• Julius Evola

    SENSO E CLIMA DELLO ZEN

    da: "Vie della Tradizione", II, 1972, 1-9

     

    Si sa dell'interesse che il cosidetto Zen ha suscitato anche fuor dagli ambienti specialistici, da quando D. T. Suzuki lo ha fatto conoscere nei suoi libri Introductiontion to Zen Buddhism, Essays in Zen Buddhism e successivamente tradotti anche in francese. Questo interesse deriva da una specie di incontro paradossale. Per l'Occidentale in crisi lo Zen presenta infatti qualcosa di «esistenzialistico» e di surrealistico. Anche la concezione Zen di una realizzazione spirituale libera da qualsiasi fede e da qualsiasi vincolo e, in più, il miraggio di una «rottura di livello» istantanea e, in un certo modo, gratuita, tale, tuttavia, da risolvere ogni angoscia dell'esistenza, non hanno potuto non esercitare su molti una attrazione particolare. Però tutto questo riguarda, in buona misura, soltanto le apparenze: la «filosofia della crisi» in Occidente, che è la conseguenza di tutto uno sviluppo materialistico e nichilistico, e lo Zen, che per antecedente ha sempre la spiritualità della tradizione buddhista, presentano dimensioni spirituali ben distinte, per cui ogni autentico incontro presuppone, in un Occidentale, o una predisposizione eccezionale, ovvero la capacità di quella metanoia, di quel rivolgimento interno, che riguarda meno «atteggiamenti» intellettuali che non ciò che in ogni tempo e luogo è stato concepito come qualcosa di assai più profondo.

    Lo Zen vale come la dottrina segreta trasmessa. al di fuori delle scritture, dallo stesso Buddha al suo discepolo Mhâkâçyapa, introdotta in Cina verso il VI secolo da Bodhidaarma e poi continuatasi attraverso una successione di Maestri e di «patriarchi» sia in Cina che in Giappone, ove è ancor vivo, ha i suoi rappresentanti e i suoi Zendo (le «Sale della Meditazione»).

    Quanto a spirito, lo Zen può venir considerato come una ripresa dello stesso buddhismo delle origini. Il buddhismo nacque come una energica reazione contro lo speculare teologizzante e il vuoto ritualismo in cui era finita l'antica casta sacerdotale indù, già detentrice di una sapienza sacra e viva. Il Buddha fece tabula rasa di tutto questo; pose invece il problema pratico del superamento di ciò che nelle esposizioni popolari viene presentato come «il dolore dell'esistenza» ma che nell'insegnamento interno appare essere, più in genere, lo stato di caducità, di agitazione, di «sete» e di oblio degli esseri comuni. Avendola lui stesso percorsa senza l'aiuto di nessuno, egli indicò a chi ne sentiva la vocazione la via del risveglio, della immortalità. Buddha, come si sa, non è un nome, ma un attributo, un titolo; significa «lo Svegliato», «colui che ha conseguito il risveglio» o l'«illuminazione». Quanto al contenuto della sua esperienza, il Buddha tacque, ad impedire che, di nuovo, invece di agire ci si desse a speculare e a filosofare. Così egli non parlò, come i suoi predecessori, del Brahman (dell'Assoluto), nè dell'Atmâ (l'Io trascendentale) ma, usò il solo termine negativo di nirvâna, anche a rischio di fornire appigli a coloro che, nella loro incomprensione, nel nirvâna dovevano vedere il «nulla», una ineffabile e evanescente trascendenza quasi al limite dell'inconscio e di un cieco non-essere.

    Orbene, nello sviluppo successivo del buddhismo si ripeté mutatis mudis, proprio la situazione contro cui il Buddha aveva reagito; il buddhismo divenne una religione coi suoi dogmi, coi suoi rituali, con la sua scolastica, con la sua mitologia. Esso si differenziò in due scuole, l'una - il Mâhâyâna - più ricca di metafisica e compiacentesi di un astruso simbolismo, l'altra - l'Hinayâna - più severa e nuda nei suoi insegnamenti, ma troppo preoccupata della semplice disciplina morale portata su di una linea più o meno monastica. Il nucleo essenziale e originario, ossia la dottrina esoterica dell'illuminazione, andò quasi perduto.

