• Evola e la critica della modernità

    Convegno "Evola dadaista e antimoderno", Roma, 25 settembre 1998


    Il pensiero di Julius Evola è certamente poco conosciuto - se s'intende la cittadinanza "ufficiale" o accademica - e ingiustamente misconosciuto; ma, al tempo stesso, è stato fatto oggetto di disamine anche minuziose e di ricostruzioni complete, senza - come è inevitabile - poter sfuggire alle tentazioni di appropriazione (o di stroncatura) da parti diverse. Sotto questo profilo, Evola parrebbe condividere la sorte di altri grandi pensatori del Novecento che fino a tempi recentissimi hanno subito l'ostracismo della cultura imperante per cause ideologiche: Spengler, Jünger, Schmitt, i pensatori della Rivoluzione conservatrice; e prima ancora, Nietzsche e Heidegger. Tuttavia, una certa fretta, se non di sbarazzarsi, almeno di rendere innocuo o museale il pensiero evoliano, forse la si può riscontrare anche nell'area che dovrebbe essergli (ideologicamente) più omogenea: la definizione di «mito incapacitante» (Tarchi), l'indicazione del pericolo "solipsista" comportato dalla prospettiva "ideale" della Tradizione1[1], fino a una sorta di censura da parte dell'apparato del partito Alleanza Nazionale. Se le "ragioni" di emarginazione da parte della cultura egemone (salvo qualche isolata, notevole, eccezione) sono ampiamente note ancorché non più giustificabili oggi, alcuni motivi di diffidenza da parte di chi Evola lo legge a partire da una concezione del mondo non storicista mi paiono degni di essere discussi. Accennerò in breve ad alcuni temi filosofici che possono fungere come cartine di tornasole nell'interpretazione della modernità: la concezione del tempo e del soggetto, il lavoro, il ruolo della Tradizione nell'epoca contemporanea.

