» di Ain-­Soph (l’Infinito o l’Assoluto)]. Diversi cambiamenti (di condizioni e di modi d’esistenza) sono offerti alla stessa anima (individuale) che sogna (e percepisce in questo stato gli oggetti interni, vale a dire quelli del dominio della manifestazione sottile) [Le modificazioni che si producono nel sogno forniscono una delle più importanti analogie per aiutare a comprendere la moltepli­cità degli stati dell’essere; avremo dunque a riparlarne, se, come ne abbiamo l’intenzione, esporremo un giorno più completamente questa dottrina metafisica]; diverse forme illusorie (che corrispondono a varie modalità della manifestazione formale, differenti da quella corporea) sono rive­stite dallo stesso essere sottile senza affatto alterarne l’unità (una siffatta forma illusoria, mayavi rupa, essen­do considerata come puramente accidentale e non pro­pria dell’essere che se ne riveste, che perciò deve consi­derarsi inalterato da questa modificazione puramente apparente) [Su questo punto vi sarebbe un paragone interessante con ciò che i teologi cattolici, e specialmente san Tommaso d’Aquino, inse­gnano in merito alle forme di cui possono rivestirsi gli angeli; la ras­somiglianza è altrettanto più notevole in quanto i punti di vista sono necessariamente molto differenti. Ricorderemo del resto, a questo proposito, come già abbiamo avuto occasione di significarlo altrove, che quasi tutto ciò che è detto teologicamente degli angeli può essere anche detto metafisicamente degli stati superiori dell’essere]. Brahma è onnipotente (poiché contiene tutto in principio), proprio ad ogni atto (quantunque «non agente», o appunto per questo); Egli è senza qualunque organo o strumento d’azione; perciò non si deve attribuire alla determinazione dell’Universo un motivo od uno scopo speciale (quale quello d’un atto individuale), diverso dalla Sua volontà (che non è affatto distinta dalla Sua onnipotenza) [È la Sua Shakti, di cui abbiamo parlato nelle precedenti note, ed è anche Lui stesso in quanto Possibilità Universale; d’altronde, in sé, la Shakti non può essere che un aspetto del Principio, e, se la si distingue per considerarla «separativamente», non è più che la «Grande Illusione» (Maha Moha), vale a dire Maya nel suo significato inferiore ed esclusivamente cosmico]. Non Gli si può nem­meno imputare (come ad una particolare causa) alcuna differenziazione accidentale, poiché gli esseri indivi­duali si modificano (sviluppando le loro possibilità) con­formemente alla propria natura [È l’idea stessa del Dharma, come «conformità alla natura essen­ziale degli esseri», riferita all’ordine totale dell’Esistenza universale]; così la nuvola distri­buisce la pioggia imparzialmente (senza riguardo per gli speciali risultati che avverranno per circostanze seconda­rie), e questa stessa pioggia fecondante fa crescere diver­samente semi differenti, producendo una varietà di pian­te, secondo la loro specie (in ragione delle differenti potenzialità rispettivamente proprie a questi semi) [«O Principio! Tu che dai ad ogni essere ciò che gli conviene, mai hai preteso d’essere chiamato equo. Tu i cui benefici si disten­dono a tutti i tempi, mai hai preteso d’essere chiamato caritatevole. Tu che fosti prima dell’origine, non pretendi d’essere chiamato vene­rabile. Tu che avvolgi e sostieni l’Universo, producendo tutte le for­me, non pretendi d’essere chiamato abile; è in Te che io mi muovo» (Tchoang tseu, cap. VI; trad. del P. Wieger, p. 261).   «Del Princi­pio si può dire soltanto che Esso è l’origine di tutto, e che tutto in­fluenza restando indifferente» (id., cap. XXII; ibid., p. 391).   «Il Principio, indifferente, imparziale, lascia che tutte le cose seguano il loro corso, senza influenzarle. Esso non pretende a nessun titolo (qualificazioni od attribuzioni che siano). Non agisce; non agendo, niente vi è che Esso non faccia» (id., cap. XXV; ibid., p. 437)]. Ogni attributo d’una causa prima è (in principio) in Brahma, che (in Se stesso) è tuttavia libero da ogni qualità (distinta)» [Brama Sutra, 2° Adhyaya, 1° Pada, sutra 13 a 37.   Cfr. Bhagavad Gita, IX, 4 e 8: «Io, sprovvisto di ogni forma sensibile, ho svi­luppato quest’Universo... Immutabile nella mia potenza produttrice (la Shakti, che è qui chiamata Prakriti, poiché è considerata in rap­porto alla manifestazione), produco e riproduco (in tutti i cicli) la moltitudine degli esseri, senza scopo determinato, e per la sola virtù di questa potenza produttrice»].

    «Ciò che fu, è, sarà, tutto è veramente Omkara (l’U­niverso principialmente identificato a Brahma, e simbo­lizzato, come tale, dal monosillabo sacro Om); ed è ve­ramente Omkara anche tutto ciò che non è sottomesso al triplice tempo (trikala, vale a dire la condizione tem­porale nelle sue tre modalità di passato, presente e fu­turo). Sicuramente, quest’Atma (di cui tutte le cose non sono che la manifestazione) è Brahma; e quest’Atma (in rapporto ai diversi stati dell’essere) ha quattro condi­zioni (pada, che letteralmente significa «piedi»). Tutto questo, in verità, è Brahma» [Mandukya Upanishad, shruti 1 e 2].

    «Tutto questo» deve intendersi, come d’altronde lo mostra chiaramente il seguito di quest’ultimo testo, che appresso esporremo, delle differenti modalità dell’es­sere individuale, considerato nella sua integralità, nonché degli stati non individuali dell’essere totale. Tutta­via, prima di considerare più particolarmente questi di­versi stati, che sono qui designati come le condizioni d’Atma (quantunque quest’Atma in sé sia veramente in­condizionato e mai cesserà d’esserlo), dobbiamo ancora studiare la formazione dell’individualità umana da un punto di vista alquanto differente da quello che abbia­mo esposto finora.

     

    XI. LE DIFFERENTI CONDIZIONI D’ATMA NELL’ESSERE UMANO

     

    Dopo la precedente digressione, che era necessaria per far conoscere tutti gli aspetti della questione, pos­siamo cominciare lo studio delle differenti condizioni dell’essere individuale, residente nella forma vivente, che, come più sopra l’abbiamo spiegato, comprende, da una parte, la forma sottile (sukshma sharira o linga sha­rira), e, dall’altra, quella grossolana o corporea (sthula­-sharira). Quando parliamo di queste condizioni, non in­tendiamo affatto la condizione speciale che, secondo quanto dicemmo, è propria ad ogni individuo e lo distin­gue dagli altri, né l’insieme delle condizioni limitative che definisce ciascuno stato d’esistenza, considerato in particolare; si tratta invece, esclusivamente, dei diversi stati o, se si preferisce, delle diverse modalità di cui è suscettibile, in un modo completamente generale, uno stesso essere individuale, qualunque esso sia. Queste modalità possono sempre, nel loro insieme, riferirsi allo stato grossolano ed a quello sottile, il primo limitandosi alla sola modalità corporea, ed il secondo comprenden­do il resto dell’individualità (non è questione degli altri stati individuali, poiché è specialmente rilevato lo stato umano). Ciò che è oltre questi due stati non appartiene più all’individuo come tale: alludiamo a ciò che si po­trebbe chiamare lo stato «causale», vale a dire quello che corrisponde al karana sharira, e che, per conseguen­za, è d’ordine universale ed informale. Con questo stato «causale», d’altronde, se non siamo più nell’esistenza individuale, siamo ancora nel dominio dell’Essere; bi­sogna dunque considerare altresì, di là dall’Essere, un quarto stato principiale, assolutamente incondizionato. Metafisicamente, tutti questi stati, anche quelli che pro­priamente appartengono all’individuo, sono riferiti ad Atma, vale a dire alla personalità, perché questa sola costituisce la realtà profonda dell’essere, ed anche perché ogni stato di quest’essere sarebbe puramente illuso­rio se si pretendesse separarlo dalla personalità. Gli stati dell’essere, qualunque siano, rappresentano le possibi­lità d’Atma e non altro; perciò si può parlare delle di­verse condizioni nelle quali è l’essere, come veramente delle condizioni stesse d’Atma; è bene però intendere che Atma, in sé, non ne è affatto pregiudicato, né cessa nemmeno d’essere incondizionato, nello stesso modo che mai diviene manifestato, anche se é il principio essen­ziale e trascendente della manifestazione in tutti i suoi modi.

    Mettendo momentaneamente da parte il quarto sta­to, sul quale ritorneremo in seguito, diremo che i primi tre sono: quello di veglia, che corrisponde alla manife­stazione grossolana; quello di sogno, che corrisponde alla manifestazione sottile; ed il sonno profondo, che è lo stato «causale» ed informale. A questi tre stati, se ne aggiunge qualche volta un altro, quello della morte, ed anche un altro ancora, quello estatico, considerato l’intermediario (sandhya) [Questa parola sandhya (derivata da sandhi, punto di contatto o di congiunzione fra due cose) serve anche, in un’accezione più ordi­naria, a designare il crepuscolo (del mattino o della sera), considerato parimenti come intermediario fra il giorno e la notte; nella teoria dei cicli cosmici, designa l’intervallo fra due Yuga] fra il sonno profondo e la morte, come il sogno è l’intermediario fra la veglia ed il sonno profondo [Su questo stato, cfr. Brahma Sutra, 3° Adhyaya, 2° Pada, su­tra 10]. Tuttavia, questi due ultimi stati, in generale, non sono enumerati a parte, poiché non sono essenzialmente distinti da quello del sonno profondo, stato extra individuale in realtà, come abbiamo spiegato poc’anzi, e per cui l’essere rientra ugualmente nella non-­manifestazione, o per lo meno nell’informale, «l’anima vivente» (jivatma) ritirandosi in seno allo Spirito Uni­versale (Atma) per la via che conduce al centro stesso dell’essere, la dove è il soggiorno di Brahma» [Brahma Sutra, 30 Adhyaya, 20 Pada, sutra 7 e 8].

    Per la descrizione dettagliata di questi stati, è bene riferirsi al testo della Mandukya Upanishad, di cui ab­biamo già citato poc’anzi il principio, tranne tuttavia una frase, la prima di tutte, cioè questa: «Om, questa sillaba (akshara) [La parola akshara, nella sua etimologia, significa «indissolubi­le» od «indistruttibile», la sillaba è designata da questa parola per­ché essa (e non il carattere alfabetico) costituisce l’unità primitiva e l’elemento fondamentale del linguaggio; ogni radice verbale è d’al­tronde sillabica. La radice verbale è chiamata in sanscrito dhatu, pa­rola che significa propriamente «seme», perché, per le possibilità di modificazioni multiple che comporta e in sé racchiude, è veramente il seme dal cui sviluppo ha nascita l’intero linguaggio. La radice è l’elemento fisso ed invariabile della parola, che rappresenta la sua na­tura fondamentale immutabile, ed al quale vengono poi ad aggiungersi elementi secondari e variabili, che sono accidenti (in senso etimolo­gico) o modificazioni dell’idea principale] è tutto ciò che è; la sua spiegazione segue». Il monosillabo sacro Om, nel quale s’esprime l’essenza del Veda [Cfr. Chhandogya Upanishad, 1° Prapathaka, 1° Khanda, e 2° Prapathaka, 23° Khanda; Brihad Aranyaka Upanishad, 5° Adhyaya, 1° Brahmana, shruti 1], è considerato il simbolo ideografico d’Atma; e, come questa sillaba, composta di tre carat­teri (matra, questi caratteri sono a, u e m, i cui due pri­mi si contraggono in o) [In sanscrito, la vocale o è infatti formata dall’unione di a e u; parimenti la vocale e è formata dall’unione di a e i.   Anche in arabo, le tre vocali a, i e u sono considerate le sole fondamentali e veramente distinte], ha quattro elementi, di cui il quarto, che è il monosillabo stesso considerato sinteti­camente nel suo aspetto principiale, è «non espresso» da un carattere (amatra), poiché è anteriore ad ogni di­stinzione nell’«indissolubile» (akshara), parimenti Atma ha quattro condizioni (pada), di cui la quarta non è in verità una condizione speciale, ma Atma in Se stesso, in un modo assolutamente trascendente ed indipenden­temente da ogni condizione, perciò non è suscettibile d’alcuna rappresentazione. Esporremo ora successiva­mente ciò che è detto, nel testo al quale ci riferiamo, in merito ad ognuna di queste quattro condizioni d’Atma, cominciando dall’ultimo grado di manifestazione, e poi risalendo fino allo stato supremo, totale ed incondi­zionato.

     

    XII. LO STATO DI VEGLIA O LA CONDIZIONE DI VAISHWANARA

     

    «La prima condizione è Vaishwanara, il cui seggio [È evidente che quest’espressione e quelle simili come soggior­no, residenza, ecc., debbono essere intese simbolicamente, non lette­ralmente, vale a dire in quanto designano non un luogo qualunque, ma una modalità dell’esistenza. L’uso del simbolismo spaziale è d’al­tronde estremamente diffuso, ciò che si spiega per la natura stessa delle condizioni alle quali è sottomessa l’individualità corporea; la traduzione delle verità che concernono gli altri stati dell’essere deve effettuarsi, nella misura del possibile, in rapporto a questa individua­lità.   La parola sthana ha per equivalente esatto la parola «stato», status, poiché la sua radice stha si ritrova, con gli stessi significati del sanscrito, nel latino stare e nei suoi derivati] è nello stato di veglia (jagarita sthana); esso ha la cono­scenza degli oggetti esterni (sensibili), ha sette membra e diciannove bocche, ed ha per dominio il mondo della manifestazione grossolana» [Mandukya Upanishad, shruti 3].

    Vaishwanara è, come l’indica la derivazione etimolo­gica di questo nome [Su questa derivazione, vedi il commento di Shankaracharya sul Brahma Sutra, 1° Adhyaya, 2° Pada, sutra 28: è Atma che contempo­raneamente è «tutto» (vishwa), in quanto personalità, ed «uomo» (nara), in quanto individualità (vale a dire come jivatma). Vaishwa­nara è dunque una denominazione che s’appropria benissimo ad Atma; d’altra parte, è anche un nome d’Agni, come lo vedremo ap­presso (cfr. Shatapata Brahmana)], ciò che abbiamo chiamato l’«Uomo Universale», ma considerato più particolarmente nello sviluppo completo dei suoi stati di manifestazione e nell’aspetto speciale di questo sviluppo. L’estensione di tale parola può qui anche sembrare limitata ad uno di questi stati, il più esteriore, quello della manifesta­zione grossolana, che costituisce il mondo corporeo; ma questo stato particolare può essere un simbolo per desi­gnare l’insieme della manifestazione universale, di cui è un elemento, proprio perché esso è per l’essere umano la base ed il punto di partenza obbligato di tutta la rea­lizzazione; sarà dunque sufficiente, come per il simbo­lismo in generale, effettuare le trasposizioni convenienti secondo i gradi ai quali la concezione dovrà applicarsi. È appunto in questo senso che lo stato di cui si tratta può riferirsi all’«Uomo Universale» e può essere de­scritto come costituente il suo corpo, concepito in ana­logia con quello dell’uomo individuale, analogia che, come già l’abbiamo detto, è quella del «macrocosmo» (adhidevaka) e del «microcosmo» (adhjatmika). Sotto quest’aspetto, Vaishwanara è anche identificato a Viraj, vale a dire all’Intelligenza cosmica in quanto regge ed unifica nella sua integralità l’insieme del mondo cor­poreo. Finalmente, ad un altro punto di vista, che cor­robora d’altronde il precedente, Vaishwanara significa «ciò che è comune a tutti gli uomini»; è allora la spe­cie umana, intesa come natura specifica, o più precisa­mente ciò che si potrebbe chiamare il «genio della spe­cie» [Sotto questo rapporto, nara, o nri, è l’uomo come individuo ap­partenente alla specie umana, mentre manava è più propriamente l’uomo come essere pensante, vale a dire dotato di «mentale»; ciò è d’altronde l’attributo essenziale inerente alla sua specie, dal quale la sua natura è caratterizzata. D’altra parte, il nome Nara non è meno suscettibile di una trasposizione analogica, per la quale s’identifica a Purusha; perciò spesse volte Vishnu è chiamato Narottama o l’«Uomo Supremo», designazione nella quale non bisogna scorgere il mi­nimo antropomorfismo, come nemmeno nella concezione stessa del­l’«Uomo Universale» in tutti i suoi aspetti, e ciò precisamente in ragione di questa trasposizione. Non possiamo accingerci per ora a sviluppare i sensi multipli e complessi che sono impliciti nella parola nara; per quanto riguarda la natura della specie, occorrerebbe tutto uno studio speciale per esporre le considerazioni alle quali essa può dar luogo]; inoltre è d’uopo significare che lo stato corporeo è effettivamente comune a tutte le individualità umane, qualunque siano le altre modalità nelle quali sono su­scettibili di svilupparsi per realizzare, in quanto individualità e senza uscire dal grado umano, l’estensione integrale delle loro possibilità rispettive [Converrebbe ancora stabilire dei confronti con la concezione della natura «adamica» nelle tradizioni giudaica e islamica, conce­zione che, anch’essa, si applica a gradi diversi ed in significati gerar­chicamente sovrapposti; ma ciò è estraneo al nostro soggetto, e pre­sentemente dobbiamo limitarci a queste semplici indicazioni].

    Da ciò che abbiamo detto, è facile rendersi conto in qual modo bisogna intendere le sette membra di cui parla il testo della Mandukya Upanishad, e che sono le sette parti principali del corpo «macrocosmico» di Vai­shwanara: 1° l’insieme delle sfere luminose superiori, vale a dire degli stati superiori dell’essere, ma unica­mente considerati nei loro rapporti con lo stato di cui specialmente si tratta, è paragonato alla parte della testa che contiene il cervello, il quale, infatti, corrisponde organicamente alla funzione «mentale», che è un ri­flesso della Luce intelligibile o dei principi sopra indivi­duali; 2° il Sole e la Luna, o più esattamente i principi rappresentanti nel mondo sensibile da questi due astri [Si ricorderanno qui i significati simbolici che hanno anche, in Occidente, il Sole e la Luna nella tradizione ermetica e nelle teorie cosmologiche che gli alchimisti hanno fondato su di essa; la designa­zione di questi astri non dev’essere intesa letteralmente, né nel primo e nemmeno nell’altro caso. D’altronde, si deve notare che il presente simbolismo è differente da quello al quale abbiamo fatto allusione precedentemente, e nel quale il Sole e la Luna corrispondono rispetti­vamente al cuore ed al cervello; sarebbero necessari ancora lunghi svi­luppi per dimostrare come questi diversi punti di vista si conciliano e s’armonizzano nell’insieme delle concordanze analogiche], sono i due occhi; 3° il principio igneo è la bocca [Abbiamo già notato che Vaishwanara è qualche volta un nome di Agni, che è allora considerato soprattutto come calore animatore, in quanto esso risiede in ogni essere vivente; avremo ancora l’occasione di ritornarvi più appresso. D’altra parte, mukhya prana è nello stesso tempo il soffio della bocca (mukha) e l’atto vitale principale (è in questo secondo significato che i cinque vayu sono le sue modalità); e il calore è intimamente associato alla vita stessa]; 4° le direzioni dello spazio (dish) sono gli orecchi [Si noterà il rapporto notevolissimo che ciò presenta con la fun­zione fisiologica dei canali semicircolari]; 5° l’atmo­sfera, vale a dire l’ambiente cosmico da cui procede il «soffio vitale (prana), corrisponde ai polmoni; 6° la re­gione intermediaria (Antariksha), che si distende fra la Terra (Bhu o Bhumi) e le sfere luminose od i Cieli (Swar o Swarga), regione che è considerata come l’am­biente dove si elaborano le forme (ancora potenziali re­lativamente allo stato grossolano), corrisponde allo sto­maco [In un certo senso, la parola Antariksha comprende anche l’atmosfera, considerata allora come l’ambiente di propagazione della luce; d’altronde, è necessario notare che l’agente di questa propagazione non è l’Aria (Vayu), bensì l’Etere (Akasha). Quando si traspongono i termini, per renderli appropriati a tutto l’insieme degli stati della manifestazione universale, nella considerazione del Tribhuvana, Antariksha s’identifica a Bhuvas, che ordinariamente si designa come l’atmosfera, ma prendendo questa parola in un’accezione molto più estesa e meno determinata di quella precedente.   I nomi dei tre mondi, Bhu, Buvas, Swar, sono i tre vyahriti, parole che sono pro­nunziate abitualmente, dopo il monosillabo Om, nei riti indù della sandhya-upasana (meditazione ripetuta al mattino, a mezzogiorno ed alla sera). Si noterà che i primi due di questi tre nomi hanno la stessa radice, perché si riferiscono a delle modalità di uno stesso stato d’esi­stenza, quello dell’individualità umana, mentre il terzo rappresenta, in questa divisione, l’insieme degli stati superiori]; 7° finalmente, la Terra, vale a dire, in senso simbolico, l’ultimo attuarsi di tutta la manifestazione corporea, corrisponde ai piedi, che sono qui l’emblema di tutta la parte inferiore del corpo. Le relazioni di que­ste diverse membra tra loro e le loro funzioni nell’insie­me cosmico al quale appartengono, sono analoghe (ma non identiche, beninteso) a quelle delle corrispondenti parti dell’organismo umano. Si noterà che qui non si è parlato del cuore, perché la sua diretta relazione con l’Intelligenza universale lo esclude dal dominio delle funzioni propriamente individuali, ed anche perché que­sto «soggiorno di Brahma» è veramente il punto cen­trale, tanto nell’ordine cosmico che in quello umano, mentre tutto ciò che fa parte della manifestazione, e specialmente della manifestazione formale, è esteriore e «periferico», se così possiamo esprimerci, appartenen­do esclusivamente alla circonferenza della «ruota delle cose».

    Nella condizione di cui si tratta, Atma, in quanto Vaishwanara, ha coscienza del mondo della manifesta­zione sensibile (considerato anche come il dominio di quest’aspetto del «Non Supremo» Brahma che è chia­mato Viraj), per mezzo di diciannove organi, designati come altrettante bocche, perché sono le «entrate» della conoscenza per tutto quel che si riferisce a questo do­minio particolare; l’assimilazione intellettuale che s’o­pera nella conoscenza è spesso simbolicamente parago­nata all’assimilazione vitale che s’effettua per mezzo della nutrizione. Questi diciannove organi (implicando d’altronde in questa parola le corrispondenti facoltà, conformemente a quanto abbiamo detto sul significato generale della parola indriya) sono: i cinque organi di sensazione, i cinque organi d’azione, i cinque soffi vi­tali (vayu), il «mentale» od il senso interno (manas), l’intelletto (Buddhi, qui esclusivamente considerata nei suoi rapporti con lo stato individuale), il pensiero (chitta), concepito come la facoltà che dà forma alle idee e le associa tra di loro, e finalmente la coscienza indivi­duale (ahankara); queste facoltà sono quelle che prece­dentemente abbiamo studiato più particolarmente. Ogni organo ed ogni facoltà dell’essere individuale compreso nel dominio considerato, vale a dire nel mondo corpo­reo, procedono rispettivamente dall’organo e dalla facoltà che loro corrispondono in Vaishwanara, organo e facoltà di cui sono in qualche modo uno degli elementi costitutivi, allo stesso titolo che l’individuo, al quale appartengono, è un elemento dell’insieme cosmico, nel quale, per la sua parte ed al posto che propriamente gli conviene (per il fatto che è quest’individuo e non un altro), concorre necessariamente alla costituzione del­l’armonia totale [Questa armonia è ancora un aspetto del Dharma: esso è l’equi­librio nel quale si compensano tutti gli squilibri, l’ordine che è fatto dalla somma di tutti i disordini parziali ed apparenti].

    Lo stato di veglia, nel quale si esercita l’attività degli organi e delle facoltà di cui è stato detto, è considerato come la prima condizione d’Atma, quantunque la mo­dalità grossolana o corporea, alla quale corrisponde, co­stituisca l’ultimo grado nell’ordine dello sviluppo (pra­pancha) del manifestato, partendo dal suo principio pri­mordiale e non manifestato, e definisca il termine di questo sviluppo, per lo meno in rapporto allo stato d’e­sistenza nel quale si situa l’individualità umana. La ra­gione di quest’apparente anomalia è già stata indicata: è infatti in questa modalità corporea che noi scorgiamo la base ed il punto di partenza della realizzazione indivi­duale dapprima (vogliamo dire dell’estensione integrale resa effettiva per l’individualità), e poi di ogni altra realizzazione che oltrepassi le possibilità dell’individuo ed implichi una presa di possesso degli stati superiori del­l’essere. Dunque, se ci si pone, come lo facciamo a que­sto proposito, non al punto di vista dello sviluppo della manifestazione, ma a quello e nell’ordine di questa rea­lizzazione con i suoi diversi gradi, ordine che va neces­sariamente in senso contrario, dal manifestato al non­-manifestato, questo stato di veglia deve ben essere con­siderato come precedente in effetto gli stati di sogno e di sonno profondo, che corrispondono, l’uno alle moda­lità extra corporee dell’individualità, l’altro agli stati sopra individuali dell’essere.

     

    XIII. LO STATO DI SOGNO O LA CONDIZIONE DI TAIJASA

     

    «La seconda condizione è Taijasa (il «Luminoso», nome derivato da Tejas, che è la designazione dell’ele­mento igneo), il cui seggio è nello stato di sogno (swap­na sthana); esso ha la conoscenza degli oggetti interni (mentali), ha sette membra e diciannove bocche, ed ha per dominio il mondo della manifestazione sottile» [Mandukya Upanishad, shruti 4.   Lo stato sottile è chiamato in questo testo pravivikta, letteralmente «predistinto», poiché è uno stato di distinzione che precede la manifestazione grossolana; questa parola significa anche «separato», poiché l’«anima vivente», nello stato di sogno, è in qualche modo racchiusa in se stessa, contraria­mente a quanto accade nello stato di veglia, «comune a tutti gli uomini»].