    Ed ecco che interviene lo Zen, a far daccapo tabula rasa, a dichiarare l'inutilità di tutti questi sottoprodotti, a proclamare la dottrina del satori. Il satori è un avvenimento interiore fondamentale, una brusca rottura di livello esistenziale, in essenza corrispondente a ciò che abbiamo chiamato il «rìsveglio». Però la formulazione fu nuova, originale, presso ad una specie di capovolgimento. Lo stato di nirvâna - il presunto nulla, l'estinzione, già lontano termine finale di uno sforzo di liberazione che secondo alcuni potrebbe richiedere perfino più di una esistenza - viene ora indicato come lo stato normale dell'uomo. Ogni uomo ha natura di Buddha. Ogni uomo è già un «liberato», superiore a nascita e a morte. Si tratta solo di accorgersene, di realizzarlo, di «vedere nella propria natura», formula fondamentale dello Zen. Come uno spalancamento senza tempo - questo è il satori. Per un lato, il satori è qualcosa di improvviso e di radicalmente diverso da tutti gli stati a cui sono abituati gli uomini, è come un trauma catastrofico della coscienza ordinaria; nel contempo è ciò che riconduce appunto a quel che, in un senso superiore, va considerato come normale e naturale; quindi è il contrario di una estasi o di una transe. È il ritrovamento e la presa di possesso della propria natura: illuminazione, o luce, che trae fuor dall'ignoranza o dalla subcoscienza la realtà profonda di ciò che, da sempre, si fu e che mai si cesserà di essere, qualunque sia la propria condizione.

    La conseguenza del satori sarebbe una visione completamente nuova del mondo e della vita. Per chi lo ha avuto, tutto è lo stesso - le cose, gli altri esseri, sè medesimo, «il cielo, i fiumi e la vasta terra» - eppure tutto è fondamentalmente diverso: come se una dimensione nuova si fosse aggiunta alla realtà e ne avesse trasformato completamente il significato e il valore. Secondo quanto dicono i maestri dello Zen, il tratto essenziale della nuova esperienza è il superamento di ogni dualismo: dualismo fra dentro e fuori, fra Io e non-Io, fra finito e infinito, fra essere e non essere, fra apparenza e realtà, fra «vuoto» e «pieno», fra sostanza e accidenti - e altresì indiscernibilità di ogni valore posto dualisticamente dalla coscienza finita e offuscata del singolo, sino a dei limiti paradossali: sono una stessa cosa il liberato e il non-liberato, l'illuminato e il non-illuminato, questo mondo e l'altro mondo, colpa e virtù. Lo Zen riprende effettivamente l'equazione paradossale del buddhismo Mâhâyâna: nirvâna =samsâra e quella del taoismo: «l'infinitamente lontano è il ritorno». È come dire: la liberazione non è da cercarsi in un aldilà; questo stesso mondo è l'aldilà, è la liberazione, nulla ha bisogno di essere liberato. Il punto di vista del satori, della illuminazione perfetta, della «sapienza trascendente» (prajñâpâramitâ), è questo.

    In essenza, si tratta di uno spostamento del centro di sé. In qualsiasi situazione e in qualsiasi avvenimento della vita ordinaria, anche nei più banali, il posto del senso comune, dualizzante e intellettualistico di sé viene preso da quello di un essere che non conosce più un Io contrapposto ad non-Io, che trascende e riprende i termini di ogni antitesi, tanto da godere di una perfetta libertà e incoercibilità: come quella del vento, che soffia dove vuole, ed anche dell'essere nudo che, proprio perchè «ha lasciato la presa», (altra espressione tecnica), perchè ha abbandonato tutto («povertà»), è tutto e possiede tutto.