    1. Frammenti di modernità: il significato delle avanguardie

    Prendiamo le mosse dai notevoli scritti evoliani sull'arte di avanguardia. Appare altamente significativa la "scelta" evoliana a favore di Dada in un'Italia massicciamente dannunziana e futurista: nessun estetismo superomistico o eroicizzante, nessuna indulgenza verso vene decadentiste presenti in tanta letteratura dell'epoca; ma nemmeno lo scontato allineamento sul marinettismo, destinato a diventare una poetica di regime. Dada versus Futurismo è molto di più e di altro che una questione meramente estetica, dettata dal desiderio avanguardistico della sperimentazione iconoclasta: è qui che si apre una prospettiva evoliana di lunga durata e di una non sottovalutabile portata di pensiero. In un articolo pubblicato su «La Torre» nel 1930, intitolato significativamente Simboli della degenerescenza moderna: il Futurismo2[2], Evola afferma che il futurismo, ben di più che fenomeno circoscritto di un'avanguardia artistica3[3], è «una cosa terribilmente presente e in atto», caratterizzante l'essenza dell'epoca finale: è quel «divenirismo»che connota la temporalità moderna, la smania di cambiamento e d'innovazione fine a se stessa, la distruttività gratuita che diventa demolizione di ogni superiore principio spirituale, il misticismo della materia e dell'elementare. Futurista, cioè, è la modernità, anzi la forma dell'umanesimo moderno che persegue le prestazioni materiali e fisiche, i record, la quantità, l'accelerazione, il macchinismo, l'automazione, l'enfasi dell'istintualità e della brutalità. La retorica futurista, al di là delle realizzazioni artistiche che schiudono la dimensione dell'arte d'avanguardia, è la traduzione estetizzante del moto più proprio dell'epoca moderna: l'accelerazione e la spersonalizzazione tecnica: «L'attualità del futurismo [...] sta in ciò che nel futurismo riflette ed esprime tipicamente il movimento dello spirito che tradendo se stesso s'immedesima con la forza bruta del divenire e della materia, mutando il senso di sé con l'ebbrezza e la vertigine che ritrae da questa sua perdita»4[4]. Tre temi di dissenso dal futurismo che fanno propendere Evola per il dadaismo sono di particolare interesse: l'istintività, il dinamismo, la vitalità primordiale, contrapposti all'«assoluta mediazione» del dadaismo; l'enfasi sulla macchinicità, l'algida bellezza della macchina, la perfezione astratta e metallica che fino a Le Corbusier sarà celebrata come l'autentica emancipazione - estetica ma anche etica - del moderno, l'accelerazione e la simultaneità che fanno dell'uomo un meccanismo anziché un essere spirituale; e l'accondiscendenza alla prepotenza delle passioni politiche («la chiassata, l'ode per la pedata e per il pugno, la mistica della spiritualità sportiva e del successo»5[5], ma anche il nazionalismo e l'interventismo) cui si contrappone il «potenziamento massimo del principio individuale»6[6], il formalismo assoluto in cui si scandisce «il ritmo di una pura libertà interiore»7[7], coscienza astratta simile all'«interiorità atona e gelidamente ardente di un Ruysbroeck e di un Eckhart»8[8]. In altri termini, il futurismo è emblematico della «degenerescenza» in quanto porta a compiuta visibilità, tanto da farne anche una retorica pubblicitaria, quella che si potrebbe chiamare «la spiritualità rovesciata» del moderno, culminante nell'idoleggiamento della tecnica, i cui tratti fisiognomici sono da Evola sintetizzati nell'elementare (la primordialità istintuale, la meccanicità, la volontà del dominio). Non si tratta di scambiare ingenuamente l'era tecnica per l'avvento di un mondo nuovo, bensì di oltrepassare la modernità e la storia in quanto tali: «L'automobile al posto della Nike samotrace è evidentemente una umanità al posto di un'altra; e non sono da superarsi le umanità, bensì l'umanità»9[9]. Questi temi, insieme con i motivi aristocratici dell'opposizione al futurismo "plebeo", adatto alle bassure della massa, l'insistenza sull'individualità della via di ricerca spirituale contrapposta all'accrescimento quantitativo e materiale, all'agonismo e a tutto ciò che presuppone la partecipazione alla dimensione collettiva, sono questioni di ascendenza nietzschiana che si trovano, nella stessa epoca, approfonditamente meditati dalla cultura tedesca (in particolare da Spengler, Benn, Jünger e soprattutto Heidegger) e non altrettanto in quella italiana10[10]: è l'orizzonte del nichilismo in cui la tecnica domina incontrastata, nell'affermazione di quel Regno della Quantità che realizza la promessa progressista dello storicismo. Nichilistica - ossia non in grado di scorgere la chiusura dell'epoca e la necessità del suo oltrepassamento - è dunque per Evola l'apologia della velocità, dell'innovazione, del consumo: come per Jünger, al di là del moto rapinoso (e rovinoso) della tecnica, occorre vederne il «centro immobile» e collocarsi in esso11[11]. Il che vuol dire combattere l'appiattimento illuministico di ogni dimensione spirituale e "altra" nella materialità del misurabile: riconoscere nell'elementare la cifra della civilizzazione che si pretende compiutamente emancipata dalle superstizioni e dalla naturalità, è smascherare gli idoli futuristici come estetizzazione di una potenza dissolutrice di ogni trascendenza, ma anche dell'umano stesso.