    In questo stato, le facoltà esterne, anche sussistendo potenzialmente, si riassorbono nel senso interno (ma­nas), che ne è la comune sorgente, il loro appoggio ed il loro fine immediato; esso risiede nelle arterie luminose (nadi) della forma sottile, dove è diffuso in modo indi­viso come il calore. D’altronde, lo stesso elemento igneo, considerato nelle sue proprietà essenziali, è con­temporaneamente luce e calore; come l’indica il nome stesso di Taijasa riferito allo stato sottile, questi due aspetti, convenientemente trasposti (poiché non si tratta più allora di qualità sensibili), debbono ugualmente ritrovarsi in siffatto stato. Come già abbiamo avuto l’oc­casione di farlo notare in altre circostanze, tutto ciò che si riferisce a questo stato riguarda molto da vicino la natura stessa della vita, che è inseparabile dal calore; ri­corderemo, a questo proposito, che le concezioni d’Ari­stotele si accordano pienamente su questo e su molti altri punti con quelle degli Orientali. Quanto alla luminosità di cui si tratta, bisogna intendere da ciò il riflesso e la diffrazione della Luce intelligibile nelle modalità extra sensibili della manifestazione formale (di cui d’al­tronde ci limitiamo a rilevare, in tutto questo, ciò che concerne lo stato umano). D’altra parte, la forma sottile stessa (sukshma sharira o linga sharira), nella quale ri­siede Taijasa, è anche assimilata ad un veicolo igneo [Abbiamo altrove ricordato, a questo proposito, il «carro di fuo­co» sul quale il profeta Elia salì ai cieli (II Libro dei Re, II, 11)], quantunque debba distinguersi dal fuoco corporeo (l’e­lemento Tejas o ciò che ne procede) che è percepito dai sensi della forma grossolana (sthula sharira), veicolo di Vaishwanara, e più specialmente dalla vista, poiché la visibilità, supponendo necessariamente la presenza della luce, è fra le qualità sensibili quella che propriamente appartiene a Tejas; ma, nello stato sottile, non può più trattarsi affatto dei bhuta, bensì soltanto dei tanmatra corrispondenti, che ne sono i princìpi determinanti im­mediati. Per le nadi od arterie della forma sottile, esse non debbono essere affatto confuse con le arterie cor­poree per le quali si effettua la circolazione del sangue, ma piuttosto corrispondono fisiologicamente, alle ramificazioni del sistema nervoso, poiché sono espressamente descritte come luminose; ora, essendo il fuoco in qual­che modo polarizzato in luce e calore, lo stato sottile è collegato a quello corporeo in due modi differenti e complementari: per il sangue, quanto alla qualità calo­rica, per il sistema nervoso, quanto a quella luminosa [Già abbiamo indicato, a proposito della costituzione dell’anna­maya kosha, cioè l’organismo corporeo, che gli elementi del sistema nervoso provengono dall’assimilazione delle sostanze ignee. Il sangue, poiché è liquido, è formato a partire dalle sostanze acquee, ma è ne­cessario che esse abbiano dapprima subito un’elaborazione dovuta all’azione del calore vitale, che è la manifestazione d’Agni Vaishwa­nara; esse rappresentano solamente un «appoggio» plastico che ser­ve alla fissazione di un elemento di natura ignea: il fuoco e l’acqua sono qui, l’uno in rapporto all’altra, «essenza» e «sostanza» in un senso relativo. Si potrebbe facilmente trovare un avvicinamento con certe teorie alchemiche, come quelle per esempio dove interviene la considerazione dei principi chiamati «zolfo» e «mercurio», l’uno attivo e l’altro passivo, e rispettivamente analoghi, nell’ordine dei «misti», del fuoco e dell’acqua nell’ordine degli elementi, senza par­lare delle altre designazioni multiple che sono ancora date simbolica­mente, nel linguaggio ermetico, ai due termini correlativi d’una simile dualità]. Tuttavia, è bene intendere che, fra le nadi ed i nervi, non vi è ancora che una semplice corrispondenza, non una identificazione, poiché le prime non sono corporee, ed anche perché si tratta in realtà di due differenti domini nell’individualità integrale. Parimenti, quando si stabilisce un rapporto tra le funzioni di queste nadi e la respirazione [Alludiamo più specialmente agli insegnamenti che si riattaccano allo Hatha Yoga, vale a dire ai metodi preparatori all’«Unione» (Yoga, nel senso proprio della parola) fondati sull’assimilazione di certi ritmi, principalmente legati al regolamento della respirazione. Ciò che è chiamato dhikr nelle scuole esoteriche arabe ha esattamente la stessa ragione d’essere, e spesso anche i procedimenti messi in ope­ra sono completamente similari nelle due tradizioni, ciò che d’altronde non è affatto per noi l’indizio di un plagio; la scienza del ritmo infatti può essere stata conosciuta da una parte e dall’altra in modo completamente indipendente, poiché si tratta d’una scienza che ha il suo oggetto proprio e corrisponde ad un ordine di realtà nettamente definito, quantunque essa sia interamente ignorata dagli Occidentali], perché questa è essenziale al mantenimento della vita e corrisponde veramente all’atto vitale principale, non bisogna affatto concludere di poterle rappresentare quasi come una specie di canali nei quali l’aria circolerebbe; sarebbe confondere con un elemento corporeo il «soffio vitale» (prana), che appartiene pro­priamente all’ordine della manifestazione sottile [Questa confusione è effettivamente commessa da certi orientalisti, la cui comprensione è indubbiamente incapace d’oltrepassare i limiti del mondo corporeo]. È detto che il numero totale delle nadi è di settantadue­mila; per altri testi tuttavia sarebbe di settecentoventi milioni; ma la differenza è più apparente che reale, poiché, come sempre accade in simili casi, questi numeri debbono essere intesi simbolicamente, non letteral­mente; è facile rendersene conto considerando che sono in relazione evidente con i numeri ciclici [I numeri ciclici fondamentali sono: 72 = 2³x3²; 108 = 2²x3³; 432 = 2^4x3³ = 72 x 6 = 108 x 4; essi si riferiscono specialmente alla divisione geometrica del cerchio (360 = 72 x 5 = 12 x 30) ed alla durata del periodo astronomico della precessione degli equinozi (72 x 360 = 432 x 60 = 25920 anni); ma queste sono semplicemente le loro più immediate e più elementari applicazioni, né ci è possibile soffermarci sulle considerazioni propriamente simboliche alle quali si giunge per la trasposizione di questi dati in ordini differenti]. Avremo an­cora l’occasione di sviluppare la questione delle arterie sottili, ed anche il processo dei diversi gradi di riassor­bimento delle facoltà individuali, riassorbimento che, l’abbiamo già detto, si effettua in senso inverso dello sviluppo di queste stesse facoltà.

    Nello stato di sogno, l’«anima vivente» individuale (jivatma) «è per se stessa la sua propria luce», e pro­duce, per l’effetto del suo solo desiderio (kama), un mondo che procede interamente da se stessa, ed i cui oggetti consistono esclusivamente in concezioni men­tali, vale a dire in combinazioni d’idee rivestite di forme sottili, che dipendono sostanzialmente dalla forma sot­tile dell’individuo stesso, di cui questi oggetti ideali sono altrettante modificazioni accidentali e secondarie [Cfr. Brihad Aranyaka Upanishad, 40 Adhyaya, 30 Brahmana, shruti 9 e 10]. Questa produzione, d’altronde, ha sempre qualche cosa d’incompleto e d’incoordinato; perciò è considerata co­me illusoria (mayamaya), o come se avesse solamente un’esistenza apparente (pratibhasika), mentre, nel mon­do sensibile, dov’è allo stato di veglia, la stessa «anima vivente» ha la facoltà d’agire nel senso d’una produ­zione «pratica» (vyavaharika), anche indubbiamente il­lusoria in rapporto alla realtà assoluta (paramartha), e transitoria come ogni manifestazione, ma che tuttavia ha una realtà relativa ed una stabilità sufficiente per ser­vire ai bisogni della vita ordinaria e «profana» (lauki­ka, parola derivata da loka, il «mondo», da intendersi in un senso completamente paragonabile a quello che ha abitualmente nel Vangelo). Tuttavia conviene notare che questa differenza, quanto all’orientazione rispettiva dell’attività dell’essere nei due stati, non implica una superiorità effettiva dello stato di veglia su quello di sogno, quando ogni stato è considerato in se stesso; una superiorità valida dal solo punto di vista «profano», non può metafisicamente essere considerata una vera su­periorità; ed anche, sotto un altro rapporto, le possibilità dello stato di sogno sono più estese di quelle dello stato di veglia, e permettono all’individuo di sfuggire, in una certa misura, a qualcuna delle condizioni limita­tive alle quali è sottomesso nella sua modalità corpo­rea [Sullo stato di sogno, cfr. Brahma Sutra, 3° Adhyaya, 2° Pada, sutra 1 a 6]. Checché ne sia, l’unica cosa assolutamente reale (paramarthika) è esclusivamente il «Sé» (Atma), che però non può essere in nessun modo raggiunto da con­cezioni che in qualche modo si limitano alla considera­zione degli oggetti esterni ed interni, la cui conoscenza costituisce rispettivamente lo stato di veglia e quello di sogno, e che perciò non spingendosi oltre l’insieme di questi due stati, restano interamente nei limiti della ma­nifestazione formale e dell’individualità umana.

    Il dominio della manifestazione sottile può, in ragio­ne della sua natura «mentale», designarsi come un mondo ideale, al fine di così distinguerlo dal mondo sen­sibile, che è il dominio della manifestazione grossolana; ma questa designazione non deve intendersi nel senso di quella del «mondo intelligibile» di Platone, poiché le «idee» del filosofo greco sono le possibilità allo stato principiale, che debbono riferirsi all’essere informale (malgrado le espressioni troppo immaginose con cui Platone ha spessissimo racchiuso il suo pensiero); nello stato sottile, non può ancora trattarsi che di idee rive­stite di forme, poiché le possibilità che comporta non oltrepassano l’esistenza individuale [Lo stato sottile è propriamente il dominio della  non quello del ; poiché quest’ultimo corrisponde a Buddhi, vale a dire all’intelletto sopraindividuale]. Soprattutto non bisognerebbe qui pensare all’opposizione che certi filo­sofi moderni si compiacciono di stabilire fra «ideale» e «reale», opposizione che non ha, per noi nessun signi­ficato: ciò che è, sotto qualunque aspetto, è reale ap­punto perciò, e possiede precisamente il genere ed il grado di realtà che convengono alla sua propria natura; ciò che consiste in idee (questo è tutto il senso che dia­mo alla parola «ideale») non è né più né meno reale di quello che consiste in altra cosa, ogni possibilità tro­vando posto necessariamente nel rango che la sua stessa determinazione gli assegna gerarchicamente nell’Uni­verso.

    Nell’ordine della manifestazione universale, parimenti che il mondo sensibile nel suo insieme è identificato a Viraj, questo mondo ideale di cui abbiamo parlato è identificato a Hiranyagarbha (vale a dire letteralmente l’«Embrione d’Oro») [Questo nome ha un senso vicinissimo a quello di Taijasa, poiché l’oro, secondo la dottrina indù, è la «luce minerale»; gli alchimisti lo consideravano anche come corrispondente analogicamente, fra i metalli, al sole fra i pianeti; è per lo meno strano notare che il nome stesso dell’oro (aurum) é identico alla parola ebraica aor, che signi­fica «luce»], che è Brahmâ (determinazione di Brahma come effetto, karya) [Bisogna notare che Brahmâ è una forma maschile, mentre Brahma è neutro; questa distinzione indispensabile, della più grande importanza (poiché non è altro che quella del «Supremo» e del «Non Supremo»), non può essere fatta con l’uso, molto in voga fra gli orientalisti, dell’unica forma Brahman, che ugualmente appartiene ad entrambi i generi; perciò sopravvengono continue confusioni, so­prattutto in una lingua come l’italiana, dove il genere neutro non esiste] che si racchiude nell’«Uovo del Mondo» (Brahmanda) [Questo simbolo cosmogonico dell’«Uovo del Mondo» non è particolare all’India; lo ritroviamo specialmente nel Mazdeismo, nella tradizione egiziana (l’Uovo di Kneph), in quella dei Druidi e in quella degli Orfici.   La condizione embrionale che corrisponde per ogni essere individuale a ciò che è il Brahmanda nell’ordine cosmico, è chiamata in sanscrito pinda; l’analogia costitutiva del «microcosmo» e del «macrocosmo», considerati sotto quest’aspetto, è espressa da questa formula: Yatha pinda tatha Brahmanda, «tale l’embrione indi­viduale, tale l’Uovo del Mondo»], dal quale si svilupperà, secondo il suo modo di realizzazione, l’in­tera manifestazione formale che vi è virtualmente con­tenuta come concezione di questo Hiranyagarbha, ger­me primordiale della Luce cosmica [Perciò Viraj procede da Hiranyagarbha, e Manu, a sua volta, procede da Viraj]. Altresì, Hiranya­garbha è designato come «insieme sintetico di vita (jiva ghana) [La parola ghana significa primieramente una nuvola, e poi una massa compatta ed indifferenziata]; infatti, è veramente la «Vita Universa­le» [«E la Vita era la Luce degli uomini» (S. Giovanni, I, 4)], in ragione della connessione già segnalata dello stato sottile con la vita; quest’ultima, anche conside­rata in tutta l’estensione di cui è suscettibile (e non limitata alla sola vita organica o corporea, a cui si limita il punto di vista fisiologico) [Alludiamo più particolarmente all’estensione dell’idea di vita che è implicita nel punto di vista delle religioni occidentali, e che si riferisce effettivamente a possibilità insite in un prolungamento del­l’individualità umana; abbiamo altrove spiegato che la tradizione estremo orientale chiama ciò la «longevità»], non è d’altronde che una delle speciali condizioni dello stato d’esistenza al quale appartiene l’individualità umana; il dominio della vita non oltrepassa dunque le possibilità che comporta que­sto stato, che, naturalmente, deve qui essere considerato nella sua integralità, e di cui fanno parte tanto le modalità sottili quanto quella grossolana.

    Sia che lo si consideri al punto di vista «macrocosmico», come l’abbiamo fatto ultimamente, od a quello «microcosmico», che abbiamo rilevato sin dal principio, il mondo ideale di cui si tratta è concepito da fa­coltà che corrispondono analogicamente a quelle per le quali è percepito il mondo sensibile, o, se si preferisce, che sono quelle stesse facoltà in principio (poiché sono sempre le facoltà individuali), ma considerate in un altro modo d’esistenza e ad un altro grado di sviluppo, la loro attività esercitandosi in un dominio differente. Per­ciò Atma, in questo stato di sogno, vale a dire in quanto è Taijasa, ha lo stesso numero di membra e di bocche (o strumenti di conoscenza) che in quello di veglia, in quanto è Vaiswanara [Queste facoltà debbono considerarsi ripartite nei tre «involu­cri», la cui riunione costituisce la forma sottile (vijnanamaya kosha, manomaya kosha, pranamaya kosha)], è inutile, del resto, ripeterne l’enumerazione, poiché le definizioni che precedente­mente ne abbiamo dato possono egualmente applicarsi, per una trasposizione appropriata, ai due domini della manifestazione grossolana o sensibile e di quella sottile o ideale.

    XIV. LO STATO DI SONNO PROFONDO O LA CONDIZIONE DI PRAJNA

     

    «Quando l’essere che dorme non prova più desi­deri, non è più soggetto a sogni, esso è nello stato di sonno profondo (sushupta sthana); colui (vale a dire Atma stesso in siffatta condizione) che in questo stato è divenuto uno (senza alcuna distinzione o differenzia­zione) [«Tutto è uno, dice ugualmente il Taoismo; durante il sonno, l’anima, non distratta, si concentra in questa unità; ma, durante la veglia, distratta, essa distingue diversi esseri» (Tchoang tseu, cap. II; trad. del P. Wieger, p. 215)], che si è identificato ad un insieme sintetico (unico e senza particolare determinazione) di Conoscen­za integrale (Prajnana ghana) [«Concentrare tutta la propria energia intellettuale come in una massa», aggiunge, anche nello stesso senso, la dottrina taoista (Tcho­ang tseu, cap. IV; trad. del P. Wieger, p. 233).   Prajnana o la Cono­scenza integrale s’oppone qui a vijnana o la conoscenza distintiva, che, riferendosi specialmente all’individuale od al formale, caratte­rizza i due stati precedenti; vijnanamaya kosha è il primo degli «in­volucri» di cui si riveste Atma penetrando nel «mondo dei nomi e delle forme», vale a dire manifestandosi come jivatma], che è (per penetrazione ed assimilazione intima) pieno di Beatitudine (ananda-maya) e che gode veramente di questa Beatitudine (Ananda, quale dominio a lui proprio), e la cui bocca (lo strumento di conoscenza) è (unicamente) la Coscienza totale (Chit) stessa (senza intermediario o particola­rizzazione), quegli e chiamato Prajna (vale a dire Colui che conosce al di fuori e di là da ogni condizione speciale): è questa la terza condizione» [Mandukya Upanishad, shruti 5].

    Come immediatamente possiamo rendercene, conto, il veicolo d’Atma, nello stato di Prajna, è il karana sha­rira, poiché questo è anandamaya kosha; e, quantunque qui se ne parli analogicamente come di un veicolo o d’un involucro, esso non è affatto distinto veramente dallo stesso Atma, poiché ormai siamo di là dalla distin­zione. La Beatitudine è fatta da tutte le possibilità d’Atma, si potrebbe dire che essa ne sia la somma stessa; Atma, in quanto Prajna, gode di questa Beatitudine co­me del suo proprio dominio, perché essa è, in realtà, la pienezza del suo essere, secondo quanto precedente­mente abbiamo indicato. È uno stato essenzialmente in­formale e sopra individuale; non potrebbe dunque trat­tarsi d’uno stato «psichico» o comunque «psicologi­co», come l’hanno supposto alcuni orientalisti. Ciò che è propriamente «psichico», infatti, è lo stato sottile; in questa assimilazione, la parola «psichico» è da noi con­siderata nel suo senso primitivo, quello che aveva per gli antichi, né ci preoccupiamo delle diverse accezioni molto più specializzate che ulteriormente hanno dato ad essa, e per le quali ormai non potrebbe nemmeno più riferirsi all’intero stato sottile. Quanto alla psicologia degli Occidentali moderni, essa non concerne che una parte ristrettissima dell’individualità umana, quella per cui il «mentale» è in relazione immediata con la modalità corporea, e per gli stessi metodi che essa usa è incapace di oltrepassare questi limiti; in ogni caso, l’og­getto stesso che si propone, vale a dire lo studio esclusivo dei fenomeni mentali, la limita rigorosamente all’individualità; perciò lo stato di cui ora si tratta sfugge necessariamente alle sue investigazioni, e si potrebbe anche dire che le è inaccessibile in doppio modo: prima, perché questo stato è di la dal «mentale» o dal pen­siero discorsivo e differenziato, poi, perché è ugualmente di là da ogni «fenomeno», qual che esso sia, vale a dire oltre tutta la manifestazione formale.

    Questo stato d’indifferenziazione, nel quale l’intera conoscenza, non esclusa quella degli altri stati, è cen­tralizzata sinteticamente nell’unità essenziale e fonda­mentale dell’essere, è lo stato non manifestato o «non­-sviluppato» (avyakta), principio e causa (karana) di tutta la manifestazione, e a partire dal quale essa è svi­luppata nella molteplicità dei suoi diversi stati, e più particolarmente, per quel che concerne l’essere umano, nei suoi stati sottile e grossolano. Questo non manife­stato, concepito come radice del manifestato (vyakta), che è soltanto il suo effetto (karya), è identificato, sotto questo rapporto, a Mula Prakriti, la «Natura primor­diale»; ma, in realtà, esso è contemporaneamente Pu­rusha e Prakriti, poiché li contiene entrambi nella sua stessa indifferenziazione, essendo causa nel senso totale della parola, vale a dire contemporaneamente «causa ef­ficiente» e «causa materiale», per usare la terminolo­gia ordinaria; preferiremmo, però, a queste espressioni quelle di «causa essenziale» e «causa sostanziale», poi­ché questi due aspetti complementari della causalità si riferiscono infatti rispettivamente all’«essenza» ed alla «sostanza», definite come precedentemente l’abbiamo fatto. Se, in questo terzo stato, Atma è oltre la distin­zione di Purusha e di Prakriti o dei due poli della mani­festazione, è perché esso non è più nell’esistenza condi­zionata, ma invece al grado dell’Essere puro; tuttavia noi dobbiamo inoltre includervi Purusha e Prakriti, an­cora non manifestati, ed anche, in un certo senso, come lo vedremo a suo tempo, gli stati informali della mani­festazione, che abbiamo già dovuto riferire all’Univer­sale, poiché sono veramente altrettanti stati sopra indi­viduali dell’essere; e, d’altronde, ricordiamolo ancora, tutti gli stati manifestati sono contenuti, in principio e sinteticamente, nell’Essere non manifestato.

    In questo stato, i diversi oggetti della manifesta­zione, anche quelli della manifestazione individuale, sia esterni che interni, non sono d’altronde affatto distrutti, ma sussistono in modo principiale, essendo unificati ap­punto perché non più concepiti nell’aspetto secondario e contingente della distinzione; essi si ritrovano neces­sariamente fra le possibilità del «Sé», che, quando ha coscienza della sua permanenza nell’«eterno presente», è per se stesso cosciente di tutte queste possibilità, con­siderate «non distintivamente» nella Conoscenza inte­grale [È proprio ciò che permette di trasporre metafisicamente la dot­trina teologica della «resurrezione dei morti», nonché la concezione del «corpo di gloria»; questo, del resto, non è affatto un corpo nel senso proprio della parola, ma ne è la «trasformazione» (o la «tra­sfigurazione»), vale a dire la trasposizione fuori della forma e delle altre condizioni dell’esistenza individuale, od anche, in altre parole, è la «realizzazione» della possibilità permanente ed immutabile di cui il corpo non è che l’espressione transitoria in modo manifestato]. Se fosse altrimenti, e se gli oggetti della manife­stazione non sussistessero così principialmente (suppo­sizione che d’altronde è impossibile in se stessa poiché questi oggetti sarebbero allora un puro niente, che non potrebbe affatto esistere, neppure in modo illusorio), non vi potrebbe essere un ritorno dallo stato di sonno profondo agli stati di sogno e di veglia, poiché tutta la manifestazione formale sarebbe allora irrimediabilmente distrutta per l’essere appena esso entrasse nel sonno profondo; ora, un tale ritorno è invece sempre possi­bile e si produce effettivamente, almeno per l’essere che non è attualmente «liberato», vale a dire definitiva­mente svincolato dalle condizioni dell’esistenza indivi­duale.

    La parola Chit non deve intendersi, come il suo de­rivato chitta, nel senso limitato del pensiero individuale e formale (questa determinazione ristrettiva, che impli­ca una modificazione per riflesso, essendo messa in buo­na evidenza, nel derivato, dal suffisso kta, che è il ter­mine del participio passivo), ma invece in senso univer­sale, come la Coscienza totale del «Sé», considerata in rapporto al suo unico oggetto, che è Ananda o la Beati­tudine [Lo stato di sonno profondo è stato qualificato d’«incosciente» da alcuni orientalisti, che sembrano anche volerlo identificare all’«In­cosciente» di qualche filosofo tedesco, quale l’Hartmann; questo er­rore dipende soprattutto dacché essi non possono concepire la co­scienza che come individuale e «psicologica»; ma esso ci sembra non meno inesplicabile, poiché non scorgiamo come si possa com­prendere con una simile interpretazione parole come Chit, Prajnana e Prajna]. Questo oggetto, pur costituendo allora in qual­che modo l’involucro del «Sé» (anandamaya kosha), come dianzi l’abbiamo spiegato, è identico al soggetto stesso, che è Sat o l’Essere puro, e non ne è punto vera­mente distinto, né può esserlo, infatti, quando non vi è più alcuna distinzione reale [Le parole «soggetto» ed «oggetto», nel senso nel quale noi qui le usiamo, non possono prestarsi ad equivoci: il soggetto è «ciò che conosce», l’oggetto è «ciò che è conosciuto»; il loro rapporto è la conoscenza stessa. Tuttavia, nella filosofia moderna, il significato di queste parole, e soprattutto quello dei loro derivati «subiettivo» ed «obiettivo», hanno tanto variato da ricevere accezioni diametralmente opposte. Certi filosofi le adoperano indistintamente in sensi molto differenti; il loro uso presenta dunque spesso inconvenienti gravi per la chiarezza, e, in molti casi, è preferibile astenersi dell’u­sarle, per quanto è possibile]. Così questi tre, Sat, Chit, Ananda (generalmente riuniti in Sachchidananda) [In arabo, l’Intelligenza (El Aqlu), l’Intelligente (El Aqli) e l’In­telligibile (El Maqul) sono equivalenti a questi tre termini: la prima è la Coscienza universale (Chit), il secondo è il soggetto (Sat), il terzo ne è l’oggetto (Ananda), i tre non essendo che uno nell’Essere «che conosce Se stesso per Se stesso»], sono assolutamente uno stesso ed unico essere, e quest’«u­no» è Atma, considerato al di fuori e di là da tutte le condizioni particolari che determinano ciascuno dei suoi diversi stati di manifestazione.

    Nello stato di Prajna, che è anche spesso designato col nome di samprasada o «serenità» [Brihad Aranyaka Upanishad, 4° Adhyaya, 3° Brahmana, shruti 15; cfr. Brahma Sutra, 1° Adhyaya, 3° Pada, sutra 8.   Vedi anche ciò che più innanzi diremo sul significato della parola Nirvana], la Luce intelli­gibile è colta direttamente, ciò che costituisce l’intui­zione intellettuale, e non più per riflesso attraverso il «mentale» (manas) come negli stati individuali. Abbia­mo precedentemente riferito l’espressione d’«intuizio­ne intellettuale» a Buddhi, facoltà di conoscenza sopra­razionale e sopra individuale, quantunque già manife­stata; sotto questo rapporto, è necessario includere, in un certo modo, anche Buddhi nello stato di Prajna, che comprenderà così tutto ciò che è oltre l’esistenza individuale. Dobbiamo allora considerare nell’Essere un nuovo ternario, costituito da Purusha, Prakriti e Bud­dhi, vale a dire dai due poli della manifestazione, «es­senza» e «sostanza», e dalla prima produzione di Pra­kriti sotto l’influenza di Purusha, produzione che è la manifestazione informale. Bisogna aggiungere che, del resto, questo ternario rappresenta solamente ciò che si potrebbe chiamare l’«esteriorità» dell’Essere, e quindi non coincide affatto con l’altro ternario principiale che abbiamo considerato, e che si riferisce veramente alla sua «interiorità», ma che ne potrebbe essere piuttosto una prima particolarizzazione in modo distintivo [Si potrebbe dire, con le riserve che abbiamo fatto sull’uso di queste parole, che Purusha è il polo «subiettivo» della manifestazio­ne, e Prakriti ne è il polo «obiettivo»; Buddhi corrisponde allora naturalmente alla conoscenza che è quasi una risultante del soggetto e dell’oggetto, od il loro «atto comune», per usare un linguaggio ari­stotelico. Tuttavia, è bene notare che, nell’ordine dell’Esistenza uni­versale, è Prakriti che «concepisce» le sue produzioni per l’influenza «non agente» di Purusha, mentre, nell’ordine delle esistenze indivi­duali, il soggetto conosce al contrario per l’azione dell’oggetto; l’ana­logia è dunque qui invertita, come nei casi incontrati precedente­mente. Infine, se si considera l’intelligenza come inerente al soggetto (quantunque la sua «attualità» supponga la presenza dei due termini complementari), si dovrà dire che l’Intelletto universale é essenzialmente attivo, mentre l’intelligenza individuale è passiva, per lo meno relativamente (anche se contemporaneamente è attiva sotto un altro rapporto), ciò che del resto implica il suo carattere di “riflesso”; anche queste considerazioni concordano interamente con le teorie di Aristotele]; è beninteso che, parlando qui d’«esteriore» e d’«inte­riore», noi usiamo un linguaggio puramente analogico, fondato su un simbolismo spaziale, che non potrebbe letteralmente applicarsi all’Essere puro. D’altronde, il ternario di Sachchidananda, che è coestensivo all’Essere, si traduce ancora, nell’ordine della manifestazione informale, col ternario che abbiamo già distinto in Buddhi: il Matsya Purana, che allora citavamo, dichiara che, «nell’Universale, Mahat (o Buddhi) è Ishwara»; Prajna è anche Ishwara, a cui propriamente appartiene il karana sharira. Si può aggiungere altresì che la Trimurti o «triplice manifestazione» è soltanto l’«esteriorità» d’Ishwara, che, in sé, è indipendente da ogni manifestazione, di cui è il principio, poiché è l’Essere stesso; tutto quello che abbiamo detto d’Ishwara, tanto in sé, quanto in rapporto alla manifestazione, possiamo ugualmente dirlo di Prajna che ad esso è identificato. Così, al di fuori del punto di vista speciale della manifestazione e dei diversi stati condizionati che da esso dipendono in questa manifestazione, l’intelletto non è affatto differente da Atma, che deve essere considerato come «ciò che conosce se stesso per se stesso», poiché non vi è più allora realtà che da esso sia veramente distinta, tutto essendo compreso nelle sue proprie possibilità; appunto in questa «Conoscenza di Sé» risiede propriamente la Beatitudine.