    Lo Zen - almeno la corrente predominante dello Zen - insiste sul carattere discontinuo, improvviso, imprevedibile della dischiusura del satori. Con riferimento a ciò, il Suzuki era andato oltre il segno nel polemizzare contro le tecniche in uso nelle scuole indù, nel Sâmkhya e nello Yoga, ma contemplate anche in alcuni dei testi originari del buddhismo. La similitudine è quella dell'acqua che ad un dato momento si tramuta in ghiaccio. Viene anche data l'imagine di una soneria che ad un dato punto, per una qualche scossa, scatta. Non vi sarebbero sforzi, discipline o tecniche che da per sè possano condurre al satori. Si dice, anzi, che talvolta esso interviene ad un tratto, quando abbiamo esaurito tutte le risorse del nostro essere, soprattutto del nostro intelletto e della nostra capacità logica di comprensione. Altre volte sensazioni violente, perfino un dolore fisico, possono propiziarlo. Ma la causa può essere anche la semplice percezione di un oggetto, un fatto qualunque dell'esistenza ordinaria, data una certa disposizione latente dell'animo.

    A tale riguardo, possono però nascere degli equivoci. Si è che, come riconobbe lo stesso Suzuki, «in genere non sono state date indicazioni sul lavoro interiore che precede il satori». Egli, comunque, parla della necessità di passare, prima, per un «vero battesimo del fuoco». Del resto, la stessa istituzione delle cosidette «Sale di Meditazione» dove coloro che vogliono raggiungere il satori si assoggettano ad un regime di vita analogo, in parte, a quello di alcuni Ordini cattolici, indica la necessità di una preparazione preliminare, la quale anzi può prendere un periodo di molti anni. L'essenziale sembrerebbe consistere in un processo di maturazione, identico a quello dell'avvicinarsi ad uno stato di estrema instabilità esistenziale, dato il quale basta un minimo urto per produrre il cambiamento di stato, la rottura di livello, l'apertura che conduce alla «visione folgorante della propria natura». I Maestri conoscono il momento in cui la mente del discepolo è matura e l'apertura è sul punto di prodursi; allora essi danno, eventualmente, la spinta decisiva. Talvolta può essere un semplice gesto, una esclamazione, qualcosa di apparentemente irrilevante, perfino di illogico, di assurdo. Ciò basta a produrre il crollo di tutta la falsa individualità e, col satori, subentra lo «stato normale», si assume il «volto originarìo», «quello che si aveva prima della creazione». Non si è più dei «cacciatori di echi» e degli «inseguitori di ombre». Viene di pensare, in alcuni casi, ad un analogo del motivo esistenzialista del «fallimento» o «naufragio» (das Scheitern - Kierkegaard, Jaspers). Infatti, come si è accennato, spesso l'apertura avviene appunto quando si sono esaurite tutte le risorse del proprio essere e, per così dire, si è messi con le spalle al muro. Lo si può vedere in relazione ad alcuni metodi pratici di insegnamento dello Zen. Gli strumenti più usati sul piano intellettuale sono i kôan e i mondo; il discepolo viene messo dinanzi a dei detti o a delle risposte di un genere paradossale, assurdo, talvolta grottesco o «surrealistico». Vi deve logorare la mente, se necessario per anni interi, fino al limite estremo di ogni facoltà normale di comprensione. Se, allora, si osa fare ancora un passo avanti, può prodursi la catastrofe, il capovolgimento, la metanoia. Si ha il satori.

    In pari tempo, la norma dello Zen è quella di una autonomia assoluta. Niente dèi, niente culti, niente idoli. Svuotarsi di tutto, perfino di Dio. «Se sulla tua via incontri il Buddha, uccidilo» - dice un Maestro. Occorre abbandonare tutto, non appoggiarsi a nulla, andare avanti, con la sola essenza, fino al punto della crisi. Dire qualcosa di più sul satori e fare un confronto fra esso e le varie forme di esperienza mistica e iniziatica d'Oriente e d'Occidente, è molto difficile. Avendo accennato ai monasteri Zen, vale rilevare che in essi vi si trascorre solo il periodo della preparazione. Chi ha conseguito il satori, lascia il convento e la «Sala della Meditazione», torna al mondo scegliendosi la via che più gli conviene. Si potrebbe pensare che il satori sia una specie di trascendenza che allora si porta nell'immanenza, come stato naturale, in ogni forma della vita.