    2. Il paesaggio di rovine

    Il "superamento" dell'umano propiziato dalla tecnica è quello che, con sguardo veggente, prefigura l'Operaio di Ernst Jünger. La "figurazione" del paesaggio da officina realizzata in quest'opera ha quei tratti scabri e taglienti che Cavalcare la tigre accosterà alla Nuova Oggettività: «tutto ciò che è pura realtà e oggettività, che appare freddo, inumano, minaccioso, privo di intimità, spersonalizzante, 'barbarico'»12[12]. È il tipo dell'Operaio, sostituitosi all'individualità borghese, che rappresenta la sostanza elementare del nuovo mondo. L'elementare ha definitivamente varcato le mura della razionalità borghese (illuministica) e l'irrazionale si insedia nel cuore della Ragione dell'Occidente nella figura del suo massimo trionfo: la Tecnica. Ma poiché, jüngerianamente, la tecnica è il mezzo con cui la figura dell'Operaio mobilita il mondo, il Lavoro è destinato ad assumere portata e connotazioni inedite, - la «superstizione moderna del lavoro»13[13] - quasi una nuova e più cogente naturalità cui non sfugge aspetto alcuno dell'esistenza, e che uniforma potentemente il mondo, rendendolo "univoco", plasmato nell'impronta di un unico conio, parlato da un'unica "lingua primordiale" che si sostituisce all'idea di razionalità, di progresso, di utilità: la tecnica moderna. Nella sua lettura dell'Operaio, Evola radicalizza (o rettifica) la posizione jüngeriana: se occorre che la tecnica trovi un limite nell'ordine che dovrebbe riuscire ad imporle il Tipo, avviandosi «verso un mondo nuovo della stabilità e del limite, quindi, in un certo modo, verso un nuovo classicismo dell'azione e del dominio, dove significati d'ordine superiore dovranno esprimersi attraverso la nuova lingua meccanica integrata, divenuta univoca perché fissata in uno stato di perfezione» [14]. Evola non manca di sottolineare una certa utopicità della prospettiva jüngeriana, rivelata dalla sua mancata realizzazione e dalla crescente pericolosità dei ritrovati tecnici, quel "titanismo" catastrofico che lo stesso Jünger denuncerà nelle opere successive.Anche quella sorta di disciplina ascetica che forgia il tipo dell'Operaio non può, a parere di Evola, essere valutata come qualcosa di positivo e oltrepassante in sé, al di fuori del riconoscimento del suo orientamento: occorre sapere se la dissoluzione dell'individualità borghese conduce in direzione di un ulteriore sprofondamento e disgregazione elementare oppure verso dimensioni superpersonali. Lo svelamento jüngeriano della crescente e costitutiva elementarizzazione di un'epoca "futurista", del volto arcaico e regressivo della tecnica moderna, non può prescindere da una valutazione della qualità dell'elementare con cui il lavoro tecnico mette a contatto, soprattutto in un mondo ormai sprovvisto di saperi relativi adeguati: anticipando le riflessioni posteriori dello stesso Jünger14[15], Evola nota come «l'elementare può anche prorompere conservando le sue valenze negative, perfino demoniche; [...] possibilità sufficientemente attestata dai tempi ultimi, con inclusa la seconda guerra mondiale»15[16]. Ogni criterio di legittimità che non preveda la capacità di padroneggiare questa dimensione è insufficiente: perciò né l'Operaio né i tecnocrati, che al massimo possono limitarsi al dominio sui mezzi e sullo sviluppo tecnico, appaiono all'altezza dell'inedito compito epocale16[17]. Su questo punto, come del resto su altri, esiste una significativa vicinanza fra le posizioni evoliane e quelle dell'opera complessiva di Jünger (anche se probabilmente non dell'Operaio considerato a sé): la tecnica e la scienza moderne sono espressioni della volontà di dominio, del frenetico attivismo della volontà di potenza, e in quanto tali sono antitetiche ad ogni spiritualità orientata alla trascendenza. Perciò l'idea stessa di limite è qualcosa che ripugna alla mentalità faustiana dell'Occidente, così come la tecnica moderna è necessariamente distruttiva e iconoclasta. Se dunque il lavoro dell'Operaio mira alla mobilitazione delle potenze della realtà, è problematico scorgere in quale modo «possa tornare a rivelarsi e a farsi valere concretamente una dimensione spirituale, sacrale o metafisica, della realtà in una umanità che concepisce l'universo in puri termini di scienza moderna e di tecnica, quindi in un modo disanimato»17[18]. Questo «spazio spirituale vuoto»18[19], altro non è che l'orizzonte desertico - disertato dal divino - del nichilismo tecnico, che trova le sue icone nell'algidezza scostante dell'estetizzazione razionalistica, non a caso scaturita da quell'iniziale rivolta futuristica e astratta contro i residui delle tradizioni passate. La tabula rasa futuristica è soltanto l'inizio del gelo metallico del razionalismo funzionale alla pervasività plasmante della tecnica: ma ha il merito di mostrarne, con gli aspetti più chiassosi e iconoclasti, l'occulta radice elementare, ir-razionale, dissolutoria, che permane e agisce anche là dove parrebbe che i grandi e capillari sistemi d'ordine del mondo del lavoro l'abbiano definitivamente liquidata. I Lumi rischiarano il mondo di luce sinistra19[20].