    «Egli (Prajna) è il Signore (Ishwara) di tutto (sarva, parola che implica qui, nella sua estensione universale, l’insieme dei «tre mondi», vale a dire di tutti gli stati di manifestazione sinteticamente compresi nel loro principio); Egli è onnisciente (poiché tutto Gli è presente nella Conoscenza integrale, ed Egli conosce direttamente tutti gli effetti nella causa principiale totale, che non è affatto distinta da Lui) [Gli effetti sono «eminentemente», nella causa, come dicono i filosofi scolastici, e sono perciò fra i costituenti della sua natura stessa, poiché non può essere negli effetti ciò che prima non è stato nella causa; così la causa prima, che si conosce per se stessa, appunto perciò conosce tutti gli effetti, vale a dire tutte le cose, in modo assolutamente immediato e «non distintivo»]. Egli è l’ordinatore interno (antar yami, che stando al centro stesso dell’essere, regge e controlla tutte le facoltà corrispondenti ai suoi diversi stati, anche se Lui stesso è «non agente» nella pienezza della Sua attività principiale) [Questo «ordinatore interno» è identico al «Rettore Universa­le» di un testo taoista che abbiamo citato in una precedente nota. La tradizione estremo orientale aggiunge ancora che «l’Attività del Cielo è non agente»; nella sua terminologia, il Cielo (Tien) corri­sponde a Purusha (considerato ai diversi gradi che precedentemente abbiamo indicato), e la Terra (Ti) a Prakriti; non si tratta dunque di ciò che si è obbligati ad esprimere con le stesse parole nell’enumerazione dei termini del Tribhuvana indù]; Egli è la sorgente (yoni, matrice o radice primordiale, e contemporaneamente principio o causa prima) di tutto (quello che esiste sotto qualsiasi modo); Egli è l’origine (pra­bhava, per la Sua espansione nella moltitudine indefinita delle Sue possibilità) e la fine (apyaya, per il Suo racchiudersi nell’unita di Se stesso) [Ciò è riferibile, nell’ordine cosmico, alle due fasi di «espira­zione» e di «aspirazione» che si possono considerare particolarmente in ogni ciclo; però qui si tratta della totalità dei cicli o degli stati che costituiscono la manifestazione universale] dell’universalità degli esseri (essendo Egli stesso l’Essere Universale)» [Mandukya Upanishad, shruti 6].

     

    XV. LO STATO INCONDIZIONATO D’ATMA

     

    «Veglia, sogno, sonno profondo, e ciò che è oltre, sono i quattro stati d’Atma; il più grande (mahattara) è il Quarto (Turiya). Nei primi tre, sta Brahma con uno dei suoi piedi; nell’ultimo, egli vi sta con tre piedi» [Maitri Upanishad, 7° Prapathaka, shruti 11]. Così, le proporzioni precedentemente stabilite da un certo punto di vista, sono invertite se considerate da un altro punto di vista: dei quattro «piedi» (pada) d’Atma, i primi tre quanto alla distinzione degli stati non ne sono che uno per l’importanza metafisica, e l’ul­timo ne è per se solo tre sotto lo stesso rapporto. Se Brahma non fosse «senza parti» (akhanda), si potrebbe dire che soltanto un quarto di Lui è nell’Essere (com­prendendovi tutto ciò che ne dipende, vale a dire la ma­nifestazione universale di cui è il Principio), gli altri Suoi tre quarti essendo oltre l’Essere stesso [Pada significa «piede» ed anche «quarto»]. Questi tre quarti possono considerarsi nel modo seguente: 1° la totalità delle possibilità di manifestazione in quanto non si manifestano, dunque allo stato assolutamente permanente ed incondizionato, come tutto ciò che rileva del «Quarto» (se esse invece si manifestano, appar­tengono ai due primi stati; ed in quanto «manifesta­bili», al terzo, principiale in rapporto agli altri primi); 2° la totalità delle possibilità di non manifestazione (che designamo al plurale solo per pura analogia, poiché sono evidentemente di là dalla molteplicità, ed anche dal­l’unita); 3° finalmente, il Principio Supremo di queste e di quelle, la Possibilità Universale, totale, infinita, as­soluta [Analogamente, considerando i primi tre stati, il cui insieme costituisce il dominio dell’Essere, si potrebbe ancora dire che i due primi non rappresentano che un terzo dell’Essere, poiché contengono soltanto la manifestazione formale, mentre il terzo ne rappresenta da solo i due terzi, comprendendo contemporaneamente la manifestazione informale e l’Essere non manifestato. – È essenziale notare che le sole possibilità di manifestazione entrano nel dominio dell’Essere, anche se considerato in tutta la sua universalità].

    «I Saggi pensano che il Quarto (Chaturtha) [Le due parole Chaturtha e Turiya hanno lo stesso significato e si applicano identicamente allo stesso stato: Yad vai Chaturtham tat Turiyam, «ciò sicuramente che è Chaturtha, ciò è Turiya» (Brihad-Aranyaka Upanishad, 5° Adhyaya, 14° Brahmana, shruti 3)], che non ha conoscenza né degli oggetti interni né di quelli esterni (in modo distintivo ed analitico), né contempo­raneamente di questi e di quelli (sinteticamente e prin­cipialmente), e che infine non è (nemmeno) un insieme sintetico di Conoscenza integrale, poiché non è né co­noscente né non conoscente, è invisibile (adrishta, ed ugualmente non percettibile da qualsiasi facoltà), non­-agente (avyavaharya, nella Sua immutabile identità), incomprensibile (agrahya, poiché tutto comprende), indefinibile (alakshana, poiché illimitato), impensabile (achintya, poiché non può essere rivestito da forme), indescrivibile (avyapadeshya, non potendo essere qualificato da attribuzioni o da determinazioni particolari); Esso è l’unica essenza fondamentale (pratyaya sara) del “Sé” (Atma, presente in tutti gli stati), senza alcuna traccia di sviluppo della manifestazione (prapancha upashama, e per conseguenza assolutamente e totalmente liberato dalle condizioni speciali di qualunque modo (d’esistenza), pienezza di Pace e di Beatitudine, senza dualità: è Atma (al di fuori ed indipendentemente d ogni condizione); (così) Esso dev’essere conosciuto» [Mandukya Upanishad, shruti 7].

    Si noterà che quanto concerne questo stato incondizionato d’Atma è espresso in una forma negativa; ciò si comprende facilmente, poiché, nel linguaggio, ogni affermazione diretta è necessariamente una affermazione particolare e determinata, l’affermazione di qualche cosa che ne esclude altre, e che perciò limita ciò di cui è possibile l’affermazione [È per la stessa ragione che questo stato, non potendo affatto essere caratterizzato, è semplicemente specificato come il «Quarto»; ma questa spiegazione, sebbene evidente, è sfuggita agli orientalisti. A questo proposito, possiamo citare un curioso esempio della loro incomprensione: l’Oltramare ha creduto che il nome «Quarto» indicasse una «costruzione logica», poiché gli ha ricordato «la quarta dimensione dei matematici»; ecco un avvicinamento per lo meno inatteso, che sarebbe indubbiamente difficile giustificare seriamente]. Ogni determinazione è una limitazione, dunque una negazione [Spinoza stesso l’ha espressamente riconosciuto: «Omnis determinatio negatio est»; ma è appena necessario aggiungere che l’applicazione che egli ne fa ricorda piuttosto l’indeterminazione di Prakriti che quella d’Atma nel suo stato incondizionato]; e perciò è invece la negazione di una determinazione che è una vera affermazione; quindi le espressioni d’apparenza negative, che qui incontriamo, sono, nel loro senso reale, eminentemente affermative. D’altronde, la parola «Infinito», la cui forma è simile, esprime la negazione di qualun­que limite, perciò equivale all’affermazione totale ed assoluta, che comprende o racchiude tutte le afferma­zioni particolari, ma senza essere qualcuna di queste soltanto all’esclusione delle altre, precisamente perché le implica tutte ugualmente e «non distintivamente»; e così la Possibilità Universale comporta assolutamente tutte le possibilità. Tutto ciò che si può esprimere in forma affermativa è necessariamente racchiuso nel do­minio dell’Essere, poiché questo è la prima affermazio­ne o la prima determinazione, quella da cui procedono tutte le altre, come l’unità è il primo dei numeri, da cui tutti ne derivano; ma, qui, non si tratta dell’unità, ben­sì della «non dualità», od, in altre parole, siamo di là dall’Essere, appunto perché ogni determinazione, anche principiale, è ormai superata [Noi ci poniamo qui al punto di vista puramente metafisico, ma dobbiamo aggiungere che queste considerazioni possono anche appli­carsi al punto di vista teologico; quantunque quest’ultimo si tenga ordinariamente nei limiti dell’Essere, alcuni riconoscono tuttavia che la «teologia negativa» è la sola rigorosa, vale a dire che soltanto gli attributi di forma negativa convengono veramente a Dio. – Cfr. S. Dionigi l’Areopagita, De Theologia Mystica, di cui gli ultimi due capitoli si riavvicinano in modo notevole, anche nelle espressioni, al testo che abbiamo citato].

    In Se stesso, Atma non è dunque né manifestato (vyakta), né non manifestato (avyakta), per lo meno se si considera il non manifestato soltanto come il principio immediato del manifestato (ciò che si riferisce allo stato di Prajna); ma Esso è contemporaneamente il principio del manifestato e del non manifestato (quantunque questo Principio Supremo possa d’altronde an­che esser detto non manifestato in un senso superiore, non fosse che per affermare la Sua immutabilità asso­luta e l’impossibilità di caratterizzarLo con qualsiasi at­tribuzione positiva). «Egli (il Supremo Brahma, al qua­le Atma incondizionato è identico) non può essere rag­giunto né dallo sguardo [Parimenti, il Qoran dice parlando d’Allah: «Gli sguardi non possono raggiungerLo».   «Il Principio non è raggiunto né dalla vista né dall’udito» (Tchoang tseu, cap. XXII; trad. del P. Wieger, p. 397)], né dalla parola o dal «men­tale» [L’occhio rappresenta qui le facoltà di sensazione e la parola quelle d’azione; si è visto precedentemente che il manas, per la sua natura e per le sue funzioni, partecipa a queste e a quelle. Brahma non può essere raggiunto da facoltà individua né percepito dai sensi come gli oggetti grossolani, né concepito dal pensiero come gli oggetti sottili, né può essere espresso in modo sensibile dalle parole, né in modo ideale dalle immagini mentali], né possiamo riconoscerLo (come comprensibile da altri che Se stesso); perciò non sappiamo come spie­gare la Sua natura (con qualche descrizione). Egli è su­periore al conosciuto (distintivamente, o all’Universo manifestato), ed è altresì anche di là da ciò che non è conosciuto (distintivamente, o dall’Universo non mani­festato, uno con l’Essere puro) [Cfr. il passo già citato della Bhagavad Gita (XV, 18), dal quale si rileva che Paramatma «oltrepassa il distruttibile ed anche l’indi­struttibile»; il primo è il manifestato, il secondo il non manifestato, inteso come già l’abbiamo spiegato]; questo è l’insegna­mento che abbiamo ricevuto dagli antichi Saggi. Si deve considerare come Brahma (nella Sua Infinità) Ciò che non è manifestato dalla parola (o da altra cosa), ma da cui la parola è manifestata (come tutt’altra cosa), e non quello che è considerato (in quanto oggetto di meditazione) come «questo» (un essere individuale o un mon­do manifestato, secondo che il punto di vista si riferisca al «microcosmo» od al «macrocosmo») o «quello» (Ishwara o l’Essere Universale stesso, al di fuori di ogni individualizzazione e di ogni manifestazione)» [Kena Upanishad, 1° khanda, shruti 3 a 5. – Ciò che è stato detto per la parola (vach) è poi successivamente ripetuto nelle shruti 6 a 9, in termini identici, per il «mentale» (manas), l’occhio (chaksus), l’udito (shrotra) ed il «soffio vitale» (prana)].

    Shankaracharya aggiunge il seguente commento: «Un discepolo che ha seguito attentamente l’esposizione della natura di Brahma, potrebbe supporre di co­noscerLo perfettamente (almeno teoricamente); però, malgrado le apparenze, una tale opinione è errata. In­fatti, il significato ben stabilito dei testi concernenti il Vedanta è che il «Sé» di qualunque essere che possie­de la Conoscenza è identico a Brahma (poiché questa Conoscenza stessa realizza appunto l’«Identità Supre­ma»). Ora, è possibile una conoscenza distintiva e de­finita per quelle cose che sono suscettibili di diventare oggetti di conoscenza, ma non è così per Quello che non può diventare un tale oggetto. Ciò è Brahma, poi­ché Egli e il Conoscitore (totale), e il Conoscitore può conoscere le altre cose (che racchiude tutte nella Sua in­finita comprensione, identica alla Possibilità Univer­sale), ma non può Egli stesso essere l’oggetto della Sua propria Conoscenza (poiché, nella Sua identità, che non risulta da alcuna identificazione, non è più possibile di­stinguere nemmeno principialmente, come nella condi­zione di Prajna, un soggetto ed un oggetto, che sono tuttavia «lo stesso»; né Egli può cessare d’essere Se stesso, «tutto conoscente», per diventare «tutto conosciuto» [Abbiamo tradotto così letteralmente i due termini francesi tout connaissant e tout connu, pur riconoscendo che questa maniera è alquanto inadeguata, ma non abbiamo trovato altre parole che meglio esprimessero un tale concetto. Si poteva forse tradurre tout con­naissant per «onnisciente», ma la difficoltà stava allora nel trovare un termine simmetrico per tout connu, e ciò ci è stato impossibile (Ndt)], che sarebbe un altro Se stesso), come, per esempio, il fuoco può bruciare altre cose, ma non può bruciare se stesso (poiché la sua natura essenziale è in­divisibile, come, analogicamente, Brahma è «senza dua­lità») [Cfr. Brihad Aranyaka Upanishad, 4° Adhyaya, 5° Brahmana, shruti 14: «Come il Conoscitore (totale) potrebbe essere cono­sciuto?»]. D’altra parte, non può nemmeno dirsi che Brahma possa essere oggetto di conoscenza per un altro Se stesso; al di fuori di Lui non vi è infatti un cono­scente (poiché ogni conoscenza, anche se relativa, è sem­pre una partecipazione della Conoscenza assoluta e su­prema)» [Anche qui possiamo stabilire un avvicinamento con una frase del Trattato dell’Unità (Risalatul Ahadiyah) di Mohyiddin ibn Ara­bi: «Nulla, nulla assolutamente esiste, eccetto Lui (Allah), ma Egli comprende la Sua propria esistenza senza (tuttavia) che questa com­prensione esista in qualche modo»].

    Perciò il testo aggiunge: «Se tu pensi che ben cono­sci (Brahma), poco della Sua natura tu conosci; perciò tu devi considerare Brahma ancora più attentamente. (La risposta è questa): Non penso di conoscerLo, cioè non Lo conosco bene (in modo distinto, come potrei co­noscere un oggetto suscettibile di descrizione o di defi­nizione); tuttavia Lo conosco (per l’insegnamento che ho ricevuto sulla Sua natura). Chiunque comprende queste parole (nel loro vero significato): «Non Lo conosco, e tuttavia Lo conosco», quegli veramente Lo co­nosce. Da chi pensa che Brahma è «non compreso» (da una qualunque facoltà), Brahma è compreso (poiché, per la Conoscenza di Brahma, egli è diventato realmente ed effettivamente identico a Brahma stesso); ma chi pensa che Brahma è compreso (da qualche facoltà sensi­bile o mentale), quegli non Lo conosce affatto. Brahma (in Se stesso, nella Sua incomunicabile essenza) è cono­sciuto da quelli che Lo conoscono (come un qualsiasi oggetto di conoscenza, sia che si tratti d’un essere parti­colare o dell’Essere Universale), ed è conosciuto appun­to da quelli che non Lo conoscono (come «questo» o «quello») [Kena Upanishad, 2° Khanda, shruti 1 a 3.   Ecco un testo taoi­sta completamente identico: «L’Infinito ha detto: non conosco il Principio; questa è una risposta profonda. L’Inazione ha detto: io conosco il Principio; questa è una risposta superficiale. L’Infinito ha avuto ragione asserendo d’ignorare l’essenza del Principio; l’Inazione ha potuto asserire di conoscerLo solo per le Sue manifestazioni este­riori... Non conoscerLo è infatti conoscerLo (nella Sua essenza); conoscerLo (nelle Sue manifestazioni) è non conoscerLo (quale è in realtà). Ma come spiegare che è non conoscendoLo che Lo si conosce?   Ecco come, dice lo Stato primordiale. Il Principio non può essere udito; ciò che si ode non è Esso. Il Principio non può essere visto; ciò che si vede non è Esso. Il Principio non può essere enunciato; ciò che s’enuncia non è Esso... Il Principio, non potendo essere imma­ginato, non può nemmeno essere descritto. Colui che propone delle questioni sul Principio e chi risponde a queste domande, ambedue dimostrano d’ignorare ciò che Esso è, poiché non si può domandare né rispondere in merito» (Tchoang tseu, cap. XXII; trad. del P. Wieger, pp. 397-399)]

     

    XVI. RAPPRESENTAZIONE SIMBOLICA D’ATMA E DELLE SUE CONDIZIONI FIGURATA DAL MONOSILLABO SACRO OM

     

    Il seguito della Mandukya Upanishad si riferisce alla corrispondenza del monosillabo sacro Om e dei suoi elementi (matra) con Atma e le sue condizioni (pada); da una parte, esso indica le ragioni simboliche di questa corrispondenza, e, dall’altra, gli effetti della meditazio­ne del simbolo e di ciò che rappresenta, vale a dire d’Om e d’Atma: in questa corrispondenza, il primo rap­presenta un «appoggio» per ottenere la conoscenza del secondo. Daremo ora la traduzione di quest’ultima par­te del testo; ma non potremo completamente commentarla, poiché ciò ci allontanerebbe dal soggetto del pre­sente studio.

    «Quest’Atma e rappresentato dalla sillaba (per ec­cellenza) Om, che, a sua volta, e rappresentata da ca­ratteri (matra), (per cui) le condizioni (d’Atma) sono le matra (d’Om), e (inversamente) le matra (d’Om) sono le condizioni (d’Atma): questi caratteri sono A, U e M.

    «Vaishwanara, il cui seggio è nello stato di veglia, è (rappresentato da) A, la prima matra, perché essa è la connessione (apti, di tutti i suoni, il suono primordiale A, quello emesso dagli organi della parola nella loro po­sizione naturale, essendo come immanente in tutti gli altri, che ne sono modificazioni diverse e che si unifi­cano in esso, come Vaishwanara è presente in tutte le cose del mondo sensibile, che riconduce all’unità), ed anche perché questa prima matra e il principio (adi, con­temporaneamente dell’alfabeto e del monosillabo Om, come Vaishwanara è la prima delle condizioni d’Atma, la base da cui deve compiersi, per l’essere umano, la realizzazione metafisica). Quegli che ciò conosce ottiene in verità (la realizzazione di) tutti i suoi desideri (poiché, per la sua identificazione con Vaishwanara, tutti gli oggetti sensibili divengono dipendenti da lui e parte integrante del suo proprio essere), ed egli è allora il primo (nel dominio di Vaishwanara o di Viraj, di cui diviene il centro in virtù di questa conoscenza stessa e per l’identificazione che implica quando è pienamente effettiva).

    «Taijasa, il cui seggio è nello stato di sogno, è (rap­presentato da) U, la seconda matra, perché essa è l’ele­vazione (utkarsha, del suono, prendendo come punto di partenza la sua prima modalità, come lo stato sottile è, nella manifestazione formale, d’un ordine più elevato dello stato grossolano), ed anche perché partecipa di en­trambe (ubhaya, vale a dire che, per la sua natura e per la sua posizione, è intermediaria fra i due elementi estremi del monosillabo Om, come lo stato di sogno è intermediario, sandhya, fra la veglia ed il sonno pro­fondo). Quegli che ciò conosce procede in verità sulla via della Conoscenza (in virtù della sua identificazione con Hiranyagarbha), e (così illuminato) è in armonia (samana, con tutte le cose, poiché considera l’Universo manifestato come la produzione della sua propria conoscenza, che gli è inseparabile); non uno dei discendenti di chi ciò conosce (vale a dire la sua «posterità spirituale») [Questo senso ha anche qui, in virtù dell’identificazione con Hiranyagarbha, un particolare rapporto con l’«Uovo del Mondo» e con le leggi cicliche] ignorerà Brahma.

    «Prajna, il cui seggio è nello stato di sonno profondo, è (rappresentato da) M, la terza matra, perché essa è la misura (miti, delle altre due, come, in un rapporto matematico, il denominatore è la misura del numeratore), ed anche perché è lo scopo ultimo (del monosillabo Om, considerato racchiudente la sintesi di tutti, suoni, come il non manifestato contiene, sinteticamente ed in principio, tutto il manifestato con i suoi diversi modi possibili; questo manifestato può essere considerato come compreso nel non manifestato, da cui giammai s’è distinto se non in modo illusorio e transitorio: la causa prima è contemporaneamente la causa finale, e la fine è necessariamente identica al principio) [Per ben comprendere il simbolismo qui indicato, bisogna considerate che i suoni di A e di U si unificano in quello di O, e questo a sua volta, si disperde nel suono finale e nasale di M, senza tuttavia essere distrutto, ma anzi prolungandosi indefinitamente, anche se indistinto ed impercettibile.   D’altra parte, le forme geometriche che corrispondono rispettivamente alle tre matra sono una linea retta, una semi circonferenza (o meglio un elemento di spirale) ed un punto: la prima simbolizza il dispiegarsi completo della manifestazione; la seconda, uno stato d’inviluppo relativo, in rapporto a questo dispiegarsi, ma tuttavia ancora sviluppato o manifestato; e finalmente la terza, lo stato informale e «senza dimensioni» o condizioni limitative speciali, vale a dire il non manifestato. Si noterà anche che il punto è il principio primordiale di tutte le figure geometriche, come parimenti il non manifestato è il principio di tutti gli stati di manifestazione, e che esso è, nel suo ordine, l’unità vera ed indivisibile perciò è il simbolo naturale dell’Essere puro]. Quegli ­che ciò conosce misura in verità questo tutto (vale a dire l’insieme dei «tre mondi» o dei differenti gradi dell’Esistenza universale, di cui l’Essere puro è il «de­terminante») [Se ciò non fosse qui fuori di luogo, si potrebbero fare delle in­teressanti considerazioni linguistiche sull’espressione dell’Essere concep­ito come «soggetto ontologico» e «determinante universale»; osserveremo semplicemente che, in ebraico, il nome divino El vi si riferisce più particolarmente.   Tale aspetto dell’Essere è designato dalla tradizione indù come Swayambhu, «Colui che sussiste per Se stesso»; nella teologia cristiana, è il Verbo Eterno considerato come il «luogo dei possibili»; il simbolo estremo orientale del Dragone vi si riferisce ugualmente]; egli diviene lo scopo ultimo (di tutte cose, per la concentrazione nel suo proprio Se o la sua personalità, in cui si ritrovano, «trasformati» in possibilità permanenti, tutti gli stati di manifestazione del suo essere) [Soltanto in questo stato d’universalizzazione, non in quello in­dividuale, si potrebbe veramente dire «l’uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono», vale a dire, metafisicamente, del manifestato e del non manifestato, quantunque, rigorosamente parlando, non si possa attribuire una «misura» al non manifestato, se con ciò s’intende la determinazione per speciali condizioni d’esistenza, come quelle che definiscono ciascuno stato di manifestazione. D’altra parte, sarebbe inutile dire che il sofista greco Protagora, a cui si attribuisce la formul­a che abbiamo riprodotta, trasponendone il significato per rife­rirlo all’«Uomo Universale», certamente è stato molto lontano dal­l’elevarsi fino a questa concezione; perciò, riferendola all’essere uma­no in quanto individuo, egli aveva semplicemente l’intenzione di esprimere ciò che i moderni chiamerebbero un «relativismo» radicale, mentre, per noi, rappresenta evidentemente tutt’altra cosa, come facilmente comprenderanno coloro che conoscono quali rapporti intercorrono fra l’«Uomo Universale» ed il Verbo Divino (cfr. specialmente S. Paolo, I Epistola ai Corinzii, XV].

    «Il Quarto è «non caratterizzato» (amatra, dunque incondizionato); esso è non agente (avyavaharya), senza una traccia di sviluppo della manifestazione (prapancha upashama), tutto Beatitudine e senza dualità (Shiva Adwaita): ciò è Omkara (il monosillabo sacro conside­rato indipendentemente dalle sue matra), ciò sicura­mente é Atma (in Sé, al di fuori ed indipendentemente da qualsiasi condizione o determinazione, non esclusa la determinazione principiale che è l’Essere stesso). Quegli che ciò conosce entra in verità nel suo proprio «Sé» per questo stesso «Sé» (senza un intermediario di qualunque ordine, senza l’uso d’un qualunque stru­mento, quale una facoltà di conoscenza, che può solo raggiungere uno stato del «Sé», non Paramatma, il «Sé» supremo ed assoluto)» [Mandukya Upanishad, shruti 8 a 12.   Sulla meditazione di Om ed i suoi effetti in ordini diversi, in rapporto con i tre mondi, si possono trovare altre indicazioni nella Prashna Upanishad, 5° Pra­shna, shruti 1 a 7. Cfr. anche Chhandogya Upanishad, 1° Prapathaka, 1° 4° e 5° Khanda].

    Per ciò che concerne gli effetti che si ottengono in virtù della meditazione (upasana) del monosillabo Om, per ognuna delle sue tre matra dapprima, e poi in se stesso, indipendentemente da queste matra, aggiunge­remo soltanto che questi effetti corrispondono alla rea­lizzazione di differenti gradi spirituali, che possono ca­ratterizzarsi come segue: il primo è il pieno sviluppo dell’individualità corporea; il secondo è l’estensione integrale dell’individualità umana nelle sue modalità extra corporee; il terzo è l’attuazione degli stati sopra­-individuali dell’essere; finalmente, il quarto è la realiz­zazione dell’«Identità Suprema».

     

    XVII. L’EVOLUZIONE POSTUMA DELL’ESSERE UMANO

     

    Fin qui abbiamo considerato la costituzione dell’es­sere umano ed i differenti stati di cui è suscettibile finché sussiste composto dei diversi elementi che abbiamo distinto in questa costituzione, vale a dire per tutta la durata della sua vita individuale. Su questo punto è ne­cessario tuttavia insistere: gli stati che sono veramente propri all’individuo come tale, vale a dire non soltanto lo stato grossolano o corporeo, per cui la cosa è evi­dente, ma anche lo stato sottile (a condizione s’intende di comprendervi solamente le modalità extra corporee dello stato umano integrale, e non gli altri stati indivi­duali dell’essere), sono propriamente ed essenzialmente degli stati dell’uomo vivente. Non bisogna con ciò cre­dere che lo stato sottile cessi all’istante stesso e soltanto per il fatto della morte corporea; in seguito vedremo che allora si produce, al contrario, un passaggio dell’es­sere nella forma sottile, ma questo passaggio non costi­tuisce che una fase transitoria nel riassorbimento delle facoltà individuali dal manifestato al non manifestato, fase la cui esistenza si spiega naturalmente per il carat­tere d’intermediario che già abbiamo riconosciuto allo stato sottile. È possibile, tuttavia, in verità, considerare in un certo senso, e per lo meno in certi casi, un pro­lungamento ed anche un prolungamento indefinito del­l’individualità umana, che bisognerà necessariamente riferire alle modalità sottili, cioè extra corporee, di que­sta individualità; ma tale prolungamento non è affatto la stessa cosa dello stato sottile quale esisteva durante la vita terrestre. Bisogna ben rendersi conto, infatti, che, sotto la stessa denominazione di «stato sottile», è d’uopo comprendere modalità differentissime ed estre­mamente complesse, anche se ci limitiamo a rilevare so­lamente le possibilità propriamente umane; perciò ab­biamo avuto cura, fin dal principio, di prevenire che questa denominazione doveva sempre essere intesa in rapporto allo stato corporeo, preso come punto di par­tenza e termine di paragone, per cui non acquista un senso preciso che se opposta a questo stato corporeo o grossolano, che, da parte sua, ci appare sufficientemente definito per se stesso, perché è quello nel quale presen­temente noi ci troviamo. Si sarà potuto anche notare che, fra i cinque involucri del «Sé», tre ne costitui­scono la forma sottile (mentre uno solo corrisponde ad ognuno degli altri due stati condizionati d’Atma: per l’uno, perché è in realtà appena una modalità speciale e determinata dell’individuo; per l’altro, perché è uno stato essenzialmente unificato e «non distinto»); ciò è ancora una prova ben manifesta della complessità dello stato nel quale il «Sé» ha questa forma per veicolo, complessità che sempre bisogna ricordare se si vuol ben comprendere ciò che potrà dirsene quando sarà consi­derato da punti di vista differenti.