    Dalla nuova dimensione che, come si è detto, in seguito al satori si aggiunge alla realtà, procede un comportamento per il quale potrebbe valere la massima di Lao-tze: «Essere interi nel frammento». In relazione a ciò, è stata rilevata l'influenza che lo Zen ha esercitato sulla vita estremo-orientale. Fra l'altro, lo Zen è stato chiamato «la filosofia del Samuraj» e si è potuto affermare «la via dello Zen è identica alla via dell'arco» o «della spada». Si vuol significare che ogni attività della vita può essere compenetrata di Zen e così elevata ad un significato superiore, ad un'«interezza» e ad una «impersonalità attiva». Un senso di irrilevanza dell'individuo che non paralizza ma assicura una calma e un distacco che permette una assunzione assoluta e «pura» della vita, in dati casi sino a forme estreme e tipiche di eroismo e di sacrificio, che per la maggioranza degli Occidentali sono quasi inconcepibili (vedi il caso dei Kamikazé nell'ultima guerra mondiale).

    E' uno scherzo ciò che dice lo Jung, ossia che, più di qualsiasi corrente occidentale, è la psicanalisi che potrebbe capire lo Zen, perchè, secondo lui, l'effetto del satori sarebbe la stessa interezza priva di complessi e di scissioni a cui presume di giungere il trattamento psicanalitico quando rimuove le ostruzioni dell'intelletto e le sue pretese di supremazia, e ricongiunge la parte cosciente dell'anima con l'inconscio e con la «Vita». Lo Jung non si è accorto che nello Zen, sia il metodo che i presupposti stanno all'opposto dei suoi: non esiste «inconscio» come una entità a sè, a cui il conscio debba aprirsi, ma si tratta di una visione supercosciente (l'illuminazione, la bodhi o «risveglio») che porta in atto la «natura originaria» luminosa e distrugge, con ciò, l'inconscio. Tuttavia ci si può tenere al sentimento di una «totalità» e libertà dell'essere che va a manifestarsi in ogni atto dell'esistenza. Un punto particolare è però di precisare il livello a cui ci si riferisce.

    In effetti, specie nella sua esportazione fra noi, si sono avute delle tendenze ad «addomesticare» o moralizzare lo Zen velandone, anche sul piano della semplice condotta di vita, le possibili conseguenze radicaliste e «antinomistiche» (= di antitesi alle norme vigenti.) e insistendo invece sugli ingredienti obbligatori degli «spiritualisti», sull'amore e sul servizio al prossimo, sia pure purificati in una forma impersonale e asentimentale. In genere, sulla «praticabilità» dello Zen, non possono non nascere dei dubbi, in relazione al fatto che la «dottrina del risveglio» ha un carattere essenzialmente iniziatico. Così essa non potrà mai riguardare che una minoranza, in opposto al buddhismo più tardo il quale prese la forma di una religione aperta a tutti oppure di un codice di semplice moralità. Come ristabilimento dello spirito del buddhismo originario, lo Zen avrebbe dovuto tenersi ad un esoterismo.

    In parte, lo ha fatto: basta riandare alla leggenda delle sue origini. Tuttavia vediamo che lo stesso Suzuki è stato incline a presentare in modo diverso le cose e ha valorizzato quegli aspetti del Mahâyâna che «democratizzano» il buddhismo (del resto. la denominazione «Mahâyâna» è stata interpretata come il «Grande Veicolo» anche nel senso che sarebbe adatto per ampie cerchia, non per pochi). Se si dovesse seguirlo, nascerebbero delle perplessità sulla natura e sulla portata dello stesso satori; sarebbe cioè da chiedersi se una tale esperienza riguardi semplicemente il dominio psicologico, morale o mentale o se investa quello ontologico, come ne è il caso per ogni iniziazione autentica, della quale può però esser quistione solo per un assai piccolo numero.





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