    3. L'enigma della Tradizione

    È indubbio che Evola, con la multiformità della sua azione culturale, abbia inteso innanzitutto fornire un orientamento per un'epoca nella quale l'idea stessa di punti di repere e di direzione è diventata obsoleta, quando non apertamente dileggiata in nome dell'emancipazione mondialista20[21]. Orientare è un'azione diversa dal muoversi all'interno di punti certi di riferimento, stelle fisse in un firmamento immutabile. Non certamente che l'immutabilità del firmamento sia venuta meno, ma il nostro punto di osservazione è cambiato, o forse piuttosto non siamo più in grado di vedere nitidamente, né sappiamo dove guardare. Il cielo è diventato il disanimato spazio siderale in cui gettare le scorie che la Terra non riesce più a contenere, e la terra altro non è che un suolo occluso e depredato, o forse ormai solo un ricordo nella proliferazione delle dimensioni virtuali. In questo quadro sta il grande problema dell'attualità della Tradizione, le cui interpretazioni danno luogo a posizioni diverse che, insieme considerate, possono ricomporre il suo significato universale. Non è mia intenzione ripercorrere l'interpretazione evoliana della questione, impresa del resto da altri eccellentemente compiuta secondo varie prospettive21[22], tuttavia la relazione fra modernità e Tradizione, in Evola, merita attenzione. Marcello Veneziani ha scritto che il pericolo che insidia il pensiero evoliano sarebbe il solipsismo conseguente al riferimento a una Tradizione senza più efficacia, senza riti, senza templi, senza riferimenti presenti: in questo, Evola sconterebbe una crisi simile a quella di altri esponenti della rivoluzione conservatrice, come Jünger, Benn e Spengler, «la crisi di una trascendenza che ha perduto Dio, di un verticalismo che ha perduto il vertice, di un eroismo che ha perduto gli eroi, di un Olimpo che ha perduto gli dèi, di una Tradizione che ha perduto i templi»22[23]. Da qui, dal necessario doversi riferire all'idea più che alla situazione reale, proverrebbe l'inclinazione evoliana all'apolitìa o la figura del Waldgang jüngeriano, l'elogio della solitudine aristocratica che trascurerebbe il luogo ("la patria") in cui vive.
    Altri, sostenendo la modernità di Evola, si chiedono se la condanna evoliana dell'epoca attuale non sia in contraddizione con la stessa dottrina tradizionale del progressivo allontanamento dal Principio. L'interrogativo sotteso ad entrambi è il medesimo: è legittima la critica al mondo moderno nella prospettiva tradizionale? E questa non cozza paradossalmente contro la necessità di prendere una posizione trasformatrice? L'interrogativo travalica il pensiero di Evola e ricade su tutto il pensiero del Novecento che ha posto la domanda, da un punto di vista non storicista, circa il problema della destinalità del moderno e della necessità del suo oltrepassamento, dischiusa dal grande interrogativo nietzschiano conseguente alla morte di Dio e allo spalancamento dell'abisso del nichilismo. È la stessa questione che tracima dalle pagine del Tramonto dell'Occidente, dal problema di quale comportamento tenere in una fine che comunque avverrà, in base alle legge inesorabile di una ciclicità che stronca le illusioni progressiste e demiurgiche dell'uomo faustiano. La riflessione e la battaglia culturale evoliane mostrano esemplarmente quale possa essere il modo di restare in piedi in mezzo alle macerie della civiltà, in nome di una Tradizione che si è oscurata e ritratta nel silenzio e nell'enigmaticità. Diversamente forse dalla posizione di Guénon, Schuon, Burkhardt, Evola assume radicalmente il punto di vista dell'estrema modernità, di una dissoluzione registrata senza più potersi rifugiare o avere la certezza di una forza spirituale vigente. È possibile che in questo estremo disincanto della diagnosi evoliana agiscano le prospettive dei pensatori della rivoluzione conservatrice più affini, una certa "inflessione" tedesca della filosofia che certo manca del tutto in un Guénon. In realtà, a differenza che negli altri autori della Tradizione, vi è nel pensiero di Evola una forte e chiara presenza della riflessione filosofica moderna, Nietzsche in primis, che interagisce con le dottrine tradizionali, e contribuisce a declinarne il possibile significato per i contemporanei. La connotazione kshatriya che è stata riconosciuta alla posizione tradizionale di Evola