    Dobbiamo ora affrontare l’argomento che ordinaria­mente si denomina l’«evoluzione postuma» dell’essere umano, vale a dire le conseguenze che derivano per que­st’essere dalla morte o, per meglio precisare come inten­diamo questa parola, dalla dissoluzione di quel compo­sto di cui abbiamo parlato e che costituisce la sua individualità attuale. È bene d’altronde notare che, quando questa dissoluzione è avvenuta, non vi è più propria­mente l’essere umano, poiché è appunto essenzialmente questo composto che costituisce l’uomo individuale; il solo caso in cui è ancora possibile chiamarlo umano, in un certo senso, è quando, dopo la morte corporea, l’es­sere resta in qualcuno di quei prolungamenti dell’indi­vidualità a cui alludevamo, perché, in tal caso, quantun­que questa individualità non sia più completa nel rap­porto della manifestazione (poiché lo stato corporeo or­mai manca ad essa, le possibilità che vi corrispondono avendo compiuto l’intero ciclo del loro sviluppo), al­cuni dei suoi elementi psichici o sottili sussistono, in un certo qual modo, senza dissolversi. Negli altri casi, l’es­sere non può più considerarsi umano, poiché, dallo sta­to al quale s’applica questo nome, è passato ad un altro stato, che può essere individuale o non; così, l’essere che prima era umano non lo è più, diventando altra cosa, come parimenti, per la nascita, esso era divenuto umano, passando da un altro stato a quello che presen­temente è il nostro. Del resto, se si considera la nascita e la morte nel senso più generale, vale a dire come cam­biamenti di stato, ci renderemo conto immediatamente che sono delle modificazioni che si corrispondono analogicamente, essendo il principio e la fine d’un ciclo d’esistenza individuale; ed anche, quando si esce dal punto di vista speciale d’uno stato determinato per considerare il concatenamento dei diversi stati fra loro, ci accorgiamo che, in realtà, sono fenomeni rigorosamente equivalenti, la morte, per uno stato, essendo nello stesso tempo la nascita in un altro. In altre parole, è la stessa modificazione che è una morte od una nascita, secondo lo stato od il ciclo d’esistenza in rapporto al quale la si considera, poiché è propriamente il punto comune ai due stati, od il passaggio dall’uno all’altro; e ciò che è vero qui per stati differenti, lo è anche, ad un altro grado, per modalità diverse d’uno stesso stato, se si considerano queste modalità come costituenti, quanto allo sviluppo delle loro possibilità rispettive, altrettanti cicli secondari che s’integrano nell’insieme d’un ciclo più vasto [Queste considerazioni sulla nascita e sulla morte son d’altronde riferibili tanto al punto di vista «macrocosmico» che a quello «mi­crocosmico»; anche senza insistervi presentemente, si potranno senza dubbio intravvedere le conseguenze che ne risultano per quel che con­cerne la teoria dei cicli cosmici]. In fine, è necessario aggiungere espressa­mente che la «specificazione», nel senso da noi dianzi attribuito alla parola, vale a dire l’appartenenza ad una specie definita, quale la specie umana, che impone ad un essere certe condizioni generali costituenti la natura specifica, è valida solamente in uno stato determinato, ne può estendersi di là da questo stato; è impossibile che sia altrimenti, dacché la specie non è affatto un principio trascendente in rapporto a questo stato indi­viduale, ma rileva esclusivamente del dominio di que­sto, essendo essa stessa sottomessa alle condizioni limi­tative che lo definiscono; perciò l’essere che è passato ad un altro stato non è più umano, poiché non più ap­partiene alla specie umana [Ben inteso, in tutto questo, la parola «umano» è da noi usata solamente nel suo senso proprio e letterale, quello che si applica sol­tanto all’uomo individuale; non si tratta affatto della trasposizione analogica che permette la concezione dell’«Uomo Universale»].

    Dobbiamo ancora fare delle riserve sull’espressione di «evoluzione postuma», che potrebbe facilmente dar luogo a diversi equivoci; prima di tutto, la morte essendo concepita come la dissoluzione del composto umano, è ben evidente che la parola «evoluzione» non può essere qui intesa nel senso di uno sviluppo indivi­duale, poiché, al contrario, si tratta d’un riassorbimento dell’individualità nello stato non manifestato [Non si deve però credere che ciò sia una distruzione dell’indivi­dualità, poiché, nel non manifestato, le possibilità che la costituiscono sussistono in principio, in un modo permanente, come tutte le altre possibilità dell’essere, ma, tuttavia, poiché l’individualità non è tale che quando è nella manifestazione, si può ben dire che, rientrando nel non manifestato, essa svanisce infatti o cessa comunque d’esistere come individualità: essa però è «trasformata», non annientata (poiché ciò che è non può cessare d’essere)]; potreb­be essere dunque piuttosto un’«involuzione» dal punto di vista speciale dell’individuo. Etimologicamente, infatti, le parole «evoluzione» ed «involuzione» signi­ficano né più né meno che «sviluppo» ed «invilup­po» [In questo senso, ma soltanto in questo, si potrebbero applicare tali parole alle due fasi che si distinguono in ogni ciclo d’esistenza, come precedentemente l’abbiamo indicato]; ma ben sappiamo che, nel linguaggio moderno, la parola «evoluzione» ha ricevuto comunemente tut­t’altra accezione, che ne ha fatto quasi un sinonimo di «progresso». Abbiamo già avuto l’occasione di spie­garci sufficientemente su queste idee recentissime di «progresso» o di «evoluzione», che, ampliandosi oltre ogni misura ragionevole, sono riuscite a falsare comple­tamente la mentalità occidentale attuale: non v’insisteremo ulteriormente. Diremo però soltanto che si può validamente parlare di «progresso» solamente in modo tutto relativo, avendo sempre cura di precisare sotto quale rapporto lo si intende e fra quali limiti lo si con­sidera; ridotto a queste proporzioni, non ha più comune misura con quel «progresso» assoluto, di cui si è co­minciato a parlare verso la fine del XVIII secolo, e che i nostri contemporanei si compiacciono di decorare col nome d’«evoluzione», sedicente più «scientifico» [Rimandiamo il lettore all’altro importante studio del Guénon, Orient et Occident, dove sono ampiamente sviluppate ed affrontate le questioni di cui presentemente l’Autore si è limitato a semplici accenni (Ndt)]. Il pensiero orientale, come il pensiero dell’Occidente an­tico e medioevale, non potrebbe ammettere la nozione di «progresso» che nel senso relativo da noi indicato, vale a dire come un’idea del tutto secondaria e di por­tata estremamente limitata, senza alcun valore metafi­sico, poiché è di quelle che possono riferirsi solamente a possibilità d’ordine particolare, né possono trasporsi oltre certi limiti. Il punto di vista «evolutivo» non è suscettibile d’universalizzazione, né si può concepire l’essere vero come qualche cosa che «evolva» fra due punti definiti o che comunque «progredisca», anche in­definitamente, in un senso determinato; tali concezioni sono interamente sprovviste di ogni significato e pro­vano una completa ignoranza dei dati i più elementari della metafisica. Si potrebbe tutt’al più parlare, in un certo modo, d’«evoluzione» per l’essere nel senso d’un passaggio ad uno stato superiore; ma bisognerebbe an­cora ammettere una restrizione che garantisca al termine la sua relatività: infatti, per l’essere considerato in sé e nella sua totalità, non può mai trattarsi d’«evo­luzione» o d’«involuzione», in qualsiasi senso si vo­gliano intendere queste parole, poiché la sua identità essenziale non è mai alterata dalle modificazioni parti­colari e contingenti che pregiudicano soltanto tale o tal altro dei suoi stati condizionati.

    Un’altra riserva è ancora necessaria per l’uso della parola «postumo»: è soltanto dal punto di vista spe­ciale dell’individualità umana, ed in quanto questa è condizionata dal tempo, che si può parlare di ciò che si produrrà «dopo la morte», ed anche di ciò che avve­niva «prima della nascita», per lo meno se s’intende conservare alle parole «prima» e «dopo» quel signifi­cato cronologico che hanno ordinariamente. In se stessi, gli stati considerati, se sono al di fuori dell’individualità umana, non sono affatto temporali, né possono, per conseguenza, essere rilevati cronologicamente; e questo è vero anche per quegli stati che possono avere fra le loro condizioni un certo modo di durata, vale a dire di successione, ma che non sia più la successione tempo­rale. Quanto allo stato non manifestato, si capisce natu­ralmente che è libero da ogni successione, perciò le idee d’anteriorità e di posteriorità, anche se considerate nella loro più vasta accezione, non vi si possono affatto rife­rire; è l’occasione di notare, a questo proposito, che, anche durante la vita, l’essere non ha più nozione del tempo quando la sua coscienza è al di fuori dell’individualità, come nel sonno profondo o nello stato estatico: finche l’essere è in questi stati, che sono veramente non-manifestati, il tempo non esiste più per lui. Resterebbe da esaminare il caso per cui lo stato «postumo» è un semplice prolungamento dell’individualità umana: in verità, questo prolungamento può situarsi nella «perpetuità», vale a dire nell’indefinità temporale, o, in al­tre parole, in un modo di successione ancora nel tempo (poiché non si tratta d’uno stato sottomesso ad altre condizioni di quelle del nostro), ma un tempo che non ha più comune misura con quello nel quale si svolge l’esistenza corporea. D’altronde, metafisicamente, un tale stato non c’interessa in particolar modo, poiché, al contrario, dobbiamo rilevare essenzialmente, allo stesso punto di vista metafisico, la possibilità di uscire dalle condizioni individuali, e non quella di permanervi inde­finitamente; se dobbiamo però tuttavia parlarne, è ap­punto per non tralasciare nemmeno uno dei casi possi­bili, ed anche perché, come in seguito lo vedremo, que­sto prolungamento dell’esistenza umana riserba all’es­sere una possibilità di raggiungere la «Liberazione» senza passare per altri stati individuali. Checché ne sia, e mettendo da parte quest’ultimo caso, possiamo dire questo: se si parla degli stati non umani come posti «prima della nascita» e «dopo la morte», è, in primo luogo, perché così essi appaiono in rapporto all’indivi­dualità; ma bisogna d’altronde aver molta cura di speci­ficare che non è affatto l’individualità che passa in que­sti stati, né li percorre successivamente, poiché sono degli stati che stanno al di fuori del suo dominio e che non la concernono in quanto individualità. D’altra par­te, vi è un senso nel quale si possono applicare le idee d’anteriorità e di posteriorità al di fuori di ogni punto di vista di successione temporale o non temporale: in­tendiamo quell’ordine, contemporaneamente logico ed ontologico, secondo cui i diversi stati si concatenano e si determinano l’un l’altro; se uno stato è così la conse­guenza d’un altro, si potrà dire che è ad esso posteriore, usando in un tal modo di parlare lo stesso simbolismo temporale che serve ad esprimere tutta la teoria dei cicli, quantunque, metafisicamente, vi sia perfetta simul­taneità fra tutti gli stati, un punto di vista di successio­ne effettiva non applicandosi che dentro ad uno stato determinato.

    Ci siamo soffermati su queste considerazioni affinché non si attribuisse all’espressione d’«evoluzione postu­ma», se si vuol conservarla per mancanza di un’altra più adatta e per conformarsi a certe abitudini, una im­portanza ed un significato che in realtà non ha né potrebbe avere; ritorniamo dunque allo studio della questione alla quale essa si riferisce, e la cui soluzione, d’altronde, risulta quasi immediatamente da tutte le considerazioni che precedono. L’esposizione che seguirà è tratta dai Brahma Sutra [4° Adhyaya, 2°, 3° e 4° Pada.   Il 1° Pada di questo 4° Adhyaya è dedicato all’esame dei mezzi della Conoscenza Divina, i cui risultati saranno esposti in quel che segue] e dai loro commenti tradizio­nali (intendiamo soprattutto quello di Shankaracharya), ma dobbiamo mettere sull’avviso che non ci limiteremo ad una traduzione letterale; qualche volta abbiamo do­vuto riassumere il commento [Colebrooke ha dato un riassunto di questo genere nei suoi Essais sur la Philosophie des Hindous (IV Essai), ma la sua interpretazione, quantunque non deformata da pregiudizi sistematici come se ne riscontrano troppo frequentemente nei lavori di altri orientalisti, è estremamente difettosa da punto di vista metafisico, per l’incomprensione pura e semplice di questo punto di vista stesso] ed altre volte commen­tarlo a sua volta, perché, diversamente, questo riassunto sarebbe stato quasi incomprensibile, come spesso avviene quando si tratta dell’interpretazione dei testi orientali [Faremo notare che, in arabo, la parola tarjumah significa contemporaneamente «traduzione» e «commento», poiché entrambi sono considerati inseparabili; il suo equivalente più esatto sarebbe dunque «spiegazione» od «interpretazione». Si può anche dir quando si tratta dei testi tradizionali, che una traduzione in lingua volgare, per essere intelligibile, deve corrispondere esattamente ad un commento fatto nella lingua stessa del testo; la traduzione letterale da una lingua orientale in una occidentale è generalmente impossibile, e quando più rigorosamente si segue la lettera, tanto più ci si allontana dallo spirito; ma, disgraziatamente, i filologi non riescono a comprendere queste cose].

     

    XVIII. IL RIASSORBIMENTO DELLE FACOLTÀ INDIVIDUALI

     

    «Quando un uomo sta per morire, la parola e poi il resto delle dieci facoltà esterne (le cinque facoltà d’azione e le cinque di sensazione, manifestate esteriormente dagli organi corporei che vi corrispondono, ma non confuse con essi, poiché qui se ne separano) [La parola è enumerata l’ultima quando queste facoltà sono con­siderate nel loro ordine di sviluppo; essa deve dunque essere la prima nell’ordine di riassorbimento, inverso dell’ordine precedente], è riassorbita nel senso interno (manas), poiché l’attività degli organi esteriori cessa prima di questa facoltà inte­riore (che è così lo scopo ultimo di tutte le facoltà indi­viduali di cui si tratta, come ne è parimenti il punto di partenza e l’origine comune) [Chhandogya Upanishad, 6° Prapathaka, 8° Khanda, shruti 6]. Questa facoltà interiore, nello stesso modo, si riassorbe poi nel «soffio vitale» (prana), accompagnata similmente da tutte le funzioni vitali (i cinque vayu, che sono delle modalità di prana, e che così ritornano allo stato indifferenziato), poiché queste funzioni sono inseparabili dalla vita stessa; d’al­tronde, lo stesso riassorbimento del senso interno si nota anche nel sonno profondo e nello stato estatico (con la completa sospensione di ogni manifestazione esteriore della coscienza)». Aggiungiamo che questa cessazione non implica tuttavia sempre, necessariamente, la so­spensione totale della sensibilità corporea, specie di co­scienza organica, se così è dato esprimerci, quantunque la coscienza individuale propriamente detta non rappre­senti allora alcuna parte nelle manifestazioni di questa, con la quale non comunica più come avviene normal­mente negli stati ordinari dell’essere vivente; la ragione è facile a comprendersi, non essendovi, a vero dire, più coscienza individuale nei casi di cui si tratta, poiché la coscienza vera dell’essere si è trasferita in un altro sta­to, che, in realtà, è uno stato sopra individuale. Questa coscienza organica, alla quale alludevamo, non è una coscienza nel vero senso della parola, ma ne partecipa in qualche modo, dovendo la sua origine alla coscienza individuale di cui è come un riflesso; separata da que­sta, essa non è più che un’illusione di coscienza, ma può ancora averne l’apparenza per coloro che osservano le cose solamente dall’esterno [Perciò, in un’operazione chirurgica, l’anestesia la più completa non impedisce sempre i sintomi esteriori del dolore]; parimenti, dopo la morte, la persistenza di certi elementi psichici, più o meno dis­sociati, quando hanno la possibilità di manifestarsi, co­me l’abbiamo spiegato in altre circostanze, può presentare la stessa apparenza, non meno illusoria [La coscienza organica di cui si tratta rientra naturalmente in ciò che gli psicologi chiamano la «subcoscienza»; ma il loro grave torto consiste nel credere di avere sufficientemente spiegato quello a cui in realtà si sono limitati ad attribuire una semplice denominazione, sotto la quale, del resto, classificano gli elementi più disparati, senza nem­meno poter stabilire la distinzione fra ciò che è veramente cosciente a qualche grado e ciò che ne ha soltanto l’apparenza, e neanche fra il «subcosciente» vero ed il «supercosciente», vogliamo dire fra ciò che procede da stati rispettivamente inferiori e superiori in rapporto allo stato umano].

    «Il «soffio vitale», accompagnato similmente da tutte le altre funzioni e facoltà (già in esso riassorbite e non sussistendovi che come possibilità, poiché sono or­mai ritornate allo stato d’indifferenziazione da cui erano dovute uscire per manifestarsi effettivamente durante la vita), a sua volta, è riassorbito nell’«anima vivente» (jivatma, manifestazione particolare del «Sé» al centro dell’individualità umana, come precedentemente l’ab­biamo spiegato, e distinguentesi dal «Sé» finché questa individualità sussiste come tale, quantunque questa di­stinzione sia d’altronde del tutto illusoria in rapporto alla realtà assoluta, per la quale non vi è altro che il «Sé»); ed è appunto quest’«anima vivente» (come ri­flesso del «Sé» e principio centrale dell’individualità) che governa l’insieme delle facoltà individuali (considerate nella loro integralità, e non soltanto in ciò che concerne la modalità corporea) [Si può notare che prana, anche se si manifesta esteriormente con la respirazione, è, in realtà, tutt’altro che la respirazione stessa, poiché non si comprenderebbe come la respirazione, funzione fisiologica, si separi dall’organismo e si riassorba nell’«anima vivente»; ricorderemo ancora che prana e le sue diverse modalità appartengono essenzialmente allo stato sottile]. Come i servi d’un re si riuniscono intorno a lui quando egli è in procinto d’intraprendere un viaggio, così tutte le funzioni vitali e le facoltà (esterne ed interne) dell’individuo si riuniscono intorno all’«anima vivente» (o piuttosto proprio in essa, da cui procedono tutte e nella quale sono riassorbite) all’ultimo momento (della vita nel senso ordinario della parola, vale a dire dell’esistenza manifestata nello stato grossolano), quando quest’«anima vivente» sta per ri­tirarsi dalla sua forma corporea [Brihad Aranyaka Upanishad, 4° Adhyaya, 3° Brahmana, shru­ti 38]. Così, accompagnata da tutte le sue facoltà (poiché le contiene e le conserva in sé a titolo di possibilità) [Del resto, una facoltà è propriamente un potere, vale a dire una possibilità, che, in se stessa, è indipendente da ogni esercizio attuale], essa si ritira in un’essenza in­dividuale luminosa (vale a dire nella forma sottile, assi­milata ad un veicolo igneo, come l’abbiamo spiegato a proposito di Taijasa, la seconda condizione d’Atma), che è composta dei cinque tanmatra o essenze elementari so­prasensibili (come la forma corporea é composta dei cinque bhuta o elementi corporei e sensibili), in uno stato sottile (in opposizione allo stato grossolano, che è quello della manifestazione esteriore o corporea, il cui ciclo è ormai compiuto per l’individuo considerato).

    «Per conseguenza (in virtù di questo passaggio nella forma sottile, descritta come luminosa), si dice che il «soffio vitale» si ritira nella Luce, senza che s’intenda da ciò il principio igneo in modo esclusivo (poiché si tratta in realtà d’un riflesso individualizzato dalla Luce intelligibile, riflesso la cui natura è in fondo la stessa di quella del «mentale» durante la vita corporea, e che, d’altronde, implica come appoggio o veicolo una com­binazione dei principi essenziali dei cinque elementi), e senza che questo ritrarsi si effettui necessariamente per una transizione immediata; infatti (per usare un para­gone), si dice che un viaggiatore si reca da una città ad un’altra, anche se si ferma successivamente ad una od a più città intermedie.

    «Questo ritrarsi o quest’abbandono della forma cor­porea (quale fin qui è stato descritto) è d’altronde co­mune al popolo ignorante (avidwan) ed al Saggio con­templativo (vidwan), fin dove cominciano, per l’uno e per l’altro, le loro vie rispettive (e d’ora innanzi diffe­renti); l’immortalità (amrita, senza tuttavia che l’Unio­ne immediata col Supremo Brahma sia subito ottenuta) è il risultato della semplice meditazione (upasana, com­piuta durante la vita, senza però essere stata accompa­gnata da una realizzazione effettiva degli stati superiori dell’essere), quando i vincoli individuali, che risultano dall’ignoranza (avidya), non possono ancora essere com­pletamente distrutti» [Brahma-sutra, 4° Adhyaya, 2° Pada, sutra 1 a 7].

    Qui torna a proposito fare un’importante nota sul senso nel quale deve intendersi l’«immortalità» di cui è questione: infatti, abbiamo detto altrove che la pa­rola sanscrita amrita si riferisce esclusivamente ad uno stato che è superiore ad ogni cambiamento, mentre, con una corrispondente parola, gli Occidentali intendono semplicemente un’estensione delle possibilità dell’ordi­ne umano, che consiste in un prolungamento indefinito della vita (ciò che la tradizione estremo orientale chia­ma «longevità»), in condizioni che sono in un certo qual modo trasposte, ma che sempre restano più o me­no paragonabili a quelle dell’esistenza terrestre, poiché concernono ugualmente l’individualità umana. Ora, nel caso presente, si tratta d’uno stato che è ancora individuale, e tuttavia si sostiene che l’immortalità può essere ottenuta appunto in questo stato; ciò può sembrare contraddittorio con quanto abbiamo ricordato, poiché si potrebbe credere che si tratti dell’immortalità relativa, intesa nel senso degli Occidentali; ma, in realtà, è tut­t’altra cosa. È ben vero, infatti, che l’immortalità, in senso metafisico ed orientale, perché sia pienamente ef­fettiva, non può essere raggiunta che oltrepassando tutti gli stati condizionati, individuali o non, perciò s’identi­fica all’Eternità stessa, essendo assolutamente indipen­dente da ogni modo possibile di successione; sarebbe dunque del tutto abusivo attribuire lo stesso nome alla «perpetuità» temporale o all’indefinità d’una qualsiasi durata; ma non è in tal senso che bisogna considerare l’immortalità di cui si tratta. È necessario ritenere che l’idea di «morte» è essenzialmente sinonimo di cam­biamento di stato, che, come già l’abbiamo spiegato, è la sua accezione più vasta; quando si dice che l’essere ha virtualmente raggiunto l’immortalità, bisogna inten­dere che esso non dovrà più passare per altri stati con­dizionati, differenti da quello umano, o percorrere altri cicli di manifestazione. Non è dunque ancora la «Libe­razione» attualmente realizzata, per la quale l’immortalità sarebbe resa effettiva, poiché i «vincoli indivi­duali», vale a dire le condizioni limitative alle quali l’essere è sottomesso, non sono interamente distrutti; ma è la possibilità d’ottenere questa «Liberazione» prendendo come punto di partenza lo stato umano, nel cui prolungamento l’essere si trova mantenuto per tutta la durata dei ciclo al quale questo stato appartiene (ciò che costituisce propriamente la «perpetuità») [La parola greca  significa realmente «perpetuo», non «eterno», poiché deriva da (identico al latino aevum), che desi­gna un ciclo indefinito, ciò che, del resto, era anche il significato pri­mitivo del latino saeculum, «secolo», col quale lo si traduce talvolta], affinché esso possa essere compreso nella «trasformazione» finale che si compirà quando questo ciclo sarà compiuto, riconducendo quello che allora vi sarà contenuto allo stato principiale di non manifestazione [Vi sarebbero da fare delle considerazioni sulla traduzione di questa «trasformazione» finale in linguaggio teologico nelle religioni occidentali, e particolarmente sulla concezione dell’«Ultimo Giudi­zio» che vi è strettamente legata; ma sarebbero necessarie spiega­zioni tanto circostanziate ed una messa a punto tanto complessa, per cui non è affatto possibile soffermarci sulla questione, tanto più che, infatti, il punto di vista propriamente religioso si limita alla consi­derazione della fine d’un ciclo secondario, di là dal quale può esservi ancora una continuazione dell’esistenza nello stato individuale uma­no, ciò che sarebbe impossibile se si trattasse dell’integralità del ciclo al quale appartiene questo stato. Ciò non significa, però, che la tra­sposizione non possa farsi prendendo come punto di partenza il punto di vista religioso, come l’abbiamo più sopra indicato in merito alla «resurrezione dei morti» ed al «corpo di gloria»; ma, praticamente, questa trasposizione non è fatta da quelli che si attengono alle con­cezioni ordinarie ed «esteriori», per i quali nulla vi è di là dall’in­dividualità umana; ritorneremo su queste considerazioni a proposito della differenza essenziale che esiste fra la nozione religiosa della «salvezza» e quella metafisica della «Liberazione»]. Perciò si attri­buisce a questa possibilità il nome di «Liberazione dif­ferita» o di «Liberazione per gradi» (krama mukti), perché essa non sarà ottenuta che dopo tappe interme­die (stati postumi condizionati), e non direttamente ed immediatamente come negli altri casi di cui sarà fatto parola più innanzi [S’intende che la «Liberazione differita» è la sola che possa es­sere considerata per l’immensa maggioranza degli esseri, ciò che, d’altronde, non significa che tutti, indistintamente, vi perverranno, poiché bisogna ancora ammettere il caso per cui l’essere, non avendo ottenuto nemmeno l’immortalità virtuale, deve passare ad un altro stato individuale, nel quale avrà naturalmente la stessa possibilità di raggiungere la «Liberazione» come nello stato umano, ma anche, se così si può dire, la stessa possibilità di non pervenirvi].