    23[24], e che spiegherebbe le differenze rispetto a una maggior "ortodossia" guénoniana o schuoniana, forse trova strumenti ermeneutici e argomentativi anche nella visione più umana e storica della contemporanea filosofia. Ma, anche se il debito più vistoso - perché consegnato a due opere di una certa mole - sembra essere quello con la filosofia italiana coeva (il neoidealismo, Michelstaedter), a dare la specifica tonalità della meditazione evoliana "tradizionale", la sua efficacia ermeneutica nell'epoca finale, mi sembra piuttosto la filosofia che da Nietzsche e dalla sua diagnosi del nichilismo moderno prende le mosse. Questo spiegherebbe anche coerentemente l'attenzione di Evola per autori da lui promossi o introdotti nella cultura italiana24[25]: una sorta di "veicolo" o di preparazione, un esercizio critico e un'educazione del pensiero a quella "fedeltà" la cui perdita costituisce "il mistero della decadenza", l'oscuramento della Tradizione25[26]. Se la Tradizione è destinalmente oscurata, si è allontanata da noi, «la razza dell'uomo sfuggente» rappresenta un'umanità fiera della propria chiusura e abiezione da «ultimo uomo»26[27] nietzscheano, rinserrata fra le muraglie dell'indurimento materialistico, per la quale la perdita del sacro e l'allontanamento del divino non costituiscono problema degno d'interrogazione. A un'umanità inconsapevole della propria miseria estrema, per la quale simboli e riti appaiono tutt'al più come reperti etnografici e museali, del tutto destituiti di efficacia e significato riconoscibile, non è possibile accedere al deposito intatto del sapere della Tradizione, alla meditazione trasformatrice dei suoi simboli. Il moderno, per sua essenza, non può che misconoscere - nella duplice forma della negazione o dell'imbalsamazione museale - il retaggio tradizionale.Attaccarsi alla sua immutabilità, a un dogmatismo interpretativo, dunque, equivale a ribadirne la morte, la mummificazione, e consegnarla al vasto repertorio museale di cui la modernità si serve da alibi per le sue distruzioni. Inoltre, significherebbe non riconoscere l'effettività della dimensione temporale, dunque l'allontanamento dal Principio e il progressivo, necessario, oscurarsi. La Tradizione non è un deposito intatto di forme storiche cui si potrebbe attingere indifferentemente dalla posizione epocale: «non è supino conformismo a ciò che è stato, o inerte continuarsi del passato nel presente»; perciò «non si tratta nemmeno affatto di prolungare artificialmente e violentemente forme particolari legate al passato, malgrado il loro aver esaurito le loro proprie possibilità vitali e il loro non essere più all'altezza dei tempi»27[28]. I principi sono immutabili, mentre le forme storiche in cui si traducono non sono che «espressioni particolari e adeguate per un certo periodo e in una certa area»28[29]. Se dunque la Tradizione per essere viva e operante deve di volta trovare un'adeguata incarnazione storica - secondo un principio che si potrebbe chiamare "geofilosofico" -, la disperazione che fa mantenere attaccati ai residui delle sue attuazioni trascorse (il "tradizionalismo"29[30]) è l'atteggiamento più nichilistico, assieme a quello complementare e opposto che la giudica definitivamente "cosa del passato", morta superstizione da lasciarsi alle spalle, nell'orgoglio di una completa immanenza. «Per garantire una tale continuità, pur tenendo fermo ai principi», occorre invece «abbandonare eventualmente tutto ciò che dev'essere abbandonato, invece di irrigidirsi o di gettarsi allo sbaraglio quasi per panico e di cercar confusamente idee nuove quando si verificano delle crisi o i tempi mutano - questa è l'essenza del vero conservatorismo»30[31]. Se la Tradizione consiste in principi metastorici e dinamici al tempo stesso, che agiscono attraverso manifestazioni eventualmente anche molto differenti fra loro, pur conservando un'unità trascendente, qual è la forma che la Tradizione assume nei tempi ultimi, e i compiti cui ci chiama, nell'Occidente tardomoderno, nell'epoca della mondializzazione?
    È qui che, in prospettiva evoliana, il pensiero non storicista contemporaneo può fornire utili orientamenti a chi voglia comprendere la situazione attuale in direzione di una possibile trasformazione spirituale, e dunque di un pensiero della Tradizione.La situazione dell'umanità contemporanea, che il sapere tradizionale sintetizza nella fase terminale del kali-yuga, del massimo allontanamento dal Principio, della "solidificazione" materialistica, del suo "sfaldamento" e disgregazione, dell'inversione satanica dei significati e dei simboli, è esaustivamente analizzata nel suo carattere "catastrofico", ossia di cesura, "muro del tempo", dai pensatori che prendono le mosse da Nietzsche, tematizzando il carattere di "fine" della modernità intesa come culmine del razionalismo occidentale. I temi della tecnica, del lavoro, della tipizzazione, della morte del sacro, della fuga degli dèi, dell'estrema derelizione in cui questa umanità tracotante e arrischiata si trova, costituiscono un imprescindibile punto di partenza per ogni riflessione che voglia ritrovare un orientamento nel confuso franare e mescolarsi di ogni significato. Per molti versi, anche se questa affermazione suona intollerabile per i filosofi professionali come per i tradizionalisti, il pensiero di Nietzsche, ma soprattutto quello di Heidegger e di Jünger, che rappresentano il culmine speculativo di una più vasta costellazione di pensatori e di pensieri che presero forma nei primi decenni del secolo, soprattutto in area germanica, come espressioni o propaggini di certi filoni della cosiddetta "rivoluzione conservatrice", è accostabile alla prospettiva della Tradizione, quasi a rappresentarne una "traduzione" filosofica ed essoterica
    31[32]. Da questo punto di vista, dunque, questa direzione di pensiero filosofico costituisce la più radicale diagnosi della natura dissolutiva della modernità e dei suoi riferimenti etici e intellettuali: è la forma stessa della Ragione occidentale moderna a contenere tutte le sue possibilità di realizzazione e di dissoluzione, ed è solo comprendendone i limiti che si può cominciare a pensare (e ad agire diversamente), portandola alla sua fine - come auspicava anche Evola.Questo pensiero ci aiuta a comprendere anche perché, pur prendendo atto del costitutivo oscurarsi della Tradizione, del rarefarsi o dell'interrompersi del tradere, non si debba rassegnarsi nichilisticamente o precipitarsi in un'azione cieca: occorre sapere che l'occultarsi della Tradizione, il suo ammutolimento32[33], vanno custoditi come tali, senza illudersi di poter ritrovare la trasparenza dei simboli (come fa, semplicisticamente, il New Age ai nostri giorni). Come ha mostrato esemplarmente Heidegger, il divino, per noi contemporanei, si dà solo nella forma del suo allontanarsi, e satanica e parodica sarebbe ogni pretesa di resuscitare gli antichi dèi, o di riesumare riti e simboli che non hanno alcuna vigenza, poiché, in quanto appartenenti a una costellazione geotemporale determinata, sono necessariamente tramontati. Questo è il contenuto di verità della tecnica moderna, che non lascia in piedi né dèi né templi, ma che essa stessa occulta incessantemente nelle parvenze mirabolanti dei nuovi idoli: l'estremo allontanamento del Principio, l'estrema povertà, il paesaggio delle rovine in cui occorre che singoli differenziati si tengano in piedi. Questa consapevolezza, che ha riconosciuto l'illusorietà, la mistificazione e la rovinosità del pensiero storicistico, della scienza moderna e della tecnica, dalla volontà di potenza dell'uomo occidentale, è l'imprescindibile orientamento per ogni cammino ulteriore, forse anche per riaccostarsi a quel mistero che per i moderni è diventata, necessariamente, la Tradizione e che va custodita come il seme del "nuovo inizio"33[34]. Questa consapevolezza è anche uno spartiacque spirituale, come Evola ha mostrato con abbondanza di dettagli analitici, osservando la degenerazione del gusto e della morale moderna, e insegnando a tener desta l'attenzione anche su quelli che sembrerebbero aspetti marginali e che, invece, tutti, se rettamente interpretati, costituiscono un indice del grado e della forma della disgregazione.Da questo punto di vista, l'esplorazione impietosa dello sterminato paesaggio di rovine della modernità che Evola realizza nei suoi scritti, è accostabile a quelle analoghe tracciate nelle opere di Spengler, Jünger, Benn, Keyserling, e il quadro che risulta dall'intreccio di queste analisi è coerente e unitario. Evola è perfettamente "all'altezza" dei tempi e parla una lingua filosofica spesso in grande anticipo sulla cultura degli addetti ai lavori, impigliati nei loro stessi tenaci pregiudizi ideologici. E, dal canto suo, questo pensiero filosofico converge, nei suoi risultati speculativi, con l'orientamento tradizionale, forse anche più di quanto lo stesso Evola fosse in grado di ammettere34[35]. Non sarà dunque stato un caso se, per gli uni e per l'altro la risposta della cultura egemone sia stata una pesante, livorosa e ostile cappa di silenzio o di denigrazione, che a stento si è cominciata a sollevare negli ultimi anni, da parte di quei pochi che hanno "testimoniato" della Tradizione con il loro orientamento: «Si lascino pure gli uomini del tempo nostro parlare, con maggiore o minore sufficienza e improntitudine, di anacronismo e di antistoria. [...] Li si lascino alle loro 'verità' e ad un'unica cosa si badi: a tenersi in piedi in un mondo di rovine. [...] Rendere ben visibili i valori della verità, della realtà e della Tradizione a chi, oggi, non vuole il 'questo' e cerca confusamente l''altro' significa dare sostegni a che non in tutti la grande tentazione prevalga, là dove la materia sembra essere ormai più forte dello spirito»35
    [36].