     

    XIX. DIFFERENZA DELLE CONDIZIONI POSTUME SECONDO I GRADI DELLA CONOSCENZA

     

    «Finché in questa condizione (ancora individuale), lo spirito (che, per conseguenza, è ancora jivatma) di colui che ha praticato la meditazione (durante la sua vita, senza raggiungere il possesso effettivo degli stati superiori del suo essere) resta unito alla forma sottile (che può considerarsi anche il prototipo formale dell’in­dividualità, poiché la manifestazione sottile rappresenta uno stadio intermediario fra il non manifestato e la ma­nifestazione grossolana, e rappresenta anche il principio immediato in rapporto a quest’ultima); in questa forma sottile, esso è associato alle facoltà vitali (allo stato di riassorbimento o di contrazione principiale di cui, pre­sentemente, è stato fatto parola)». È, infatti, necessario che vi sia ancora una forma di cui l’essere si rivesta, ap­punto perché la sua condizione sempre rileva dall’ordine individuale; questa forma non può essere che quella sottile, poiché esso è uscito da quella corporea, ed an­che perché, d’altronde, la forma sottile deve sussistere all’altra, avendola preceduta nell’ordine dello sviluppo in modo manifestato, che trovasi riprodotto in senso in­verso nel ritorno al non manifestato; ma ciò non signi­fica che questa forma sottile debba conservarsi allora esattamente quale era durante la vita corporea, come veicolo dell’essere umano nello stato di sogno [Vi è una certa continuità fra i differenti stati dell’essere, ed a più forte ragione fra le diverse modalità che fanno parte di uno stesso stato di manifestazione; l’individualità umana, anche nelle sue mo­dalità extra corporee, deve necessariamente essere pregiudicata dalla scomparsa della sua modalità corporea; d’altronde, vi sono elementi psichici, mentali ed altri, la cui unica ragione d’essere è nel rapporto che hanno con l’esistenza corporea, perciò la disintegrazione del corpo deve condurre alla disintegrazione di questi elementi, che vi stanno legati e che, per conseguenza, sono anche abbandonati dall’essere al momento della morte intesa nel senso ordinario della parola]. Abbia­mo già asserito che la condizione individuale stessa, in modo del tutto generale e non soltanto per quel che concerne lo stato umano, può definirsi lo stato dell’es­sere che è limitato da una forma; ma è bene intendere che questa forma non è necessariamente determinata in modo spaziale e temporale, come nel caso particolare dello stato corporeo; essa non può affatto esserlo negli stati non umani, non sottomessi allo spazio ed al tem­po, ma a tutt’altre condizioni. Quanto alla forma sot­tile, se non sfugge interamente al tempo (quantunque questo non sia più quello nel quale si svolge l’esistenza corporea), essa sfugge per lo meno allo spazio, e perciò non bisogna affatto rappresentarsela come una specie di «doppio» del corpo [Gli stessi psicologi riconoscono che il «mentale» o il pensiero individuale, l’unica cosa a loro accessibile, è al di fuori della condi­zione spaziale; è necessaria tutta l’ignoranza dei «neo spiritualisti» per voler «localizzare» le modalità extra-corporee dell’individuo e pensare che gli stati postumi possano situarsi in qualche parte dello spazio], e nemmeno la si deve conside­rare come il suo «modello» quando asseriamo che è il prototipo formale dell’individualità all’origine della sua manifestazione [Come precedentemente l’abbiamo spiegato, la parola pinda, in sanscrito, designa propriamente questo prototipo sottile, non l’em­brione corporeo; questo prototipo preesiste, d’altronde, alla nascita dell’individuo, poiché è contenuto in Hiranyagarbha fin dall’origine della manifestazione ciclica, come una delle possibilità che dovranno svilupparsi durante questa manifestazione; ma la sua preesistenza non è allora che virtuale, nel senso che non è punto ancora uno stato dell’essere di cui è destinato a diventare la forma sottile, poiché que­st’essere non è attualmente nello stato corrispondente, dunque non esiste come individuo umano; la stessa considerazione può analogi­camente applicarsi al germe corporeo, se è parimenti considerato come preesistente in un certo modo negli avi dell’individuo di cui si tratta, e ciò fin dall’origine dell’umanità terrestre]; siamo troppo bene edotti delle più grossolane rappresentazioni a cui facilmente giungono gli Occidentali, e quali gravi errori ne possono risultare, per non prendere a questo riguardo tutte le precauzioni necessarie.

    «L’essere può restare così (in questa stessa condi­zione individuale, nella quale è unito alla forma sottile) fino alla dissoluzione esteriore (pralaya, che significa il rientrare nello stato indifferenziato) dei mondi manife­stati (del ciclo attuale, che contemporaneamente impli­ca lo stato grossolano e quello sottile, vale a dire l’in­tero dominio dell’individualità umana considerata nella sua integralità) [L’insieme della manifestazione universale è spesso designato in sanscrito con la parola samsara; come già l’abbiamo indicato, que­st'insieme comporta una indefinità di cicli, vale a dire di stati o di gradi d’esistenza, talché ognuno di questi cicli, avendo fine nel pra­laya, come quello qui più particolarmente considerato, non costitui­sce propriamente che un momento del samsara. D’altronde, ricorde­remo una volta ancora, per evitare ogni equivoco, che il concatena­mento di questi cicli è, in realtà, di ordine causale e non successivo; le espressioni usate a questo riguardo analogicamente all’ordine tem­porale debbono dunque essere considerate puramente simboliche], dissoluzione per la quale esso è immerso (con l’insieme degli esseri di questi mondi) nel seno del Supremo Brahma; anche allora, tuttavia, esso può essere unito a Brahma solamente nel modo stesso come durante il sonno profondo (vale a dire senza la realizzazione piena ed effettiva dell’«Identità Supre­ma»). In altri termini, per usare il linguaggio di certe scuole esoteriche occidentali, l’ultimo caso qui menzio­nato corrisponde solamente ad una «reintegrazione in modo passivo», mentre la vera realizzazione metafisica è una «reintegrazione in modo attivo», la sola che im­plichi veramente il possesso per l’essere del suo stato assoluto e definitivo. Ciò è precisamente indicato dal paragone col sonno profondo, quale si verifica durante la vita dell’uomo ordinario: come vi è un ritorno da questo stato alla condizione individuale, vi può anche essere, per colui che e unito a Brahma solamente «in modo passivo», un ritorno ad un altro ciclo di manife­stazione, perciò il risultato da lui ottenuto, prendendo come punto di partenza lo stato umano, non è ancora la «Liberazione» o la vera immortalità; il suo caso può paragonarsi infine (quantunque con una differenza note­vole quanto alle condizioni del suo nuovo ciclo) a quel­lo dell’essere che, invece di restare fino al pralaya nei prolungamenti dello stato umano, è passato, dopo la morte corporea, ad un altro stato individuale. Affianca­to al caso citato, dobbiamo considerarne un altro per cui la realizzazione degli stati superiori e quella stessa dell’«Identità Suprema», non compiute durante la vita corporea, sono effettuate nei prolungamenti postumi dell’individualità: l’immortalità, da virtuale, diviene allora effettiva, e ciò può, d’altra parte, aver luogo proprio alla fine stessa del ciclo: si tratta dunque della «Liberazione differita», di cui abbiamo parlato preceden­temente. Sia nell’uno che nell’altro caso, l’essere, che deve considerarsi come jivatma congiunto alla forma sottile, si trova, per tutta la durata del ciclo, «incorpo­rato» in qualche modo [Questa parola, che qui usiamo per rendere più chiaramente le idee da noi esposte con l’ausilio dell’immagine che evoca, non deve intendersi letteralmente, poiché non si tratta affatto d’uno stato cor­poreo] a Hiranyagarbha, che è consi­derato come jiva ghana, secondo quanto già dicemmo; esso resta dunque sottomesso a questa condizione spe­ciale d’esistenza che è la vita (jiva), dalla quale è defi­nito il dominio proprio di Hiranyagarbha nell’ordine gerarchico dell’Esistenza universale.

    «Questa forma sottile (in cui, dopo la morte, risie­de l’essere che resta così nello stato individuale umano) è (se paragonata con la forma corporea o grossolana) impercettibile ai sensi per le sue dimensioni (vale a dire perché essa è fuori della condizione spaziale) ed anche per la sua consistenza (o per la sua propria sostanza, che non è costituita da una combinazione degli elementi corporei); per conseguenza, essa non colpisce la perce­zione (o le facoltà esterne) di coloro che sono presenti quando si separa dal corpo (dopo che l’«anima viven­te» vi si è ritirata). Questa forma sottile non può nem­meno essere pregiudicata dalla combustione o dagli al­tri processi che il corpo subisce dopo la morte (che è il risultato di questa separazione, in conseguenza della quale nessun’azione di ordine sensibile può più riper­cuotersi sulla forma sottile, né sulla coscienza indivi­duale che, essendovi legata, non ha più ormai relazione col corpo). Essa è soltanto sensibile per il suo calore animatore (la sua qualità propria in quanto è assimilata al principio igneo) [Come più sopra l’abbiamo indicato, questo calore animatore, rappresentato come fuoco interno, è spesso identificato a Vaishwanara, considerato, in questo caso, non più come la prima condizione d’Atma, di cui abbiamo parlato, ma come il «Reggitore del Fuoco», di cui parleremo più avanti; Vaishwanara è allora uno dei nomi d’Agni, di cui specifica una funzione ed un aspetto particolare], per tutto il tempo durante il quale è unita con la forma grossolana, che, quando poi, nella morte, è da essa abbandonata (mentre le altre qualità sensibili della forma corporea sussistono ancora senza apparente cambiamento), diviene fredda (e quindi iner­te, in quanto insieme organico), poiché la forma sottile non più la riscalda (né la vivifica) come quando vi risie­deva (il principio della vita individuale sta infatti pro­priamente nella forma sottile, ed è soltanto perché co­munica le sue proprietà che anche il corpo può esser detto vivente, in ragione del legame che esiste fra le due forme, finché sono l’espressione di stati dello stesso essere, e precisamente fino al momento stesso della morte).

    «Ma colui che ha ottenuto (prima della morte, sem­pre intesa come la separazione dal corpo) la vera Cono­scenza di Brahma (che implica il possesso effettivo di tutti gli stati del suo essere, in virtù della realizzazione metafisica, senza la quale non vi sarebbe che una cono­scenza imperfetta e del tutto simbolica) non si ritrae (in modo successivo) per tutti gli stessi gradi di ritorno (o di riassorbimento della sua individualità, dallo stato di manifestazione grossolana a quello della manifestazione sottile, con le diverse modalità che comporta, e poi allo stato non manifestato, nel quale le condizioni individuali sono infine interamente soppresse). Egli procede direttamente (in quest’ultimo stato, ed anche oltre se lo si considera soltanto come principio della Manifesta­zione) all’Unione (già realizzata per lo meno virtualmente durante la sua vita corporea) [Se l’«Unione» o l’«Identità Suprema» non è stata realizzata che virtualmente, la «Liberazione» ha luogo immediatamente al mo­mento stesso della morte; ma questa «Liberazione» può anche essere realizzata durante la vita stessa, se l’«Unione» è fin d’allora attuata pienamente ed effettivamente; la distinzione di questi due casi sarà esposta più completamente in seguito] col Supremo Brahma, al quale è identificato (in modo immediato), come un fiume (che qui rappresenta la corrente dell’esi­stenza attraverso tutti gli stati e tutte le manifestazioni), alla sua foce (che e lo scopo ultimo od il termine finale di questa corrente), s’identifica (per intima penetrazio­ne) con le onde del mare (samudra o il riunirsi delle ac­que, che simbolizza la totalizzazione delle possibilità nel Principio Supremo). Le sue facoltà vitali e gli elementi da cui era costituito il suo corpo (tutti considerati in principio e nella loro essenza soprasensibile) [In certi casi eccezionali, la trasposizione di questi elementi s’ef­fettua in modo tale che la forma corporea stessa svanisce, senza lasciar tracce sensibili, ed invece d’essere abbandonata dall’essere, come d’or­dinario, essa si traspone così interamente sia nello stato sottile che in quello non manifestato. Perciò non può trattarsi della morte nel senso ordinario della parola; abbiamo altrove ricordato, a questo pro­posito, gli esempi biblici di Enoch, di Mosè e di Elia], ed altresì le sedici parti (shodasha kalah) che compongono la for­ma umana (vale a dire i cinque tanmatra, il manas e le dieci facoltà di sensazione e d’azione), passano comple­tamente allo stato non manifestato (avyakta, dove, per trasposizione, si ritrovano tutti in modo permanente in quanto possibilità immutabili); un tale passaggio non implica, d’altronde, per l’essere stesso, un qualunque cambiamento (come ne implicano gli stadi intermediari, che, appartenendo ancora al «divenire», comportano necessariamente una molteplicità di modificazioni). Il nome e la forma (namarupa, vale a dire la determina­zione della manifestazione individuale quanto alla sua essenza ed alla sua sostanza, come precedentemente l’ab­biamo spiegato) cessano ugualmente (in quanto condi­zioni limitative dell’essere); e, essendo «non diviso», dunque senza le parti o membra che componevano la sua forma terrestre (allo stato manifestato, ed in quanto questa era sottomessa alla quantità dei suoi diversi mo­di) [I modi principali della quantità sono espressamente designati da questa formula biblica: «Tu hai disposto tutte le cose in peso, numero e misura» (Saggezza, XI, 21), alla quale corrisponde parola per parola (salvo l’inversione dei due primi) il Mane, Thekel, Phares (contato, pesto, diviso) della divisione di Baldassaarre (Daniele, V, 25 a 28)], esso è liberato dalle condizioni dell’esistenza indi­viduale (come da tutte le altre condizioni attinenti ad un qualunque stato speciale e determinato d’esistenza, anche se sopra individuale, poiché l’essere è ormai nello stato principiale, assolutamente incondizionato)» [Prashna Upanishad, 6° Prashna, shruti 5; Mundaka Upanishad, 3° Mundaka, 2° Khanda, shruti 8. – Brahma-Sutra, 4° Adhyaya, 2° Pada, sutra 8 a 16].

    Parecchi commentatori dei Brahma Sutra, per rile­vare ancora più nettamente il carattere di questa «tra­sformazione» (consideriamo questa parola nel suo sen­so rigorosamente etimologico, quello di «passaggio al di fuori della forma»), la paragonano all’evaporazione dell’acqua di cui si è innaffiato una pietra infocata. Infatti, quest’acqua è «trasformata» al contatto della pie­tra, per lo meno nel senso relativo che ha perduto la sua forma visibile (e non ogni sua forma, poiché essa continua evidentemente ad appartenere all’ordine corporeo), senza che però si possa asserire che sia stata as­sorbita dalla pietra, perché, in realtà, è solo evaporata nell’atmosfera, dove resta in uno stato impercettibile alla vista [Commento di Ranganatha sui Brahma Sutra]. Parimenti, l’essere non è affatto «assorbi­to» quando ottiene la «Liberazione», anche se possa sembrarlo dal punto di vista della manifestazione, per la quale la «trasformazione» appare come una «distru­zione» [Perciò Shiva, secondo l’interpretazione più ordinaria, è conside­rato «distruttore», mentre è realmente «trasformatore»]; ma, se lo consideriamo nella realtà assoluta, la sola che per esso sussiste, ci apparirà invece dilatato oltre ogni limite, se possiamo usare un tal modo d’espri­merci (che d’altronde traduce esattamente il simbolismo del vapore dell’acqua che si diffonde indefinitamente nell’atmosfera), poiché esso ha effettivamente realizzato la pienezza delle sue possibilità.

     

    XX. L’ARTERIA CORONALE E IL «RAGGIO SOLARE»

     

    Dobbiamo ormai riprendere lo studio di ciò che si produce per l’essere che, non ancora «liberato» al mo­mento stesso della morte, deve percorrere una serie di gradi, rappresentati simbolicamente come le tappe d’un viaggio, e che sono altrettanti stati intermedi, non de­finitivi, da attraversare prima di giungere al termine finale. È importante notare che, d’altronde, tutti questi stati, essendo ancora relativi e condizionati, non hanno alcuna misura comune con quello che è il solo stato as­soluto ed incondizionato; per quanto elevati siano cer­tuni di essi quando sono paragonati allo stato corporeo, sembra dunque che il loro possesso non avvicini affatto l’essere al suo scopo ultimo, che è la «Liberazione»; e, poiché, in rapporto all’Infinito, l’intera manifestazione è rigorosamente nulla, le differenze fra gli stati che la costituiscono devono evidentemente anche esserlo, per quanto considerevoli esse siano in se stesse, e finché ci limitiamo a rilevare soltanto i diversi stati condizionati che esse separano gli uni dagli altri. Tuttavia, non è men vero che il passaggio a certi stati superiori costi­tuisce una specie di avviamento verso la «Liberazio­ne», che allora è «graduale» (krama mukti), come pure l’uso di certi metodi appropriati, per esempio quelli dello Hatha Yoga, è una preparazione efficace; quantun­que non sia possibile alcun paragone fra questi metodi contingenti e l’«Unione» che si deve realizzare usan­doli come «appoggi» [Si potrà notare un’analogia fra quello che qui diciamo e quello che, dal punto di vista della teologia cattolica, potrebbe riferirsi ai sa­cramenti: anche in questi, infatti, le forme esteriori sono propria­mente degli «appoggi», eminentemente contingenti, ma che hanno un risultato d’un ordine completamente differente dagli stessi mezzi usati per realizzarlo. L’individuo umano, appunto per la sua stessa costituzione e per le sue proprie condizioni, ha bisogno di questi «appoggi» come punto di partenza per una realizzazione che le su­peri; la sproporzione fra i mezzi ed il fine corrisponde a quella che esiste fra lo stato individuale, base di questa realizzazione, e lo stato incondizionato che ne è il fine. Non possiamo presentemente svilup­pare una teoria generale sull’efficacia dei riti; per farne capire il principio essenziale, ci limiteremo a dire che tutte le cose che sono con­tingenti in quanto manifestazione (purché non si tratti di determinazioni puramente negative) non lo sono più se considerate come possibilità permanenti ed immutabili, e che tutto ciò che ha qualche esistenza positiva deve così ritrovarsi nel non manifestato, ed è ap­punto questa la ragione che permette una trasposizione dell’indivi­duale nell’Universale, col sopprimere le condizioni limitative (dunque negative) inerenti ad ogni manifestazione]. Ma deve bene essere inteso che la «Liberazione», allorché sarà realizzata, implicherà sempre una discontinuità in rapporto allo stato in cui si troverà l’essere che l’otterrà; qual che sia questo stato, la discontinuità non sarà perciò più o meno profonda, poiché, in tutti i casi, non v’è affatto rapporto, come fra differenti stati condizionati, fra lo stato dell’essere «non liberato» e quello dell’essere «liberato». Ciò è anche vero per quegli stati tanto al di sopra dello stato umano che, se considerati da questo, potrebbero appa­rire come il termine a cui l’essere deve tendere finalmente; questa illusione è anche possibile per stati che in realtà sono semplici modalità dello stato umano, ma lontanissime, sotto ogni rapporto, dalla modalità corpo­rea; abbiamo pensato che era necessario attirare l’atten­zione su questo punto, alfine di prevenire qualunque equivoco e qualunque errore d’interpretazione, prima di riprendere la nostra esposizione delle modificazioni postume dell’essere umano.

    «L’anima vivente» (jivatma), con le facoltà vitali che in essa sono riassorbite (e che vi restano in quanto possibilità, come l’abbiamo spiegato precedentemente), essendosi ritratta nel suo proprio soggiorno (il centro dell’individualità, simbolizzato dal cuore, come fin dal principio l’abbiamo spiegato, e dove essa risiede infatti in quanto, nella sua essenza ed indipendentemente dalle sue condizioni di manifestazione, è realmente identica a Purusha, da cui si può distinguere solo in modo illu­sorio), il vertice (vale a dire la parte più sublimata) di quest’organo sottile (figurato da un loto ad otto petali) scintilla [È evidente che questa parola è ancora di quelle che debbono essere intese simbolicamente, poiché non si tratta qui del fuoco sensibile, ma invece di una modificazione della Luce intelligibile] ed illumina il passaggio dal quale l’anima deve uscire (per raggiungere i diversi stati di cui in seguito si parlerà), passaggio che è rappresentato dalla corona della testa, se l’individuo è un Saggio (vidwan), e da un’altra parte dell’organismo (che corrisponde fisiologi­camente al plesso solare) [I plessi nervosi, o più esattamente i loro corrispondenti nella forma sottile (finché questa è legata alla forma corporea) sono chiamati simbolicamente «ruote» (chakra) o anche «loti» (padma o kamala). – La corona della testa rappresenta ugualmente una parte importante nelle tradizioni islamiche concernenti le condizioni po­stume dell’essere umano; potremo rilevare ancora altrove molti usi che si riferiscono a considerazioni dello stesso ordine (la chierica dei preti cattolici, per esempio), quantunque la ragione profonda abbia potuto spesso essere dimenticata], se è un ignorante (avidwan) [Brihad Aranyaka Upanishad, 4° Adhyaya, 4° Brahmana, shruti 1 e 2]. Cento ed una arteria (nadi, egualmente sottili e luminose) [Ricorderemo che non si tratta delle arterie corporee della cir­colazione sanguigna, e nemmeno di canali che contengono l’aria re­spirata; è evidentissimo, del resto, che nell’ordine corporeo nessun canale passa per la corona della testa, poiché non vi sono aperture in questa parte dell’organismo. D’altronde, bisogna notare che, quan­tunque il precedente ritrarsi di jivatma già implichi l’abbandono della forma corporea, non è ancora cessata ogni relazione fra queste e la forma sottile nella fase di cui ora si tratta, poiché è sempre possi­bile, descrivendola, continuare a parlare dei diversi organi sottili se­condo la corrispondenza che esisteva nella vita fisiologica] escono dal centro vitale (come i raggi d’una ruota escono dal mozzo); una di queste arterie (sottili), chiamata sushumna, attraversa la corona della testa (re­gione considerata corrispondente agli stati superiori del­l’essere, per le loro possibilità di comunicazione con l’individualità umana, come lo si è detto nella descri­zione delle membra di Vaishwanara)» [Katha Upanishad, 2° Adhyaya, 6° Valli, shruti 16]. Oltre questa nadi, che occupa un posto centrale, ve ne sono ancora due che rappresentano una parte particolarmente im­portante (specialmente per la corrispondenza della re­spirazione nell’ordine sottile, e, in conseguenza, per le pratiche dello Hatha Yoga): l’una, posta alla sua de­stra, è chiamata pingala; l’altra, a sinistra, e chiamata ida. Inoltre, si dice che la pingala è in relazione col Sole e l’ida con la Luna; ora, riferendoci a quanto più sopra abbiamo spiegato, il Sole e la Luna sono designati come i due occhi di Vaishwanara, che sono dunque rispettiva­mente in relazione con le due nadi di cui si tratta; la sushumna, essendo nel mezzo, è invece in rapporto col «terzo occhio», vale a dire con l’occhio frontale di Shi­va [Nell’aspetto di questo simbolismo che si riferisce alla condizio­ne temporale, il Sole e l’occhio destro corrispondono al futuro, la Lu­na e l’occhio sinistro al passato; l’occhio frontale corrisponde al pre­sente, che, dal punto di vista del manifestato, è appena un istante inafferrabile, paragonabile, nell’ordine spaziale, al punto geometrico senza dimensioni: perciò uno sguardo di questo terz’occhio è capace di distruggere l’intera manifestazione (ciò è simbolicamente espresso dicendo che riduce tutto in cenere); ciò è anche la ragione per cui que­st’occhio non è rappresentato da alcun organo corporeo; ma, allorché ci eleviamo al di sopra di questo punto di vista contingente, il pre­sente contiene ogni realtà (come il punto racchiude in se stesso tutte le possibilità spaziali), e, quando la successione è trasmutata in si­multaneità, tutte le cose restano nell’«eterno presente», perciò la distruzione apparente è veramente la «trasformazione». Questo simbolismo è identico a quello del Janus Bifrons dei Latini, a due facce, l’una rivolta al Passato, l’altra all’avvenire, ma il cui vero volto, quel­lo che guarda il presente, non è né l’uno né l’altro di quelli visibili. – Segnaliamo ancora che le nadi principali, in virtù della stessa corrispondenza che abbiamo indicato, hanno un particolare rapporto con ciò che nel linguaggio occidentale si può chiamare l’«alchimia umana», per cui l’organismo è rappresentato come l’athanor ermetico, e che, astrazion fatta dalla differente terminologia, è molto paragonabile allo Hatha-yoga]; ma non possiamo che indicare di passaggio queste corrispondenze, non inerenti al soggetto che presente­mente dobbiamo esporre.

    «Da questo passaggio (la sushumna e la corona della testa a cui mette capo), in virtù della Conoscenza acqui­sita e della coscienza della Via meditata (coscienza che è essenzialmente d’ordine extra temporale, poiché, anche se la si considera nello stato umano, è sempre un riflesso degli stati superiori) [È dunque un errore grave parlare qui di «ricordo», come l’ha fatto il Colebrooke nell’esposizione già menzionata; la memoria, con­dizionata dal tempo nel senso rigoroso della parola, è una facoltà relativa alla sola esistenza corporea, e non può oltrepassare i limiti di questa modalità speciale e ristretta dell’individualità umana; essa fa dunque parte di quegli elementi psichici ai quali alludevamo e la cui dissociazione è una conseguenza diretta della morte corporea], l’anima del Saggio, dotata (in virtù della rigenerazione psichica che ha fatto di lui un uomo «due volte nato», dwija) [La concezione della «seconda nascita», come altrove l’abbia­mo già fatto notare, è una di quelle che sono comuni a tutte le dot­trine tradizionali; nel Cristianesimo, in particolare, la rigenerazione psichica è rappresentata molto nettamente dal battesimo.   Cfr. que­sto passo del Vangelo: «Se un uomo non nasce di nuovo, non può vedere il Regno di Dio... In verità, io vi dico che se un uomo non rinasce dall’acqua e dallo spirito, non può entrare nel Regno di Dio... Non vi meravigliate se vi ho detto: Bisogna che nasciate di nuovo» (San Giovanni, III, 3 a 7). L’acqua è considerata da molte tradizioni come l’ambiente originale degli esseri, e se ne trova la ragione nel suo simbolismo, nel senso che più sopra abbiamo spiegato, per cui rappresenta Mula Prakriti; in un senso superiore, e per trasposizione, essa rappresenta la Possibilità Universale stessa; colui che «nasce dal­l’acqua» diviene «figlio della Vergine», dunque fratello adottivo del Cristo e coerede del «Regno di Dio». D’altra parte, se si nota che lo «spirito», nel testo citato, è il Ruach ebraico (qui associato all’ac­qua come principio complementare, secondo l’esordio della Genesi), e che questo designa nello stesso tempo l’aria, si rileverà l’idea della purificazione per mezzo degli elementi, quale si riscontra tanto nei riti iniziatici quanto in quelli religiosi; d’altronde, l’iniziazione stessa è considerata sempre come una «seconda nascita», simbolicamente quando questa iniziazione si riduce ad un formalismo più o meno esteriore, ma effettivamente quand’è conferita in modo reale a chi è debitamente qualificato a riceverla] della Grazia spiri­tuale (Prasada) di Brahma, che risiede in questo centro vitale (in rapporto all’individuo umano considerato), quest’anima sfugge (si libera da tutti i legami che pos­sono ancora sussistere con la condizione corporea) ed incontra un raggio solare (vale a dire, simbolicamente, una emanazione del Sole spirituale, che è Brahma stes­so, considerato però questa volta nell’Universale: que­sto raggio solare è una particolarizzazione, in rapporto all’essere di cui si tratta, o, se si preferisce, una «pola­rizzazione» del principio sopra individuale Buddhi o Mahat, per cui i multipli stati manifestati dell’essere sono ricollegati fra loro e messi in comunicazione con la personalità trascendente, Atma, identica al Sole spi­rituale stesso); è per questa via (indicata come il per­corso del «raggio solare») che essa si dirige, sia di not­te o di giorno, d’inverno o d’estate [Chhandogya Upanishad, 8° Prapathaka, 6° Khanda, shruti 5]. Il contatto d’un raggio del Sole (spirituale) con la sushumna è costante, per tutto il tempo che il corpo sussiste (in quanto orga­nismo vivente e veicolo dell’essere manifestato) [Basterebbe ciò per dimostrare chiaramente, in mancanza di tutt’altra considerazione, che non può trattarsi d’un raggio solare nel senso fisico della parola (poiché il contatto non sarebbe allora costantemente possibile), e perciò tale designazione è puramente simbolica. – Il raggio in relazione con l’arteria coronale è anche chiamato sushumna]: i rag­gi della Luce (intelligibile), emanati da questo Sole, pervengono a quest’arteria (sottile), e, reciprocamente (in modo riflesso), si estendono dall’arteria al Sole (come un prolungamento indefinito per il quale si stabilisce la comunicazione, sia virtuale, sia effettiva, dell’individualità con l’Universale)» [Chhandogya Upanishad, 8° Prapathaka, 6° Khanda, shruti 2].