    Note:

    (1) - M. Veneziani, Julius Evola tra filosofia e Tradizione, Ciarrapico, Roma 1984, pp. 122 e sgg.

    (2) J. Evola, Scritti sull'arte d'avanguardia, a cura di E. Valento, Fondazione Julius Evola, Roma 1994.

    (3) O «le scemenze da strapaese», di un'Italia «futurista unicamente nello spirito di certi ‘fascisti’ di scarto che all'idea sostituiscono il pugno, al senso critico il proclama, alla cultura lo sport, alla superiorità classica e aristocratica la bravata e il lazzo giovanile» (Ivi, p. 83). 

    [4] Ibidem.

    [5] Ivi, p. 89.

    [6] J. Evola, A proposito di Dada, in Scritti sull'arte d'avanguardia, cit., p. 53.

    [7] J. Evola, Sul significato dell'arte modernissima, in Scritti ..., cit., p. 59

    [8] Ivi, p. 67. 

    [9] J. Evola, Arte astratta, Fondazione Julius Evola, Roma s.d., p. 12

    [10] Può essere interessante confrontare la "politica culturale" evoliana di importazione e divulgazione di autori e temi del pensiero europeo con quella, mossa evidentemente da intenti ideologici opposti e destinata ad avere una lunga ripercussione sulla cultura filosofica ed estetica italiana, di Antonio Banfi negli stessi anni. Cfr. L. Bonesio, L'ombra della ragione. Banfi lettore di Klages, in AA.VV., Soggetto e verità, Mimesis, Milano 1996, per un'analisi della strategia ideologicamente neutralizzante della letture banfiana nei confronti di autori etichettati come «irrazionalisti». 

    [11] «A lato delle grandi correnti del mondo, esistono ancora individualità ancorate nelle ‘terre immobili’ [...]. Essi mantengono le linee di vetta, non appartengono a questo mondo - pur essendo sparsi sulla terra e spesso ignorandosi a vicenda sono uniti invisibilmente e formano una catena infrangibile nello spirito tradizionale. [...] In virtù di essi la Tradizione è presente malgrado tutto" (J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma 1988, p. 441). 

    [12] J. Evola, Cavalcare la tigre, Scheiwiller, Milano 1971, p. 113. 

    [13] J. Evola, Gli uomini e le rovine, Il Settimo Sigillo, Roma 1990, p. 100. Sul tema del lavoro, come sulla «demonia dell'economia», Evola ritorna a più riprese, particolarmente in Rivolta contro il mondo moderno, L'arco e la clava e Gli uomini e le rovine, rimarcandone il carattere di inevadibile asservimento:
    «Se mai vi è stata una civiltà di schiavi in grande, questa è esattamente la civiltà moderna. Nessuna civiltà tradizionale vide mai masse così grandi condannate ad un lavoro buio, disanimato, automatico: schiavitù [...] che viene imposta anodinamente attraverso la tirannia del fattore economico e le strutture assurde di una società più o meno collettivizzata. E poiché la visione moderna della vita, nel suo materialismo, ha tolto al singolo ogni possibilità di conferire al proprio destino qualcosa di trasfigurante, di vedervi un segno e un simbolo, così la schiavitù di oggi è la più tetra e la più disperata di quante mai se ne siano conosciute» (Rivolta ..., cit., pp. 143-144).  

    [14] J. Evola, L'Operaio nel pensiero di Ernst Jünger, Edizioni Mediterranee, Roma 1998, p. 87. 

    [15] Cfr., in particolare, Al muro del tempo (che, com'è noto, fu tradotto dallo stesso Evola con lo pseudonimo di Carlo D'Altavilla per l'editore Volpe), e, in genere, le opere successive alla seconda guerra mondiale. 

    [16] Ivi, p. 121

    [17] «Bisogna pur considerare il caso, che fra gli antagonisti in lotta vi sia invece chi possa rappresentare l'elementare proprio nelle sue valenze negative e oscure, facendo un corrispondente, terribile uso di tutte le possibilità offerte dal mondo della tecnica in ordine al soggiogamento non pure delle forze materiali ma anche dell'uomo» (Ibidem). 

    [18] Ivi, p. 124.

    [19] Ivi, p. 125.

    [20] Il riferimento è al celebre incipit della Dialettica dell'Illuminismo di Horkheimer e Adorno, ma anche alle profonde considerazioni di S. Quinzio in Mysterium iniquitatis, Adelphi. Milano 1995. Sul tema dei sinistri Lumi della modernità, in relazione alla dissacrazione della realtà e della natura in particolare, cfr. L. Bonesio, La terra invisibile, Marcos y Marcos, Milano 1993. 

    [21] Per la discussione di questi temi in riferimento anche alla prospettiva evoliana, cfr. L. Bonesio, Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, Milano 1997. 

    [22] Fra i molti contributi in proposito, cfr. J.-P. Lippi, Julius Evola et la pensée traditionnelle, in Julius Evola, , L'Age d'Homme ("Les Dossiers H"), Lausanne 1997 e G. Ferracuti, Modernità di Evola, in «Futuro Presente» (Julius Evola), 6, 1995; P. Di Vona, Evola Guénon Di Giorgio, SeaR, Borzano 1993. 

    [23] M. Veneziani, op. cit., p. 152. 

    [24] P. es. da Lippi, op. cit. 

    [25] Con la rilevante eccezione del "secondo" Heidegger. 

    [26] J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., pp. 132-133. Sulla fedeltà come principio di responsabilità al proprio compito trascendente, cfr. Cavalcare la tigre, cit., p. 222. 

    [27] Esplicito riferimento all'«ultimo uomo» nietzschiano si trova in Cavalcare la tigre, cit., p. 34 e sgg.  

    [28] J. Evola, Gli uomini e le rovine, cit., p. 19. 

    [29] Ibidem.

    [30] Sul tradizionalismo, si veda, p. es., Gli uomini e le rovine, cit., pp. 198-199. 

    [31] Ibidem. Queste considerazioni dovrebbero ridimensionare la preoccupazione di Veneziani circa il pericolo "solipsista" di Evola: «Questa insidia si ripropone palesemente quando Evola indicando la via da seguire per restare in piedi tra le rovine, informando gli orientamenti esistenziali e metapolitici dell'uomo ‘differenziato’ e fedele alla Tradizione, sostiene che la sua patria ‘dev'essere l'idea’, non la patria reale in cui vive» (Op. cit., p. 122). 

    [32] Lasciando aperta la questione - teoreticamente poco rilevante - se e in quali casi vi sia stata una conoscenza effettiva (anche se non forse "iniziazione") dei principi e delle dottrine tradizionali. Il più interessante, anche per la straordinaria portata del suo pensiero, è il caso di Heidegger. Controverso anche il caso di Jünger: per Evola e altri (Q. Principe, ad es.), egli non avrebbe avuto precisi orientamenti tradizionali; mentre secondo altri studiosi, Jünger, che attraverso la mediazione di Eliade, aveva conosciuto sia il pensiero di Guénon che di Gurdijeff, mostrerebbe precise conoscenze tradizionali e iniziatiche (come alluderebbe la ricorrente figura di Nigromontanus). Cfr., ad es., M. Freschi, Jünger ed Evola: un incontro pericoloso, introduzione a L'Operaio nel pensiero di Ernst Jünger, cit. 

    [33] Peraltro profondamente interpretato da W. Benjamin, soprattutto nel saggio su Franz Kafka (in Angelus novus, tr. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1962). L'uomo differenziato di Evola "sa che in una civiltà come l'attuale è impossibile ripristinare le strutture che nel mondo della Tradizione davano un senso all'esistenza" (J. Evola, Cavalcare la tigre, cit., p. 211). 

    [34] L'espressione è di Heidegger. «Il problema essenziale è piuttosto quello della misura in cui fra il mondo che muore e il mondo che può nascere esisteranno rapporti di continuità: cioè che cosa, dell'un mondo, potrà continuarsi nell'altro. La concezione predominante nell'antico insegnamento tradizionale è che, di fatto, una specie di iato separa un ciclo dall'altro: non si avrebbe un progressivo riprendersi e risollevarsi, ma un inizio nuovo, una mutazione brusca, in corrispondenza ad un fatto d'ordine divino o metafisico» (Rivolta ..., cit., pp. 440-441). 

    [35] - Sulla convergenza dell'indagine evoliana con le filosofie del nichilismo, cfr. G. Malgieri, Modernità e tradizione. Aspetti del pensiero evoliano, Il Settimo Sigillo, Roma 1987

    [36] J. Evola, Rivolta ..., cit., p. 442.





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