    Ciò che abbiamo detto è completamente indipenden­te dalle circostanze temporali e da ogni altra contingenza simile che accompagnano la morte; tali circostanze tuttavia non sono sempre senza influenza sulla condizione postuma dell’essere, ma debbono essere considerate soltanto in alcuni casi particolari, che possiamo, d’altron­de, qui solo accennare, senza soffermarci sugli altri loro sviluppi. «La preferenza dell’estate, di cui si narra l’esempio di Bhishma, che attese per morire il ritorno di questa stagione favorevole, non concerne il Saggio che, nella contemplazione di Brahma, ha compiuto i riti (relativi all’«incantesimo») [Con la parola «incantesimo», nel senso da noi qui usato, si deve intendere essenzialmente un’aspirazione dell’essere verso l’Uni­versale, il cui scopo è quello di ottenere un’illuminazione interiore, quali che siano, d’altronde, i mezzi esteriori, gesti (mudra), parole o suoni musicali (mantra), figure simboliche (yantra), ed altri metodi che possono essere usati accessoriamente come «appoggi» dell’atto interiore, ed il cui effetto è quello di determinare vibrazioni ritmiche che si ripercuotono nella serie indefinita degli stati dell’essere. Un tale «incantesimo» non è dunque assolutamente affine alle pratiche magiche a cui spesso gli Occidentali attribuiscono lo stesso nome, né ad un atto religioso quale la preghiera; ciò di cui si tratta si riferisce invece esclusivamente alla realizzazione metafisica] quali sono prescritti nel Veda, e che, per conseguenza, ha acquistato (per lo me­no virtualmente) la perfezione della Conoscenza Divi­na [Diciamo virtualmente, perché, se questa perfezione fosse effet­tiva, la «Liberazione» sarebbe stata già ottenuta; la Conoscenza può essere teoricamente perfetta, quantunque la realizzazione corrispon­dente non sia stata ancora compiuta che parzialmente]; essa concerne invece quelli che hanno seguito le osservanze del Sankhya o dello Yoga Shastra, secondo il quale il tempo del giorno e della stagione dell’anno non sono indifferenti, ma hanno (per la liberazione del­l’essere che esce dallo stato corporeo dopo una prepa­razione compiuta conformemente ai metodi di cui si tratta) un’azione effettiva, in quanto elementi inerenti al rito (nel quale essi intervengono come condizioni da cui dipendono gli effetti che possono esserne ottenu­ti)» [Brahma Sutra, 4° Adhyaya, 2° Pada, sutra 17 a 21]. Si capisce naturalmente che, in quest’ultimo caso, la restrizione considerata s’applica soltanto a quegli es­seri che hanno raggiunto dei gradi di realizzazione cor­rispondenti a semplici estensioni dell’individualità uma­na; per colui che ha effettivamente oltrepassato i limiti dell’individualità, la natura dei mezzi usati, iniziando la realizzazione, non può affatto influire sulla sua con­dizione ulteriore.

     

    XXI. IL «VIAGGIO DIVINO» DELL’ESSERE VERSO LA LIBERAZIONE

     

    Il seguito del viaggio simbolico compiuto dall’essere nel suo processo di liberazione graduale, dal termine dell’arteria coronale (sushumna), che comunica costan­temente con un raggio del Sole spirituale, fino alla sua ultima destinazione, si effettua seguendo la Via trac­ciata dal percorso di questo raggio, compiuto in senso inverso (secondo la sua direzione riflessa) fino, alla sua sorgente, che è appunto questa destinazione stessa. Tut­tavia, se una descrizione del genere può riferirsi agli stati postumi successivamente percorsi, da una parte, dagli esseri che otterranno la «Liberazione», prenden­do come punto di partenza lo stato umano, e, dall’altra parte, da coloro che, dopo il riassorbimento dell’indivi­dualità umana, dovranno al contrario passare in altri stati di manifestazione individuale, bisognerà distingue­re due itinerari differenti corrispondenti a questi due casi: è infatti asserito che i primi seguono la «Via degli Dei» (deva yana), mentre i secondi seguono la «Via degli Avi» (pitri yana). Questi due itinerari simbo­lici sono riassunti nel seguente passo della Bhagavad­-Gita: «O Bharata, io ti spiegherò in quali momenti co­loro che tendono all’Unione (senza averla effettivamente realizzata) lasciano l’esistenza manifestata, sia per non più ritornarvi, sia per ritornarvi. Gli uomini che cono­scono Brahma vanno a Brahma sotto i segni luminosi del fuoco, della luce, del giorno, della luna crescente, del semestre del sole ascendente verso il Nord. Essi van­no invece alla Sfera della Luna (letteralmente: «rag­giungono la luce lunare») per ritornare (a nuovi stati di manifestazione), se si trovano sotto i segni d’ombra del fumo, della notte, della luna decrescente, del seme­stre del sole discendente verso il Sud. Queste sono le due Vie permanenti, l’una chiara, l’altra oscura, del mondo manifestato (jagat); per l’una l’uomo va dove non vi è più ritorno (dal non manifestato al manifesta­to); per l’altra dove si ritorna indietro (nella manifesta­zione)» [Bhagavad Gita, VIII, 23 a 26].

    Lo stesso simbolismo è esposto, più precisamente, in diversi passi del Veda; innanzi tutto, faremo soltanto notare che, per il pitri yana, questa via non conduce oltre la Sfera della Luna, perciò, seguendola, l’essere non è liberato dalla forma, vale a dire dalla condizione individuale intesa nel suo senso più generale, poiché, come già l’abbiamo detto, l’individualità come tale è precisamente definita dalla forma [Sul pitri yana, cfr. Chhandogya Upanishad, 5° Prapathaka, 10° Khanda, shruti 3 a 7; Brihad Aranyaka Upanishad, 6° Adhyiya, 2° Brhmana, shruti 16]. Secondo le corri­spondenze che già abbiamo indicato, questa Sfera della Luna rappresenta la «memoria cosmica» [Appunto perciò è spesso simbolicamente detto, anche in Occidente, che in questa Sfera si ritrova ciò che è stato perduto nel mondo terrestre (cfr. Ariosto, L’Orlando Furioso]; perciò è la dimora dei Pitri, vale a dire degli esseri del ciclo ante­cedente, considerati i generatori del ciclo attuale, ap­punto per il concatenamento causale, di cui la succes­sione dei cicli non è che il simbolo; proprio da ciò deriva la denominazione di pitri yana, mentre quella di deva yana designa naturalmente la Via che conduce ver­so gli stati superiori dell’essere, dunque verso l’assimi­lazione all’essenza stessa della Luce intelligibile. Nella Sfera della Luna si dissolvono le forme che hanno com­piuto il corso completo del loro sviluppo; ed anche, pro­prio in quella Sfera, sono contenuti i germi delle forme non ancora sviluppate, poiché, per la forma, come per qualsiasi altra cosa, il punto di partenza ed il punto d’arrivo si situano necessariamente nello stesso ordine d’esistenza. Per precisare ancora meglio queste conside­razioni, bisognerebbe poter riferirsi espressamente alla teoria dei cicli; ma è sufficiente ripetere, a questo pro­posito, che, ogni ciclo essendo in realtà uno stato d’esi­stenza, la forma antica che un essere non liberato dal­l’individualità lascia e la forma nuova di cui si riveste appartengono necessariamente a due stati differenti (il passaggio dall’uno all’altro si effettua nella Sfera della Luna, dove si trova il punto comune ai due cicli); un qualsiasi essere infatti non può due volte passare per un medesimo stato, come l’abbiamo altrove spiegato nel dimostrare l’assurdità delle teorie «reincarnazioniste» inventate da certi Occidentali moderni [Ciò che è stato detto ha ancora un rapporto col simbolismo di Janus: la Sfera della Luna determina la separazione degli stati supe­riori (non individuali) e degli stati inferiori (individuali); da ciò pro­viene la duplice funzione della Luna come Janua Coeli (cfr. le lita­nie della Vergine nella liturgia cattolica) e Janua Inferni, ciò che corrisponde alla distinzione di deva yana e pitri yana.   Jana o Diana è la forma femminile di Janus; d’altra parte, yana deriva dalla radice verbale i, «andare» (latino ire), che, secondo alcuni e Cicerone spe­cialmente, sarebbe anche la radice del nome di Janus].

    Insisteremo più a lungo sul deva yana, che si riferi­sce all’identificazione effettiva del centro dell’individualità [Si capisce naturalmente che si tratta dell’individualità integrale, e non ridotta alla sola modalità corporea, che, d’altronde, non ha più esistenza per l’essere considerato, poiché sono gli stati postumi ad essere qui rilevati], dove tutte le facoltà sono state precedentemente riassorbite nell’«anima vivente» (jivatma), con il cen­tro stesso dell’essere totale, residenza dell’Universale Brahma. Il processo di cui si tratta si riferisce dunque, lo ripetiamo, al solo caso d’una identificazione non realizzata durante la vita terrestre né al momento stesso della morte; quando questa realizzazione è compiuta, d’altronde, non vi è più l’«anima vivente», distinta dal «Sé», poiché l’essere ormai è al di fuori della condi­zione individuale: una siffatta distinzione, del resto, sempre illusoria (illusione appunto inerente a questa condizione stessa), cessa per esso allorché si raggiunge la realtà assoluta; l’individualità svanisce con tutte le determinazioni limitative e contingenti, e resta la sola personalità nella pienezza dell’essere, che, in sé, contiene principialmente tutte le sue possibilità allo stato permanente e non manifestato.

    Secondo il simbolismo vedico, quale è esposto in nu­merosi testi delle Upanishad [Chhandogya Upanishad, 4° Prapathaka, 15° Khanda, shruti 5 e 6, e 5° Prapathaka, 10° Khanda, shruti 1 e 2; Kaushitaki Upanishad, 1° Adhyaya, shruti 3; Brihad-Aranyaka Upanishad, 5° Adhyaya, 10° Brahmana, shruti 1, e 6° Adhyaya, 2° Brahmana, shruti 15] l’essere che compie il deva yana, avendo lasciata la Terra (Bhu, vale a dire il mondo corporeo o la manifestazione grossolana), é dap­prima condotto alla luce (archis), da intendersi qui co­me il Regno del Fuoco (Tejas), il cui Reggitore è Agni, chiamato anche Vaishwanara in un significato speciale. È bene, d’altronde, aggiungere che, quando s’incontra nell’enumerazione di questi stadi successivi la designa­zione degli elementi, non può trattarsi che di una speci­ficazione simbolica, poiché i bhuta appartengono tutti propriamente al mondo corporeo, rappresentato intera­mente dalla Terra (che, in quanto elemento, è Prithvi); è dunque questione, in realtà, di differenti modalità dello stato sottile. Dal Regno del Fuoco, l’essere è con­dotto ai diversi domini dei reggitori (devata, «deità») o distributori del giorno, della mezza lunazione chiara (periodo crescente o prima meta del mese lunare) [Questo periodo crescente della lunazione è chiamato purva-­paksha, «prima parte», ed il periodo decrescente uttara paksha, «ul­tima parte» del mese.   Queste espressioni purva paksha e uttara-paksha hanno anche, d’altro canto, un’altra accezione del tutto diffe­rente: esse designano, nella discussione, una obbiezione e la sua confutazione], dei sei mesi d’ascensione del sole verso il Nord, e final­mente dell’anno: siffatte specificazioni debbono inten­dersi come la corrispondenza di queste divisioni del tempo (i «momenti» della Bhagavad Gita), trasposte analogicamente nei prolungamenti extra corporei dello stato umano, e non come queste divisioni stesse, che non sono letteralmente riferibili che allo stato corpo­reo [Sarebbe interessante stabilire le concordanze di questa descri­zione simbolica con quelle di altre tradizionali (cfr. specialmente il Libro dei Morti degli antichi Egiziani e la Pistis Sophia degli Gno­stici alessandrini); ma, se volessimo dilungarci in merito, saremmo portati troppo lontani dal nostro soggetto.   Nella tradizione indù, Ganesha, che rappresenta la Conoscenza, è designato contempora­neamente come il «Signore della deità»; il suo simbolismo, in rap­porto alle divisioni temporali che qui sono in causa, darebbe adito a sviluppi estremamente interessanti, ed anche ad avvicinamenti molto istruttivi con le antiche tradizioni occidentali; ma ciò, che non può essere qui trattato, sarà forse, da noi, considerato in qualche altra occasione]. Dal Regno del Fuoco, l’essere passa al Regno dell’Aria (Vayu), il cui Reggitore (designato con lo stesso nome) lo dirige dal lato della Sfera del Sole (Surya o Aditya), dal limite superiore del suo Regno, attraverso un passaggio paragonato al mozzo della ruota di un car­retto, vale a dire ad un asse fisso intorno al quale s’ef­fettua la rotazione ed il mutamento delle cose contin­genti (non bisogna dimenticare che Vayu è essenzial­mente il principio «movente»), mutamento da cui l’es­sere ormai sfuggirà [Per usare il linguaggio dei filosofi greci, si potrebbe dire anche che l’essere sta per sfuggire alla «generazione» () ed alla corruzione» (), parole che sono sinonimi di «nascita» e di «morte», se riferite a tutti gli stati di manifestazione individuale; da quello che abbiamo detto in merito alla Sfera della Luna ed al suo significato, è anche facile comprendere a che cosa alludessero gli stessi filosofi e specialmente Aristotele, quando insegnavano che il mondo sublunare solo è sottomesso alla «generazione» ed alla «corruzione»: questo mondo sublunare, infatti, rappresenta, in realtà, la «corrente delle forme» della tradizione estremo-orientale, e i Cieli, essendo gli stati informali, sono necessariamente incorruttibili, vale a dire non più soggetti a dissoluzione o a disintegrazione per l'essere che li ha raggiunti]. Esso passa inoltre nella Sfera della Luna (Chandra o Soma), dove non si sofferma come co­loro che hanno seguito il pitri yana, ma da cui s’eleva alla regione del lampo (vidyut [Questa parola vidyut deriva anche dalla radice vid, in ragione della connessione della luce e della vista; la sua forma è vicinissima a quella di vidya: il lampo illumina le tenebre, che sono il simbolo dell’ignoranza (avidya), e la conoscenza è un’«illuminazione» in­teriore] al di sopra della quale vi è il Regno dell’Acqua (Ap), il cui Reggitore è Va­runa [Facciamo notare di passaggio che questo nome è palesemente identico al greco , quantunque certi filologi abbiano voluto, non sappiamo perché, contestarne l’identità; il Cielo, chiamato , è infatti identico alle «Acque superiori» di cui parla la Genesi e che noi ritroviamo nel simbolismo indù] (come, analogicamente, il fulmine scoppia sotto le nubi gravide di pioggia). Si tratta ormai delle Acque superiori o celesti, che rappresentano l’insieme delle possibilità informali [Le Apsara sono le Ninfe celesti, che anche simbolizzano queste possibilità informali; esse corrispondono alle Hari del Paradiso isla­mico; questo Paradiso (Ridwan) è propriamente l’equivalente dello Swarga indu], in opposizione alle Acque infe­riori, che rappresentano l’insieme delle possibilità for­mali, di cui non può più trattarsi quando l’essere ha oltrepassato la Sfera della Luna, che è, come più so­pra dicemmo, l’ambiente cosmico dove s’elaborano i germi di tutta la manifestazione formale. Finalmente, il restante del viaggio si effettua attraverso la regione luminosa intermedia (Antariksha, di cui precedente­mente abbiamo parlato [Abbiamo detto che è l’ambiente in cui s’elaborano le forme, perché, nella considerazione dei «tre mondi», questa regione cor­risponde alla manifestazione sottile e si prolunga dalla Terra ai Cieli; qui, al contrario, la regione intermedia di cui si tratta è posta di là dalla Sfera della Luna, dunque nell’informale, e s’identifica allo Swarga, considerando con questa parola non i Cieli o gli stati supe­riori dell’essere nel loro insieme, ma semplicemente la loro parte meno elevata. Ancora si noterà, a questo proposito, come l’osservazione di certi rapporti gerarchici permetta l’applicazione d’uno stesso simbolismo a differenti gradi] nella descrizione delle sette membra di Vaishwanara, ma in un’applicazione piuttosto differente), il Regno d’Indra [Indra, che significa «potente», è anche chiamato il Reggitore dello Swarga, ciò che si spiega per l’identificazione indicata nella precedente nota; questo Swarga è uno stato superiore, ma non definitivo, ancora condizionato, quantunque informale], occupata dall’Etere (Akasha, lo stato primordiale d’equilibrio indifferenzia­to), fino al Centro spirituale dove risiede Prajapati, il «Signore degli esseri prodotti», che è, come già l’ab­biamo indicato, la manifestazione principiale e l’espres­sione diretta di Brahma stesso, in rapporto al ciclo to­tale od al grado d’esistenza al quale appartiene lo stato umano. È l’occasione di aggiungere che questo stato de­ve qui essere rilevato, quantunque solo in principio, come quello che l’essere ha preso come punto di par­tenza per la realizzazione metafisica, e col quale, anche se non è più sottomesso alla forma od all’individualità, conserva ancora tuttavia certi legami, finché non avrà raggiunto lo stato assolutamente incondizionato, vale a dire finché non avrà realizzata effettivamente la «Libe­razione».

    Nei diversi testi dove si parla del «viaggio divino», vi sono tuttavia delle variazioni, d’altronde di pochis­sima importanza, più apparenti che reali, variazioni che vertono specialmente sul numero e sull’ordine d’enumerazione delle tappe intermedie; ma l’esposizione che precede risulta da un paragone generale di questi te­sti, e perciò può essere considerata come l’espressione rigorosa della dottrina tradizionale su tale argomento [Per questa descrizione delle diverse fasi del deva-yana, cfr. Brahma-Sutra, 4° Adhyaya, 3° Pada, sutra 1 a 6]. Del resto, non intendiamo dilungarci sulla spiegazione più particolareggiata di questo simbolismo, che, in fine, è già per se stesso abbastanza chiaro nel suo insieme, almeno per coloro che hanno qualche familiarità con le concezioni orientali (potremmo dire con le concezioni tradizionali senza restrizione) e con i loro modi generali d’espressione; la sua interpretazione è più ancora faci­litata da tutte le considerazioni da noi già esposte, ed in cui il lettore avrà trovato molti esempi di queste tra­sposizioni analogiche, che costituiscono il fondo stesso di ogni simbolismo [Profittiamo dell’occasione per scusarci d’avere abbondato in note di proporzioni non abituali, ma l’abbiamo fatto soprattutto e precisamente per ciò che concerne interpretazioni di questo genere e per i riavvicinamenti con altre dottrine, alfine di non interrompere la nostra esposizione con digressioni troppo frequenti]. Ricorderemo soltanto ancora una volta, rischiando di ripeterci, ciò essendo molto essen­ziale alfine di ben comprendere queste cose, che, quan­do, per esempio, si parla delle Sfere del Sole e della Lu­na, mai si tratta del sole e della luna quali astri visibili, che appartengono semplicemente al mondo corporeo, ma invece dei principi universali che questi astri rap­presentano in qualche modo nel mondo sensibile, o per lo meno della manifestazione di questi principi a gradi diversi, in virtù delle corrispondenze analogiche che collegano fra loro tutti gli stati dell’essere [I fenomeni naturali in genere, e specialmente quelli astronomici, non sono mai considerati dalle dottrine tradizionali che a titolo di semplici modi d’espressione, per simbolizzare certe verità di ordine superiore; ed essi infatti le simbolizzano appunto perché le loro leggi sono, in ultima analisi, una espressione di queste stesse verità in uno speciale dominio, una specie di traduzione dei principi corrispondenti, adattata naturalmente alle condizioni particolari dello stato corporeo ed umano. Si può dunque comprendere da ciò a quali gravi errori vanno incontro quelli che vogliono scorgere del «naturalismo» in tali dottrine e credono che esse si propongano sempli­cemente di descrivere e spiegare i fenomeni nel modo stesso della scienza «profana», quantunque sotto differenti forme; essi invertono i rapporti e scambiano il simbolo stesso per ciò che rappresenta, il segno per la cosa o l’idea significata]. Effettivamente, in realtà, i diversi Mondi (Loka), Sfere plane­tarie e Regni elementari, descritti simbolicamente come altrettante regioni (ma soltanto simbolicamente, poiché l’essere che li percorre non è più sottomesso allo spa­zio), non sono veramente che stati differenti [La parola sanscrita loka è identica al latino locus, «luogo»; anche nella dottrina cattolica, il Cielo, il Purgatorio e l’Inferno sono ugualmente designati come altrettanti «luoghi», che, anche in quel caso, rappresentano simbolicamente degli stati, poiché non potrebbe affatto trattarsi, nemmeno nella più esteriore delle interpretazioni di questa dottrina, di considerare spazialmente tali stati postumi; un equivoco siffatto non può essere prodotto che dalle teorie «neo-spiritualistiche» dell’Occidente moderno]; un tale simbolismo spaziale (come il simbolismo temporale che serve specialmente ad esprimere la teoria dei cicli) è ab­bastanza naturale e d’un uso generalmente diffuso; non può quindi ingannare che coloro che sono incapaci di scorgere altra cosa che non sia il senso più grossolana­mente letterale; ma questi mai comprenderanno che co­s’è un simbolo, poiché le loro concezioni sono irrime­diabilmente limitate all’esistenza terrestre ed al mondo corporeo, dove, per la più ingenua delle illusioni, essi vogliono racchiudere tutta la realtà.

    Il possesso effettivo degli stati di cui si tratta può essere ottenuto identificandosi ai principi designati co­me altrettanti Reggitori rispettivi, identificazione che in ogni caso si effettua per mezzo ed in virtù della cono­scenza, a condizione che questa non sia semplicemente teorica; la teoria deve essere solamente una preparazione, indispensabile però, per la corrispondente realiz­zazione. Ma, per ognuno di questi principi, considerato in particolare ed isolatamente, i risultati di una tale identificazione non si estendono oltre il suo proprio do­minio; perciò l’attuazione di tali stati, ancora condizio­nati, non costituisce che una tappa preliminare, nel sen­so d’un avviamento (nell’accezione da noi indicata e con le restrizioni che è necessario apportare ad un tal modo di esprimerci) verso l’«Identità Suprema», fine ultimo raggiunto dall’essere nella sua totale e completa univer­salizzazione, la cui realizzazione, per coloro che debbono dapprima effettuare il deva yana, può, come l’abbiamo spiegato, essere differita fino al pralaya, poiché il passaggio da uno stadio al seguente è solo possibile per chi ha ottenuto il grado corrispondente di conoscenza effettiva [È importante significare che i Brahmana si son riferiti, quasi esclusivamente, alla realizzazione immediata dell’«Identità Suprema», mentre gli Kshatriya hanno sviluppato a preferenza lo studio degli stati che corrispondono ai diversi stadi sia del déva yana che del pitri yana].

    Dunque, nel caso considerato presentemente, quello di krama mukti, l’essere, fino al pralaya, può restare nell’ordine cosmico e non raggiungere il possesso effettivo di stati trascendenti, nel quale consiste propriamente la vera realizzazione metafisica; ma fin d’allora ha ottenuto, per il fatto stesso che ha oltrepassato le Sfera della Luna (vale a dire allorché e uscito dalla «corrente delle forme»), quella «immortalità virtuale» che già abbiamo definita. Appunto perciò il Centro spirituale di cui si è fatto parola non è ancora che il centro d’un certo stato o d’un certo grado d’esistenza, quello al quale apparteneva l’essere in quanto essere umano, ed al quale continua tuttora ad appartenere in un certo qual modo, poiché la sua totale universalizzazione, in modo sopra individuale, non è attualmente realizzata; ed è anche perciò che, in una tale condizione, i vincoli individuali non possono essere completamente distrutti. È esattamente a questo punto che si fermano le conce­zioni propriamente religiose, che sempre si riferiscono ad estensioni dell’individualità umana, di modo che gli stati che esse permettono di raggiungere debbono neces­sariamente conservare qualche rapporto col mondo ma­nifestato, anche quando lo superano: non vi è quindi comune misura fra questi stati e quelli trascendenti per i quali l’unica via è la Conoscenza metafisica pura. Ciò può specialmente riferirsi agli «stati mistici»; quanto a quelli postumi, vi è precisamente la stessa differenza fra l’«immortalità» o la «salvezza» in senso religioso, l’unico che concepiscano ordinariamente gli Occidentali) e la «Liberazione», che fra la realizzazione mistica e quella metafisica compiuta durante la vita terrestre; non si può dunque qui parlare che d’«immortalità virtuale» e, come scopo ultimo, di «reintegrazione in nodo passivo»; quest’ultimo termine sfugge d’altronde al punto di vista religioso, quale comunemente lo si intende, e tuttavia è soltanto ciò che giustifica l’uso della parola «immortalità» in un senso relativo, e che può stabilire una specie di concatenamento o di passaggio da questo senso relativo a quello assoluto e metafisico, col quale gli Orientali concepiscono questa stessa parola. Ma ciò, d’altronde, non impedisce d’ammettere che le stesse concezioni religiose siano suscettibili d’una trasposizione per la quale esse ricevono un senso superiore e più profondo, perché questo senso è anche con­tenuto nelle Sacre Scritture sulle quali esse si fondano; ma, in virtù d’una tale trasposizione, perdono il loro carattere specificamente religioso, legato a certe limita­zioni, al di fuori delle quali già siamo nel puro ordine metafisico. D’altra parte, una dottrina tradizionale che, come quella indù, non considera le cose dallo stesso punto di vista delle religioni occidentali, riconosce tuttavia l’esistenza degli stati che sono più specialmente rilevati da queste ultime; né può essere altrimenti, perché questi stati sono effettivamente altrettante possibilità dell’essere; ma la dottrina indù non può loro attribuire una importanza eguale a quella che ricevono dalle dottrine che non li oltrepassano (la prospettiva, per così dire, cambia col mutare del punto di vista), e, poiché li supera, essa subordina questi stati al posto esatto che loro conviene nella gerarchia totale.

    Quindi, allorché si dice che il fine del «viaggio divino» è il Mondo di Brahma (Brahma Loka), non si tratta, per lo meno immediatamente, del Supremo Brahma, ma soltanto della Sua determinazione come Brahm, vale a dire Brahma «qualificato» (saguna) e, come tale, considerato «effetto della Volontà produttrice (Shakti) del Principio Supremo» (Karya Brahma) [La parola karya, «effetto», è derivata dalla radice verbale kr «fare», e dal suffisso ya, che specifica un compimento futuro: «ciò che dev’esser fatto» (o meglio «ciò che va a farsi», poiché ya è in modificazione della radice i, «andare»); questa parola implica dunque una certa idea di «divenire», che fa supporre necessariamente che ciò a cui si riferisce è considerato solamente in rapporto alla manifestazione.   A proposito della radice verbale kri, faremo notare che essa è identica e quella del latino creare; ciò dimostra dunque che quest’ultima parola, nella sua accezione primitiva, non aveva altro senso che quello di «fare»; l’idea di «creazione», come oggi è intesa, di origine ebraica, le si è poi aggiunta, quando la lingua latina è stata usata per esprimere le concezioni giudaico cristiane]. A questo proposito, quando si considera Brahm, si deve considerarlo, in primo luogo, come iden­tico a Hiranyagarbha, principio della manifestazione sottile, dunque dell’esistenza umana nella sua integralità; abbiamo infatti precedentemente asserito che l’es­sere il quale ha ottenuto l’«immortalità virtuale» è, per così dire, «incorporato», per assimilazione, a Hi­ranyagarbha; e questo stato, nel quale può restare fino al compimento del ciclo (per cui soltanto Brahm esiste come Hiranyagarbha), è ciò che il più ordinariamente si considera come il Brahma Loka [Il Brahma Loka, così inteso, è ciò che corrisponde il più esattamente ai «Cieli» o ai «Paradisi» delle religioni occidentali (fra le quali, a questo riguardo, noi vi comprendiamo anche l’Islamismo); quando una pluralità di «Cieli» è considerata (ed essa è spesso rappresentata da corrispondenze planetarie), bisogna da ciò intendere tutti gli stati superiori alla Sfera della Luna (spesso essa stessa consi­derata come il «primo Cielo», nel suo aspetto di Janua Coeli), fino al Brahma-Loka inclusivamente]. Tuttavia, parimenti che il centro d’ogni stato d’un essere ha la possibilità d’identificarsi con il centro dell’essere totale, il centro cosmico, residenza di Hiranyagarbha, s’identifica vir­tualmente al centro di tutti i mondi [Ancora qui ci riferiamo alla nozione dell’analogia costitutiva del «microcosmo» e del «macrocosmo»]; vogliamo dire che, per l’essere che ha raggiunto un certo grado di co­noscenza, Hiranyagarbha appare identico ad un aspetto più elevato del «Non Supremo» [Questa identificazione d’un certo aspetto ad un altro superiore, e così di seguito per i diversi gradi fino al Principio Supremo, non è insomma che lo svanire di altrettante illusioni «separative», che certe iniziazioni rappresentano come una serie di veli che cadono successivamente] che è Ishwara o l’Essere Universale, principio primo di ogni manifesta­zione. A questo grado, l’essere non è più nello stato sottile, neanche soltanto in principio; è invece nel non­-manifestato; ma, tuttavia, sempre conserva qualche rapporto con l’ordine della manifestazione universale, poiché Ishwara è propriamente il principio di questa, quantunque non sia più legato, per speciali vincoli, allo stato umano ed al ciclo particolare di cui questo fa parte. Un tale grado corrisponde alla condizione di Prajna, ed è l’essere a cui non è possibile oltre prose­guire che è detto unito a Brahma, nonostante il pra­laya, soltanto nello stesso modo che l’unione si effettua nel sonno profondo; da questa condizione, il ritorno ad un altro ciclo di manifestazione è ancora possibile; ma, poiché l’essere è liberato dall’individualità (con­trariamente a quel che avviene per colui che ha seguito il pitri yana), questo ciclo non potrà essere che uno stato informale e sopra individuale [Si dice simbolicamente che un tale essere è passato dalla con­dizione degli uomini a quella degli Deva (che si potrebbe chiamare uno stato «angelico» in linguaggio occidentale); per contro, alla fine del pitri yana, vi è un ritorno al «mondo dell’uomo» (manava-­loka), vale a dire ad una condizione individuale, così designata in analogia alla condizione umana, quantunque ne sia necessariamente differente, poiché l’essere non può ritornare ad uno stato per il quale è già passato]. Finalmente, nel caso in cui la «Liberazione» deve essere ottenuta a partire dallo stato umano, vi è ancora più di quanto abbiamo detto, ed allora il fine vero non è più l’Essere Universale, ma il Supremo Brahma stesso, vale a dire Brahma «non qualificato» (nirguna) nella Sua totale Infinità, che comprende contemporaneamente l’Essere (o le possibilità di manifestazione) ed il Non Essere (o le possibilità di non manifestazione) ed è il principio di questo e di quello, dunque di là da entrambi [Ricorderemo che si può tuttavia intendere il Non Essere meta­fisico, come il non manifestato (in quanto non è soltanto il principio immediato del manifestato, ciò che non è che l’Essere), in un senso totale, per cui s’identifica al Principio Supremo. D’altronde, in ogni modo, fra il Non Essere e l’Essere, come fra il non manifestato ed il manifestato (ed anche se, in quest’ultimo caso, si resta nel dominio dell’Essere), la correlazione non è che pura apparenza, poiché la sproporzione che esiste metafisicamente fra i due termini non permette veramente alcun paragone], nello stesso tempo che ugualmente li contiene, secondo l’insegnamento che già abbiamo riferito in merito allo stato incondizionato d’Atma, che è precisamente ciò di cui ora si tratta [A questo proposito, citeremo ancora una volta, per meglio mettere in evidenza le concordanze delle differenti tradizioni, un passaggio del Trattato dell’Unità (Risalatul Ahadiyah) di Mohyiddin ibn Arabi: «Questo pensiero immenso (dell’«Identità Suprema») può confarsi solo a colui il cui animo è più vasto dei due mondi (manifestato e non manifestato). Per colui che ha l’animo vasto solamente quanto questi due mondi (vale a dire per colui che può concepire l’Essere Universale, ma non oltrepassarlo), esso non gli si addice. Poiché, in verità, questo pensiero è più grande del mondo sensibile (o manifestato; la parola sensibile deve qui intendersi come trasposta analogicamente, non limitata al senso letterale) e del mondo soprasensibile (o non-manifestato, secondo la stessa trasposizione), nonché più grande di entrambi questi mondi insieme»]. In questo senso appunto la dimora di Brahma (o d’Atma in questo stato incondizionato) è anche «oltre il Sole spirituale» (Atma nella sua terza condizione, identico ad Ishwara) [Gli orientalisti, a cui manca la comprensione di ciò che significa veramente il Sole, che concepiscono in senso fisico, hanno interpretato strettamente questo simbolo; l’Oltramare scrive molto ingenuamente: «Con le sue albe ed i suoi tramonti, il sole consuma la vita dei mortali; l’uomo liberato esiste di là dal mondo del sole». Non si direbbe che si tratti di sfuggire alla vecchiaia e pervenire ad una immortalità corporea molto simile a quella che ricercano certe sette occidentali contemporanee?], come è oltre tutte le sfere degli stati particolari d’esistenza, individuali o extra individuali; ma questa dimora non può essere direttamente raggiunta da coloro che non hanno me­ditato su Brahma che per mezzo d’un simbolo (pra­tika), poiché ogni meditazione (upasana) ha allora sol­tanto un risultato definito e limitato [Brahma Sutra, 4° Adhyaya, 3° Pada, sutra 7 a 16].

    L’«Identità Suprema» è dunque la finalità dell’es­sere «liberato», vale a dire svincolato dalle condizioni dell’esistenza individuale umana, ed anche da tutte le altre condizioni particolari e limitative (upadhi), con­siderate come altrettanti vincoli [A tali condizioni si riferiscono parole come bandha e pasha, il cui senso proprio è «vincolo»; dal secondo di questi due termini deriva la parola pashu, che perciò significa etimologicamente un qualunque essere vivente, vincolato da tali condizioni. Shiva è chiamato Pashupati, il «Signore degli esseri legati», perché essi sono appunto «liberati» dalla sua azione «trasformatrice».   La parola, pashu, è spesso rilevata in un’accezione speciale per designare una vittima animale del sacrificio (yajna, yaga o medha), che d’altronde, è «liberata», per lo meno virtualmente, dal sacrificio stesso; ma qui noi possiamo pensare di esporre, nemmeno sommariamente, una teoria del sacrificio, che, così inteso, è destinato essenzialmente a stabilire una certa comunicazione con gli stati superiori, ed è completamenti alieno dalle idee occidentalissime di «riscatto» o di «espiazione e dalle altre del genere, idee che possono comprendersi solo da punto di vista specificamente religioso]. Quando l’uomo (o meglio l’essere che era precedentemente nello stato umano) è così «liberato», il «Sé» (Atma) è realiz­zato pienamente nella sua natura propria, «indivisa»; esso è allora, secondo Audulomi, una coscienza onnipresente (avendo per attributo chaitanya); ciò è anche detto da Jaimini, ma quest’ultimo specifica altresì che una tale coscienza manifesta gli attributi divini (aish­warya) come facoltà trascendenti, appunto perché unita all’Essenza Suprema [Cfr. Brahma-Sutra, 4° Adhyaya, 4° Pada, sutra 5 a 7]. Tale è il risultato della libera­zione completa, ottenuta nella pienezza della Cono­scenza Divina; ma, per quelli la cui contemplazione (dhyana) è stata solamente parziale, quantunque attiva (realizzazione metafisica incompleta), o puramente pas­siva (come quella dei mistici occidentali), essi godono di certi stati superiori [Il possesso di tali stati, identici ai diversi «Cieli», costituisce, per l’essere che ne gode, un’acquisizione personale e permanente, malgrado la sua relatività (si tratta sempre di stati condizionati, anc­he se sopra-individuali), acquisizione a cui non potrebbe affatto rife­rirsi l’idea occidentale di «ricompensa», perché si tratta del risul­tato, non dell’azione, ma della conoscenza; quest’idea, d’altronde, come quella del «merito», di cui è un corollario, è una nozione di ordine esclusivamente morale e quindi non può aver posto in una dottrina metafisica], ma senza poter tuttora rag­giungere l’Unione perfetta (Yoga), che rappresenta un tutto solo con la «Liberazione» [La Conoscenza, a questo riguardo, è dunque di due specie, ed è detta «suprema» o «non suprema», secondo che concerna Para­-brahma o Apara-Brahma, a cui, per conseguenza, conduce rispetti­vamente].

     

    XXII. LA LIBERAZIONE FINALE

     

    La «Liberazione» (Moksa o Mukti), vale a dire questa universalizzazione definitiva dell’essere, fine ul­timo al quale tende, e di cui ultimamente abbiamo par­lato, differisce assolutamente da tutti gli stati che questo essere ha potuto attraversare per pervenirvi; infatti, essa è la realizzazione dello stato supremo ed incondizionato, mentre tutti gli altri stati, anche se elevatissimi, sono sempre condizionati, vale a dire sot­tomessi a certe limitazioni che li definiscono, che li fanno essere ciò che sono, e che propriamente li costi­tuiscono come stati determinati. Ciò può asserirsi tan­to per gli stati sopra individuali quanto per quelli in­dividuali, quantunque le loro condizioni siano diverse; lo stesso grado dell’Essere puro, che non è più nei limiti d’un qualsiasi genere d’esistenza nel senso pro­prio della parola, vale a dire di là dalla manifestazione sia informale che formale, purtuttavia implica ancora una determinazione, che, anche se primordiale e prin­cipiale, è sempre una limitazione. Tutte le cose, in tutte le modalità dell’Esistenza universale, sussistono solo per l’Essere, ed esso sussiste per se stesso; esso determina tutti gli stati di cui è il principio, e non è determinato che da se stesso; ma determinare se stesso è ancora essere determinato, dunque in qualche modo limitato, perciò l’Infinità non è un attributo che si ad­dice all’Essere, che non deve affatto esser considerato come il Principio Supremo. Ciò mette in buona evi­denza l’insufficienza metafisica delle dottrine occiden­tali, alludiamo a quelle stesse nelle quali vi è tuttavia una parte di metafisica vera [Alludiamo dunque soltanto alle dottrine filosofiche dell’antichità e del medioevo, poiché i punti di vista della filosofia moderna sono la negazione stessa della metafisica; ciò può tanto dirsi per le concezioni a carattere «pseudo metafisico» quanto per quelle che francamente dichiarano questa negazione. Naturalmente le nostre allusioni si riferiscono qui solamente alle dottrine conosciute nel mondo «profano» e non concernono le tradizioni esoteriche del­l’Occidente, che, per lo meno quando hanno avuto un carattere vera­mente e pienamente «iniziatico» non potevano essere così limitate, ma dovevano invece rappresentare metafisicamente un tutto compl­eto nel doppio rapporto della teoria e della realizzazione; queste tradizioni però sono state conosciute da una élite incomparabilmente meno estesa di quella dei paesi orientali]; poiché la loro unica meta è l’Essere, esse sono incomplete, anche teoricamente (non facciamo nemmeno lontanamente allusione alla realizzazione, che non vi è affatto concepita); e, come ordinariamente accade in simili casi, esse hanno la pessima tendenza di negare ciò che le oltrepassa, vale a dire proprio ciò che più interessa per la metafisica pura.

    L’acquisizione o, per meglio dire, il possesso di stati superiori, qual che essi siano, non è dunque che un risultato parziale, secondario, contingente; quantunque questo risultato possa apparire immenso se paragonato allo stato individuale umano (e soprattutto a quello corporeo, il solo di cui gli uomini ordinari abbiano il possesso effettivo durante la loro esistenza terrestre), non è men vero che, in se stesso, è rigorosamente nulla se paragonato allo stato supremo, poiché il finito, an­che se è divenuto indefinito, in virtù delle estensioni di cui è suscettibile, vale a dire in virtù degli sviluppi delle sue proprie possibilità, resta sempre nulla se pa­ragonato all’Infinito. Un tale risultato non vale dun­que, nella realtà assoluta, che a titolo preparatorio all’«Unione», vale a dire come mezzo, non come fine; è dunque perseverare nell’illusione volerlo considerare un fine, poiché tutti gli stati di cui si tratta, non esclu­so l’Essere, sono illusori nel senso da noi definito fin dal principio. Altresì, negli stati in cui vi è ancora una distinzione, cioè in tutti i gradi dell’Esistenza, non escludendo quelli che non appartengono all’ordine in­dividuale, l’universalizzazione dell’essere non potrebbe essere effettiva; ed anche l’unione all’Essere Univer­sale, secondo come essa si compie nella condizione di Prajna (o nello stato postumo che corrisponde a questa condizione), non è neanche l’«Unione» nel senso pie­no della parola; se lo fosse, il ritorno ad un ciclo di manifestazione, anche nell’ordine informale, sarebbe impossibile. È ben vero che l’Essere è oltre qualsiasi distinzione, poiché la prima distinzione è quella del­l’«essenza» e della «sostanza», o Purusha e Prakriti; tuttavia Brahma, in quanto Ishwara o l’Essere Univer­sale, è detto savishesha, vale a dire «che implica la distinzione», poiché ne è principio determinante im­mediato; solo lo stato incondizionato d’Atma, oltre l’Essere, è prapancha upashama, «senza traccia alcuna di sviluppo della manifestazione». L’Essere è uno, o meglio è la stessa Unità metafisica; ma l’Unità racchiude in sé la molteplicità, poiché la produce per il solo dispiegarsi delle sue possibilità; perciò, nell’Essere stesso, si può considerare una molteplicità d’aspetti, che ne sono altrettanti attributi o qualifiche, quantun­que questi aspetti non vi siano affatto distinti in realtà, se non perché noi li concepiamo in tal modo; ma pure è necessario che essi vi siano compresi in qualche mo­do, perché ci sia possibile concepirveli. Si potrebbe dire anche che ogni aspetto si distingua dagli altri, in un certo rapporto, quantunque nessuno si distingua veramente dall’Essere, essendo tutti l’Essere stesso [Nella teologia cristiana, ciò può trovare riscontro nella concezione della Trinità: ogni persona divina è Dio, senza essere le altre persone. – Nella filosofia scolastica, si potrebbe dire la stessa cosa per i «trascendentali», di cui ognuno è coestensivo all’Essere]; vi è dunque una specie di distinzione principiale, che non è una distinzione nel senso in cui questa parola si riferisce all’ordine della manifestazione, ma ne è la trasposizione analogica. Nella manifestazione, la distin­zione implica una separazione; ma questa non è niente di positivo in realtà, poiché non è che un modo di limitazione [Negli stati individuali, la separazione è determinata dalla presenza della forma; negli stati non-individuali, deve essere determinata da un’altra condizione, perché questi stati sono informali]; l’Essere puro è invece oltre la «separa­tività». Così, quello che è al grado dell’Essere puro è «non distinto», considerando la distinzione (vishe­sha) nel senso in cui la comportano gli stati manife­stati; tuttavia, in un altro senso, si può ancora rilevare qualche cosa di «distinto» (vishishta): nell’Essere, tutti gli esseri (intendiamo le loro personalità) sono «uno» senza confondersi, e sono distinti senza separarsi [Ciò spiega appunto la principale differenza fra la veduta di Ramanuja, che mantiene la distinzione principiale, e quella di Shan­karacharya, che la oltrepassa]. Di là dall’Essere non vi è più distinzione pos­sibile, anche se principiale, quantunque non si possa nemmeno asserire che vi sia confusione; siamo di là dalla molteplicità, ma anche di la dall’Unita; nell’assoluta trascendenza di questo stato supremo, non uno di questi termini può più usarsi, neanche per trasposi­zioni analogiche, perciò è necessaria una parola di for­ma negativa, quella di «non dualità», secondo quanto precedentemente abbiamo spiegato; la stessa parola «Unione» è indubbiamente imperfetta, poiché evoca l’idea di unità, ma tuttavia siamo obbligati ad usarla per tradurre la parola Yoga, non avendone altre a no­stra disposizione nelle lingue occidentali.

    La Liberazione, con le facoltà ed i poteri che im­plica in qualche modo «per sovrappiù», e perché tutti gli stati, con tutte le loro possibilità, si trovano necessariamente compresi nell’assoluta totalizzazione dell’es­sere, ma che, lo ripetiamo, si debbono considerare co­me risultati accessorii ed anche «accidentali», non come costituenti una finalità propria, la «Liberazio­ne», diciamo, può essere ottenuta dallo Yogi (o meglio da colui che diviene tale appunto perché l’ha ottenuta) con l’aiuto delle osservanze indicate nello Yoga Sha­stra di Patanjali. Essa può anche essere facilitata dalla pratica di certi riti [Questi riti sono del tutto paragonabili a quelli che i Musulmani classificano col nome generale di dhikr; essi si fondano princi­palmente, come già l’abbiamo indicato, sulla scienza del ritmo e delle sue corrispondenze in tutti gli ordini. I riti chiamati vrata (voto) e dwara (porta) rappresentano la stessa parte nella dottrina parzialmente eterodossa dei Pashupata; sotto forme differenti, tutto ciò è in fondo identico o per lo meno equivalente allo Hatha Yoga], come pure di diversi modi particolari di meditazione (harda vidya o dahara vidya) [Chhandogya Upanishad, 8° Prapataka]; ma s’intende naturalmente che tutti questi metodi sono solamente preparatori, non veramente essenziali, poiché «l’uomo può acquistare la Conoscenza Divina anche senza osservare i riti prescritti (per ognuna del­le diverse categorie umane, in conformità ai loro ri­spettivi caratteri, e specialmente per i diversi ashrama o periodi regolari della vita) [D’altronde, l’uomo che ha raggiunto un certo grado di realizzazione è chiamato ativarnashrami, vale a dire di là dalle caste (varna) e dagli stadi dell’esistenza terrestre (ashrama); non una delle distinzioni ordinarie si riferiscono più ad un tale essere, poiché ha effettivamente superato i limiti dell’individualità, anche se non è ancora pervenuto al risultato finale]; si trovano infatti nel Veda molti esempi di persone che hanno negletto i riti (lo stesso Veda paragona questi riti ad un cavallo da sella che aiuta un uomo a raggiungere più facil­mente e più rapidamente la sua meta, che però sempre può raggiungere anche senza quest’aiuto) o che non hanno potuto compierli, e che tuttavia, in virtù della loro attenzione sempre concentrata e fissata sul Supremo Brahma (ciò che costituisce la sola preparazione realmente indispensabile), hanno acquistato la vera Co­noscenza che Lo concerne (e che perciò è ugualmente chiamata Conoscenza «suprema»)» [Brahma-Sutra, 3° Adhyaya, 4° Pada, sutra 36 a 38].

    La Liberazione è dunque effettiva solo quando implica essenzialmente la perfetta Conoscenza di Brahma; inversamente, questa Conoscenza, per essere perfetta, suppone necessariamente la realizzazione di ciò che abbiamo chiamato l’«Identità Suprema». Perciò, la Liberazione e la Conoscenza totale ed assoluta sono veramente una stessa ed unica cosa; se si dice che la Co­noscenza è il mezzo della Liberazione, si deve aggiun­gere che il mezzo ed il fine sono qui inseparabili, poiché il frutto della Conoscenza è in se stesso, contrariamente a quello dell’azione [L’azione ed il suo frutto sono altresì ugualmente transitori e «momentanei»; mentre la Conoscenza è permanente e definitiva, come il suo risultato, che non può essere distinto dalla Conoscenza stessa]; del resto, a questo pro­posito, una distinzione del mezzo e del fine è un sem­plice modo di dire, indubbiamente inevitabile quando bisogna esprimere queste idee in linguaggio umano, sempre nella misura in cui sono esprimibili. Se dun­que la Liberazione è considerata come una conseguenza della Conoscenza, è bene precisare che essa ne è una conseguenza rigorosamente immediata; Shankaracharya dice nettamente: «Non vi è altro mezzo per ottenere la Liberazione completa e finale che la Conoscenza; solo questa infatti scioglie i vincoli delle passioni (e di tutte le altre contingenze a cui è sottomesso l’essere indivi­duale); senza la Conoscenza, la Beatitudine (Ananda) non può essere ottenuta. L’azione (karma, che questa parola sia intesa nel suo senso generale o riferita spe­cialmente al compimento dei riti), non essendo oppo­sta all’ignoranza (avidya) [Certuni vorrebbero tradurre avidya o ajnana con «nescienza», non con «ignoranza»; confessiamo di non comprendere chiaramente la ragione di questa sottigliezza], non può allontanarla; ma la Conoscenza dissipa l’ignoranza come la luce le tenebre. Allorché l’ignoranza che nasce dalle affezioni terrestri (e da altri vincoli analoghi) è allontanata (e quando con essa sono anche scomparse tutte le illu­sioni), il «Sé» (Atma), per il suo proprio splendore, brilla lontano (attraverso tutti i gradi dell’esistenza) in modo indiviso (penetrando tutto ed illuminando la totalità dell’essere), come il Sole diffonde la sua luce quando la nuvola è fugata» [Atma-Bodha (Conoscenza del Sé)].

    Uno dei punti di maggior rilievo è il seguente: l’a­zione, qual che essa sia, non può affatto liberare dal­l’azione; in altre parole, essa non potrebbe portare dei risultati che dentro il suo proprio dominio, che è quel­lo dell’individualità umana. Perciò non è per virtù dell’azione che si può superare l’individualità, considerata d’altronde qui nella sua estensione integrale, poiché non pretendiamo affatto che le conseguenze dell’azione si limitino alla sola modalità corporea; si può riferire, a questo riguardo, ciò che abbiamo detto precedentemente della vita, effettivamente inseparabile dall’azione. Da ciò risulta immediatamente che la «salvezza», al senso religioso inteso dagli Occidentali, essendo il frutto di certe azioni [L’usuale espressione «fare la propria salvezza» è dunque perfettamente esatta], non può essere assimilata alla Liberazione, ed è altrettanto necessario dichiararlo espressamente ed insistervi, che la confusione fra l’una e l’altra si verifica costantemente nelle interpretazioni degli orientalisti [L’Oltramare specialmente traduce Moksha con «salvezza» da un capo all’altro delle sue opere, senza neppure sospettare, non diciamo della differenza reale che qui abbiamo indicata, ma neanche della semplice possibilità d’una inesattezza in tale assimilazione]. La «salvezza» è propriamente il conseguimento del Brahma Loka; preciseremo pari­menti che per Brahma Loka bisogna intendere qui esclusivamente la dimora di Hiranyagarbha, poiché gli aspetti più elevati del «Non Supremo» oltrepassano le possibilità individuali. Ciò s’accorda perfettamente con la concezione occidentale dell’«immortalità», che è appena un prolungamento indefinito della vita indi­viduale, trasposta nell’ordine sottile, e che si estende fino al pralaya; abbiamo già spiegato che ciò è appena una tappa nel processo di krama mukti; ancora la pos­sibilità d’un ritorno ad uno stato di manifestazione (d’altronde sopra individuale) non è definitivamente eliminata per l’essere che non ha oltrepassato questo grado. Per procedere più oltre e per liberarsi interamente dalle condizioni di vita e di durata inerenti al­l’individualità, è aperta una sola via, quella della Co­noscenza, sia «non suprema» che conduce ad Ishwa­ra [Vi è appena bisogno di dire che la teologia, anche se comportasse una realizzazione che la rendesse veramente efficace, invece di restare semplicemente teorica, come essa lo è infatti (purché tuttavia non si voglia considerare una tale realizzazione come costituita dagli «stati mistici», ciò che è solo parzialmente vero e sotto certi riguar­di), sarebbe sempre integralmente compresa in questa Conoscenza «non suprema»] sia «suprema» che realizza immediatamente la Liberazione. In quest’ultimo caso, non vi è più bisogno di considerare, alla morte, un passaggio attraverso diversi stati superiori, ma sempre transitori e condizionati: «Il “Sé” (Atma, poiché allora non può più trattarsi di jivatma, essendo svanita ogni possibile di­stinzione e «separatività») di colui che ha raggiunto la perfezione della Conoscenza Divina (Brahma Vidya), e che ha, per conseguenza, ottenuto la Liberazione fi­nale, lasciando la sua forma corporea, ascende (senza traversare stati intermediari) alla Luce Suprema (spi­rituale) che è Brahma, ed a Lui s’identifica in un modo conforme ed indiviso, come l’acqua pura, confonden­dosi col lago limpido (senza tuttavia affatto perder­visi), diviene in tutto ad esso conforme» [Brahma Sutra, 4° Adhyaya, 4° Pada, sutra 1 a 4].

     

    XXIII. VIDEHA MUKT1 E JIVAN MUKTI

     

    La Liberazione, nell’ultimo caso di cui abbiamo par­lato, è propriamente la liberazione fuori della forma corporea (videha mukti), ottenuta, al momento della morte, in modo immediato, poiché la Conoscenza è già virtualmente perfetta prima della fine dell’esistenza ter­restre; essa deve dunque distinguersi dalla liberazione differita e graduale (krama mukti), ma anche da quella ottenuta dallo Yogi fin dalla vita attuale (jivan mukti), in virtù della Conoscenza, non più soltanto virtuale e teorica, ma pienamente effettiva, vale a dire quella che veramente realizza l’«Identità Suprema». Bisogna ben comprendere, infatti, che né il corpo e nemmeno le altre contingenze possono ostacolare la Liberazione; nulla può opporsi alla totalità assoluta, al cui confronto le cose particolari sono come se non fossero; in rapporto allo scopo supremo, l’equivalenza è perfetta fra tutti gli stati dell’esistenza, quindi fra l’uomo vivo e l’uomo morto (si debbono considerare queste due espressioni nel loro significato terrestre) non sussiste più ormai distinzione alcuna. A questo proposito, scorgiamo ancora una essenziale differenza fra la Liberazione e la «salvezza»: quest’ultima, secondo le religioni occidentali, non può essere effettivamente ottenuta e neanche assicurata (vale a dire ottenuta virtualmen­te) prima della morte; l’azione può sempre far perdere ciò che ha fatto raggiungere; e fra certe modalità di uno stesso stato individuale può esservi incompati­bilità, per lo meno accidentalmente e sotto condizioni particolari [Questa restrizione è indispensabile, poiché, se vi fosse incom­patibilità assoluta o essenziale, la totalizzazione dell’essere sarebbe resa impossibile, alcuna modalità potendo restare al di fuori della realizzazione finale. D’altronde, l’interpretazione la più exoterica della «resurrezione dei morti» è sufficiente a dimostrare che, anche dal punto di vista teologico, non può esservi un’antinomia irriducibile fra la «salvezza» e l’«incorporazione»], mentre non può ciò dirsi per gli stati so­pra individuali, né, a più forte ragione, per lo stato incondizionato. Considerare le cose altrimenti è attri­buire ad un modo speciale di manifestazione una im­portanza che non potrebbe avere e che l’intera mani­festazione tanto meno ha; solamente la prodigiosa in­sufficienza delle concezioni occidentali relative alla co­stituzione dell’essere umano può permettere una simile illusione e giudicare sorprendente che la Liberazione possa anche effettuarsi durante la vita terrestre come in tutt’altro stato.

    La Liberazione o l’Unione, che sono una stessa ed unica cosa, implica «per sovrappiù», già l’abbiamo detto, il possesso di tutti gli stati, poiché è la realizzazione perfetta (sadhana) e la totalizzazione dell’es­sere; poco importa d’altronde se questi stati siano at­tualmente manifestati o non lo siano, poiché è soltanto come possibilità permanenti ed immutabili che essi debbono essere considerati metafisicamente. «Signore di molteplici stati per la semplice virtù della sua volontà, lo Yogi non ne occupa che uno, lasciando gli altri vuoti del soffio animatore (prana), come altret­tanti strumenti inutilizzati; egli può animare più di una forma, come una sola lampada può alimentare più di un lucignolo» [Commento di Bhavadeva Mishra sui Brahma Sutra]. «Lo Yogi, dice Aniruddha, è in connessione immediata con il principio primordiale dell’Universo, e, per conseguenza (secondariamente), con l’insieme tutto dello spazio, del tempo e delle cose», vale a dire con la manifestazione, e più parti­colarmente con lo stato umano in tutte le sue modalità [Ecco un testo taoista dove sono espresse le stesse idee: «Colui (l’essere che ha raggiunto questo stato nel quale è unito alla totalità universale) non sarà affatto dipendente; sarà invece perfettamente libero... Perciò si dice molto giustamente: l’essere sovrumano non ha più individualità propria; l’uomo trascendente non ha più azione propria; il Saggio non ha neanche più un nome che gli sia proprio, poiché è uno col Tutto» (Tchoang tseu, cap. 1; trad. del P. Wie­ger, p. 211). Lo Yogi o lo jivan mukta infatti é libero dal nome e dalla forma (namarupa), che sono gli elementi costitutivi e caratte­ristici dell’individualità; abbiamo già menzionato i testi delle Upanishad in cui è appunto espressamente affermato questo svanire del nome e della forma].

    D’altronde, sarebbe un errore credere che la libe­razione «al di fuori della forma» (videha mukti) sia più completa di quella «nella vita» (jìvan mukti); se certi Occidentali hanno commesso quest’errore, è sem­pre per l’eccessiva importanza che attribuiscono allo stato corporeo; d’altronde, ciò che abbiamo detto ci dispensa d’insistervi ancora. Lo Yogi non può niente ottenere ulteriormente, poiché egli ha veramente realizzato la «trasformazione» (vale a dire è passato oltre la forma), per lo meno in se stesso, se non esterior­mente; gl’importa poco quindi che l’apparenza formale sussista nel mondo manifestato, quando, per lui, essa non può ormai esistere altrimenti che in modo illu­sorio. A vero dire, per gli altri soltanto le apparenze sussistono così, senza cambiamento esteriore in rap­porto allo stato antecedente, non per lo Yogi, poiché ormai esse non possono più limitarlo o condizionarlo, né lo turbano, né lo concernono più di tutto il resto della manifestazione universale. «Poiché lo Yogi ha attraversato il mare delle passioni [È il dominio delle «Acque inferiori» o delle possibilità for­mali; le passioni sono qui considerate per designare tutte le modifi­cazioni contingenti che costituiscono la «corrente delle forme»], è unito alla Tranquillità [È la «Grande Pace» (Es Sakinah) dell’esoterismo islamico, o la Pax Profunda della tradizione rosicruciana; la parola Shekinah, in ebraico, specifica la «presenza reale» della Divinità, o la «Luce della gloria» nella e per la quale, secondo la teologia cristiana, si opera la «visione beatifica» (cfr. la «gloria di Dio» nel testo già citato dell’Apocalisse; XXI, 23). - Ecco ancora un testo taoista che si riferisce alla stesso soggetto: «La pace nel vuoto è uno stato indefinibile e tuttavia raggiungibile. Non la si prende né la si dà. Un tempo si cercava di ottenerla. Ora si preferisce esercitare la bontà e l’equità, che non danno lo stesso risultato» (Lie-Tseu, cap. I; trad. del P. Wieger, p. 77). Il «vuoto» di cui si tratta è il «quarto stato» della Mandukya Upanishad, che infatti è indefinibile, poiché assolutamente incondizionato, e lo si può qualificare per attribuzioni negative. Le parole «un tempo» ed «ora» si riferiscono ai differenti periodi del ciclo dell’umanità terrestre: le condizioni dell’epoca attuale (che corrisponde al Kali-Yuga) sono tali che la grande maggioranza degli uomini si vincolano all’azione ed al sentimento, che non possono condurli di là dai limiti dell’individualità umana, e meno ancora allo stato supremo ed incondizionato] e possiede nella sua pienezza il “Sé” (Atma incondizionato, al quale è identificato). Poiché ha ri­nunziato ai piaceri che nascono dagli oggetti esteriori perituri (e che in fondo altro non sono se non modi­ficazioni esteriori ed accidentali dell’essere), e giacché gode la Beatitudine (Ananda, che è il solo oggetto per­manente ed imperituro, per nulla differente dal “Sé”), egli è calmo e sereno come la fiaccola sotto uno spe­gnitoio [Da ciò è facile comprendere il vero senso della parola Nirvana, a cui gli orientalisti hanno attribuito le più false interpretazioni; questa parola, lungi dall’essere speciale al Buddhismo come spesso si crede, specifica letteralmente «estinzione del soffio o dell’agitazione», dunque è lo stato dell’essere non più sottomesso a cambiamenti ed a modificazioni, definitivamente liberato dalla forma, come da tutti gli altri accidenti o vincoli dell’esistenza manifestata. Nirvana è la condizione sopra individuale (quella di Prajna), e Parinirvana è lo stato incondizionato; si usano anche, nello stesso senso, le parole Nivritti, «estinzione del cambiamento o dell’azione», e Parinirvritti.   Nell’esoterismo islamico, le parole corrispondenti sono fana, «estinzione», e fana el fanai, letteralmente «estinzione dell’estinzione»], nella pienezza della sua propria essenza (non più distinta dal Supremo Brahma). Mentre egli sta ancora (apparentemente) nel corpo, non è affatto turbato dalle proprietà di esso, come il firmamento non è offu­scato da ciò che trasmuta nel suo seno (poiché egli, in realtà, contiene in se tutti gli stati, senza che sia da essi contenuto); egli è immutabile, «non alterato» dalle contingenze, conoscendo ogni cosa (ed appunto perciò essendo ogni cosa, non «distintivamente», ma come totalità assoluta)» [Atma Bodha di Shankaracharya].

    Dunque, evidentemente, non vi è né può esservi alcun grado spirituale che sia superiore a quello dello Yogi, che, considerato nella sua concentrazione in se stesso, è anche designato come il Muni, vale a dire «Solitario» [La radice della parola Muni sembra identica a quella greca , «solo», quantunque certuni la riavvicinino al termine manana, che specifica il pensiero riflessivo e concentrato, ma ciò è poco verosimile sia dal punto di vista della derivazione etimologica sia da quello del significato stesso (poiché manana, derivato da manas, non può riferirsi che al pensiero individuale), non in senso volgare e letterale, ma co­me colui che realizza, nella pienezza del suo essere, la Solitudine perfetta, e che non lascia sussistere nel­l’Unità Suprema (o meglio nella «Non Dualità») al­cuna distinzione dell’esteriore e dell’interiore e nemmeno una qualsiasi diversità extra principiale. Per lui, l’illusione della «separatività» è definitivamente ces­sata, e con essa ogni confusione prodotta dall’igno­ranza (avidya), che appunto genera e mantiene questa illusione[A quest’ordine appartiene specialmente la «falsa imputazione» (adhyasa), che consiste nell’attribuire ad una cosa qualifiche che non le appartengono veramente], poiché «l’uomo, immaginandosi dapprima essere l’«anima vivente» individuale (jivatma), è spaventato (al pensiero che vi sia un essere altro che lui), come una persona che scambiasse erroneamente [Un tale errore è chiamato vivarta; si tratta propriamente di una modificazione che non turba affatto l’essenza dell’essere al quale è attribuita; essa dunque pregiudica soltanto colui che, per effetto d’una illusione, la riferisce a quest’essere] un pezzo di corda per un serpente; ma la sua paura svanisce con la certezza che, in realtà, egli non è que­st’«anima vivente», ma Atma stesso (nella Sua uni­versalità incondizionata)» [Atma-bodha di Shankaracharya].

    Shankaracharya enumera tre attributi che in qualche modo corrispondono ad altrettante funzioni del San­nyasi possessore della Conoscenza, che è appunto lo Yogi stesso, se questa Conoscenza è pienamente effet­tiva [Lo stato di Sannyasi è propriamente l’ultimo dei quattro ashrama (i primi tre sono quelli di Brahmachari o «studente della Scienza sacra», discepolo d’un Guru, di Grihastha o «padrone di casa», di Vanaprastha o «anacoreta»); ma il nome di Sannyasi è anche spesso attribuito, come qui ne è il caso, al Sadhu, vale a dire a colui che ha compiuto la perfetta realizzazione (sadhana), e che è ativarnashrami, come l’abbiamo visto poc’anzi]: questi tre attributi sono, in ordine ascendente, balya, panditya e mauna [Commento sui Brahma Sutra, 3° Adhyaya, 4° Pada, sutra 47 a 50]. La prima di queste parole specifica letteralmente uno stato paragonabile a quello d’un ragazzo (bala) [Cfr. queste parole del Vangelo: «Il Regno dei Cieli è per coloro che sono simili a questi ragazzi... Chiunque non avrà ricevuto il Regno di Dio come un piccolo fanciullo non entrerà punto in esso» (S. Matteo, XIX, 24; S. Luca, XVIII, 16 e 17)]: è uno stadio di «non espansio­ne», se così possiamo dire, dove tutte le potenze dell’essere sono concentrate in un sol punto, e realizzano con la loro unificazione una semplicità indifferenziata apparentemente simile alla potenzialità embrionale [Questo stadio corrisponde al «Dragone nascosto» dei simbolismo estremo orientale.   Un altro simbolo frequentemente usato è quello della tartaruga che interamente si ritira nel suo guscio]. È anche, in un senso alquanto differente, ma che completa il precedente (poiché vi è contemporaneamente riassorbimento e pienezza), il ritorno allo «stato primordiale» di cui parlano tutte le tradizioni, e sul quale insistono più specialmente il Taoismo e l’esoterismo islamico; questo ritorno è effettivamente una tappa necessaria verso l’Unione, poiché soltanto da questo «stato primordiale» si possono superare i limiti dell’individualità umana, per poi elevarsi agli stati superiori [Ciò corrisponde allo «stato edenico» della tradizione giudaico cristiana; perciò Dante colloca il Paradiso terrestre alla sommità della montagna del Purgatorio, vale a dire precisamente nel punto da cui l’essere lascia la Terra, o lo stato umano, per elevarsi ai Cieli (designati come il «Regno di Dio» nella precedente citazione del Van­gelo)].

    Uno stadio ulteriore è rappresentato da panditya, vale a dire dal «sapere», attributo che si riferisce ad una funzione d’insegnamento; colui che possiede la Conoscenza è qualificato affinché la comunichi agli altri o, più esattamente, per svegliare in essi delle possibilità corrispondenti, poiché la Conoscenza in se stessa è rigorosamente personale ed incomunicabile. Il Pandita ha dunque più particolarmente il carattere di Guru o «Maestro spirituale» [Il Guru corrisponde allo Sheikh delle scuole islamiche, anche chiamato murabbul-muridin; il Murid è il discepolo, vale a dire il Brahmachari indù]; ma egli però può an­che limitarsi ad avere la perfezione della Conoscenza teorica, perciò è necessario considerare, come grado ultimo ed ulteriore, mauna o lo stato del Muni, come l’unica condizione nella quale l’Unione può veramente realizzarsi. D’altronde, vi è un’altra parola, Kaivalya, che anche significa «isolamento» [L’«isolamento» è ancora il «vuoto» di cui si tratta nel testo taoista citato; questo «vuoto» è in realtà, d’altronde, l’assoluta pienezza], e che contempora­neamente esprime le idee di «perfezione» e di «totalità»; questa parola è spesso usata quale equivalente di Moksha: kevala designa lo stato assoluto ed incondizionato, quello dell’essere «liberato» (mukta).

    Abbiamo considerato i tre aspetti di cui si tratta come caratterizzanti altrettanti stadi preparatori al­l’Unione; ma, naturalmente, lo Yogi, pervenuto allo scopo supremo, li possiede a più forte ragione, come possiede tutti gli stati, nella pienezza della sua essen­za [È bene notare che questi tre attributi sono in qualche modo «prefigurati» rispettivamente, e nello stesso ordine, dai tre primi ashrama; il quarto ashrama, quello del Sannyasi (nel suo più ordina­rio significato), rassomiglia e riassume per così dire gli altri tre, come lo stato finale dello Yogi implica «eminentemente» tutti gli stati particolari, prima attraversati come altrettante tappe preliminari]. Questi tre attributi sono, d’altronde, impliciti in ciò che è chiamato ashwarya, vale a dire la partecipa­zione all’essenza d’Ishwara, poiché corrispondono ri­spettivamente alle tre Shakti della Trimurti: se si nota che lo «stato primordiale» è caratterizzato fondamentalmente dall’«Armonia», si vedrà immediatamente che balya corrisponde a Lakshmi, mentre panditya cor­risponde a Saraswati e mauna a Parvati [Lakshmi è la Shakti di Vishnu; Saraswati o Vach è quella di Brahma; Parvati è quella di Shiva. Parvati è anche chiamata Durga, vale a dire «Quella che difficilmente si può avvicinare». – È note­vole che la corrispondenza di queste tre Shakti è perfino rintraccia­bile nelle tradizioni occidentali: perciò, nel simbolismo massonico, i «tre principali pilastri del Tempio» sono «Saggezza, Forza, Bel­lezza»; la Saggezza è Saraswati, la Forza è Parvati, la Bellezza è Lakshmi. Parimenti Leibnitz, che aveva ricevuto qualche insegna­mento esoterico (d’altronde abbastanza elementare) di provenienza rosicruciana, designa i tre principali attributi divini come «Saggez­za, Potenza, Bontà», ciò che è esattamente la stessa cosa, poiché «Bellezza» e «Bontà» in fondo sono (come per i Greci e special­mente per Platone) due aspetti d’una idea unica, precisamente quella dell’«Armonia»]. Questo pun­to è di una particolare importanza per ben comprendere quale significato hanno i «poteri» che apparten­gono al jivan mukta, a titolo di conseguenze seconda­rie della perfetta realizzazione Metafisica.

    D’altra parte, si può anche scorgere nella tradizione estremo orientale una teoria che equivale esattamente a quella che abbiamo esposta: questa teoria è quella delle «quattro Felicità», le cui due prime sono la «Longevità», che, come già abbiamo visto, è insom­ma la perpetuità dell’esistenza individuale, e la «Po­sterità», che consiste nei prolungamenti indefiniti del­l’individuo in tutte le sue modalità. Queste due «Fe­licità» non concernono dunque che l’estensione del­l’individualità e si riassumono nella restaurazione dello «stato primordiale», che ne implica il pieno compi­mento; le due seguenti, che si riferiscono, al contrario, agli stati superiori ed extra individuali dell’essere [Perciò, mentre le due prime «Felicità» appartengono al Confucianesimo, le altre rilevano del Taoismo], sono il «Grande Sapere» e la «Perfetta Solitudine», vale a dire panditya e mauna. Finalmente, queste quattro Felicità» ottengono la loro pienezza nella «quinta», che le contiene tutte in principio e le unisce sinteticamente nella loro essenza unica ed indivisibile; questa «quinta Felicità» non ha affatto un nome (come il «quarto stato» della Mandukya Upanishad), poi­ché è inesprimibile, né può essere oggetto di alcuna conoscenza distintiva; ma è facile comprendere che ciò di cui si tratta è in fondo l’Unione stessa o l’«Iden­tità Suprema», ottenuta nella e per la realizzazione completa e totale di ciò che altre tradizioni chiamano l’«Uomo Universale», poiché lo Yogi, nel vero senso della parola, o l’«uomo trascendente» (tchen jen) del Taoismo, è appunto identico all’«Uomo Universale» [Quest’identità è ugualmente affermata nelle teorie dell’esote­rismo islamico sulla «manifestazione del Profeta»].

     

    XXIV. LO STATO SPIRITUALE DELLO YOGI: L’«IDENTITÀ SUPREMA»

     

    Riprendendo in esame lo stato dello Yogi, che, in virtù della Conoscenza, è «liberato nella vita» (jivan-­mukta) ed ha realizzato l’«Identità Suprema», cite­remo ancora Shankaracharya [Atma Bodha.   Riunendo differenti passaggi di questo trattato, non ci atterremo, in questi estratti, all’ordine rigoroso del testo; d’altronde, in generale, il seguito logico delle idee non può essere esattamente identico in un testo sanscrito ed in una traduzione in lingua occidentale, appunto per le differenze che esistono fra certi «modi di pensare» e sulle quali già spesse volte abbiamo insistito], in merito appunto allo stato dello Yogi ed alle possibilità le più alte che l’es­sere può raggiungere; queste citazioni serviranno con­temporaneamente di conclusione al presente studio.

    «Lo Yogi, il cui intelletto è perfetto, contempla tutte le cose come contenute in se stesso (nel suo pro­prio “Sé”, senza distinzione alcuna di esteriore ed interiore), e così, per l’occhio della Conoscenza (Jnana­-chakshus, espressione che potrebbe essere resa abbastanza esattamente con «intuizione intellettuale»), egli perrcepisce (o meglio concepisce, non razionalmente o discorsivamente, ma per coscienza diretta ed «assenti­mento» immediato) che ogni cosa e Atma.

    «Egli conosce che tutte le cose contingenti (le for­me e le altre modalità della manifestazione) non sono altro che Atma (nel loro principio), e che al di fuori di Atma nulla vi è, «poiché le cose differiscono sem­plicemente (secondo il Veda) in designazione, accidente e nome, come gli utensili terrestri ricevono diversi nomi, quantunque siano soltanto forme differenti di terra» [Vedi Chhandogya Upanishad, 6° Prapathaka, 1° Khanda, shruti 4 a 6]; così egli percepisce (o concepisce, nello stesso senso che più sopra abbiamo specificato) che è lui stesso tutte le cose (poiché non vi è cosa alcuna che sia un essere altro che lui od il suo proprio «Sé») [Notiamo a proposito che Aristotele, nel , espressamente dichiara che «l’anima è tutto ciò che essa conosce»; troviamo in questa asserzione un avvicinamento abbastanza netto fra la dottrina aristotelica e quelle orientali, malgrado le riserve che sempre s’impongono per la differenza dei punti di vista; ma questa affermazione, per Aristotele e per i suoi continuatori, è restata puramente teorica. Si deve dunque ammettere che le conseguenze di quest’idea di una tale identificazione per la Conoscenza, nella realizzazione metafisica, sono restate del tutto insospettate dagli Occidentali, escludendo certe scuole propriamente iniziatiche, che non hanno comune misura con ciò che abitualmente è chiamato «filosofia»].

    «Quando gli accidenti (formali ed altri, che com­prendono tanto la manifestazione sottile quanto quella grossolana) sono soppressi (poiché esistono solamente in modo illusorio ed in verità non sono nulla dinnanzi al Principio), il Muni (qui sinonimo di Yogi entra, con tutti gli esseri (in quanto essi non sono più di­stinti da lui) nell’Essenza che tutto penetra (e che è Atma) [«Il Principio è sopra ogni cosa, è a tutto comune, tutto contiene e tutto penetra; l’Infinità è il suo attributo, il solo col quale si possa specificarlo, poiché non ha un nome che gli sia proprio» (Tchouang-tseu, cap. XXV; trad. del P. Wieger, p. 437)].

    «Egli è senza qualità (distinte), senza azione [Cfr. il «non-agire» della tradizione estremo-orientale]; im­perituro (akshara, non soggetto alla dissoluzione, che pregiudica la sola molteplicità), senza volizione (rife­rita ad un atto definito od a circostanze determinate), tutto Beatitudine, immutabile, senza forma, eternamente libero e puro (poiché non può essere turbato in qualsiasi modo da un altro che lui stesso; quest’altro infatti non esiste, o per lo meno la sua esistenza è illu­soria, mentre lo Yogi è nella realtà assoluta).

    «Egli è come l’Etere (Akasha), diffuso dappertutto (senza differenziazione), e che simultaneamente pene­tra l’interno e l’esterno delle cose [L’ubiquità è qui il simbolo dell’onnipresenza, nel senso già attribuito alla parola]; è incorruttibile, imperituro; egli è sempre lo stesso in tutte le cose (non una modificazione potendo turbare la sua iden­tità), puro, impassibile, inalterabile (nella sua immutabilità essenziale).

    «Egli è (secondo le parole stesse del Veda) «il Supremo Brahma, che è eterno, puro, libero, solo (nella perfezione assoluta), incessantemente pieno di Beatitudine, senza dualità, Principio (incondizionato) di ogni esistenza, conoscente (senza che questa Conoscenza implichi una qualsiasi distinzione fra soggetto ed oggetto, ciò che sarebbe contrario alla «non dualità»), e senza fine».

    «Egli è Brahma, dopo il cui possesso niente può essere ancora posseduto; dopo la cui Beatitudine non vi é punto altra felicità che possa desiderarsi; dopo la cui Conoscenza non vi e un’altra conoscenza che possa essere ottenuta.

    «Egli è Brahma, che, visto (dall’occhio della Conoscenza), nessun altro oggetto può più essere contempplato; poiché, quando si è identificati a Lui, non è più possibile subire alcuna modificazione (come nascita o morte); e, quando Lo si è percepito (ma­ tuttavia non come oggetto percepibile da una qualunque facoltà), niente più vi è da percepire (poiché ogni conoscenza distintiva è allora superata e come svanita).

    «Egli è Brahma, dappertutto ed in tutto diffuso (poiché nulla vi è al di fuori di Lui, tutto essendo necessariamente contenuto nella Sua Infinità) [Ricorderemo ancora questo testo taoista che già abbiamo ci­tato più ampiamente: «Non domandate se il Principio è in questo od in quello; Esso è in tutti gli esseri»... (Tchoang tseu, cap. XXII; trad. del P. Wieger, p. 395)]: nello spazio intermediario, in ciò che è sopra ed in ciò che è sotto (vale a dire nell’insieme dei tre mondi); il vero, pieno di Beatitudine, senza dualità, indivisibile, eterno.

    «Egli è Brahma, affermato nel Vedanta come assolutamente distinto da ciò che penetra (che, invece, non è affatto distinto da Lui, o per lo meno se ne distingue solamente in modo illusorio) [Ricordiamo che questa irreciprocità nella relazione di Brahma e del Mondo implica espressamente la condanna tanto del «pantei­smo» come di qualunque forma d’«immanentismo»], incessantemente pieno di Beatitudine, senza dualità.

    «Egli è Brahma, «da cui (secondo il Veda) è pro­dotta la vita (jiva), il senso interno (manas), le facoltà di sensazione e d’azione (jnanendriya e karmendriya), e gli elementi (tanmatra e bhuta) che compongono il mondo manifestato (sia nell’ordine sottile che in quello grossolano)».

    «Egli è Brahma, in cui tutte le cose sono unite (di là da ogni distinzione, anche principiale), da cui tutti gli atti dipendono (quantunque Egli stesso sia senza azione); perciò è diffuso in tutto (senza divisione, di­spersione, o differenziazione di qualsiasi specie).

    «Egli è Brahma, senza grandezza o dimensioni (in­condizionato), senza estensione (poiché indivisibile e senza parti), senza origine (essendo eterno), incorrut­tibile, senza forma, senza qualità (determinate), senza assegnazione o carattere qualunque.

    «Egli è Brahma, da cui tutte le cose sono illuminate (partecipando alla Sua essenza secondo i loro gradi di realtà), la cui Luce fa brillare il sole e gli altri corpi luminosi, ma che non è punto reso manifesto dalla loro luce [Secondo un testo già precedentemente citato, Egli è «Ciò per cui tutto è manifestato, ma che non è manifestato da nulla» (Kena Upanishad, 1° Khanda, shruti 5 a 9].

    «Egli penetra lui stesso la sua propria essenza eter­na (non differente dal Supremo Brahma), e (simultaneamente) contempla il Mondo intero (manifestato e non-manifestato), come essendo (anche) Brahma, pari­menti che il fuoco penetra intimamente una palla di ferro incandescente e (contemporaneamente) si mostra esteriormente (manifestandosi ai sensi in luce e calore).

    «Brahma non è affatto simile al Mondo [L’esclusione di ogni concezione panteista è qui reiterata; in presenza di affermazioni tanto nette, non riusciamo a spiegarci certi errori d’interpretazione così in voga in Occidente], e niente è al di fuori di Brahma (poiché, se vi fosse alcunché al di fuori di Lui, Egli non potrebbe essere infi­nito); ciò che sembra esistere al di fuori di Lui non può punto avere (una tale) esistenza, purché non la si voglia intendere in modo illusorio, come l’apparenza dell’acqua (miraggio) nel deserto (maru) [Questa parola maru, derivata dalla radice mri, «morire», specifica regioni sterili, interamente sprovviste d’acqua, e più precisamente un deserto sabbioso, il cui aspetto uniforme può considerarsi come un «appoggio» di meditazione per evocare l’idea dell’indiffe­renziazione principiale].

    «Di tutto quello che è visto, udito (percepito o concepito da una qualunque facoltà), niente ha (veramente) esistenza se è al di fuori di Brahma; in virtù della Conoscenza (principiale e suprema), Brahma è contemplato come solo vero, pieno di Beatitudine, sen­za dualità.

    «L’occhio della Conoscenza contempla Brahma, pieno di Beatitudine, tutto penetrante, ma l’occhio dell’ignoranza non Lo scopre punto, non lo scorge affatto, come il cieco non vede la luce sensibile.

    «Il “Sé”, essendo illuminato dalla meditazione (quando una conoscenza teorica, dunque ancora indi­retta, lo fa apparire come se ricevesse la Luce da una sorgente altra che se stesso, ciò che è ancora una distinzione illusoria), e poi, essendo infiammato dal fuoco della Conoscenza (realizzando la sua identità essenziale con la Luce Suprema), è finalmente liberato da tutti gli accidenti (o modificazioni contingenti), e brilla nel suo proprio splendore come l’oro quando è purifi­cato brilla nel fuoco [Si è visto che l’oro stesso è considerato come di natura lu­minosa].

    «Quando il Sole della Conoscenza spirituale sorge nel cielo del cuore (vale a dire al centro dell’essere, de­signato come Brahma pura), esso scaccia le tenebre (dell’ignoranza che vela l’unica realtà assoluta), pene­tra tutto, tutto avvolge e tutto illumina.

    «Colui che ha compiuto il pellegrinaggio del suo Proprio “Sé”, un pellegrinaggio che non concerne la situazione, il luogo od il tempo (né alcun’altra circo­stanza o condizione particolare) [«Ogni distinzione di tempo o di luogo è illusoria; la conce­zione di tutti i possibili (compresi sinteticamente nella Possibilità Universale, assoluta e totale) si compie senza movimenti e fuori del tempo» (Lie tseu, cap. III; trad. del P. Wieger, pag. 107)], che è dovunque [Parimenti, nelle tradizioni esoteriche occidentali, è detto che i veri Rosa Croce si riunivano «nel Tempio dello Spirito Santo, che è dappertutto». - Questi Rosa Croce non hanno, s’intende, nessuna comunanza con le multiple organizzazioni moderne che hanno as­sunto questo nome; si dice che, dopo la Guerra dei Trent’Anni, essi lasciarono l’Europa e si ritirarono in Asia] (e sempre, nell’immutabilità dell’«eterno presente»), nel quale non si sente né il calore, né il freddo (e nemmeno le altre impressioni sensibili od anche mentali), e che procura una felicità permanente ed una liberazione definitiva da ogni turbamento (o da ogni modificazione); colui è senza azione, tutto conosce (in Brahma), e realizza l’Eterna Beatitudine».

     

     

    INDICE DEI TERMINI SANSCRITI

     

    Non siamo obbligati, pei termini sanscriti, a seguire le complicate trascrizioni, più o meno arbitrarie, immaginate dagli orientalisti; ab­biamo adottato un’ortografia corrispondente alla pronunzia nella mi­sura permessa dall’alfabeto latino, il cui esiguo numero di caratteri ci impone d’altronde di rappresentare nello stesso modo parecchie lettere distinte. Inoltre, nell’indice sottostante abbiamo soltanto ordi­nate le parole, così come le abbiamo trascritte, nell’ordine dell’alfa­beto latino, che è naturalmente molto differente da quello dell’al­fabeto sanscrito, ripromettendoci così di evitare, a quelli che non conoscono quest’ultimo, difficoltà del tutto inutili.

     

     





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