• Bonnie Pega
    Alchimia D'Amore



    1

    Liberty Austen non poté fare a meno di notare l'uomo che era appena entrato: pareva decisamente a disagio, come se avesse voluto essere in qualsiasi altro posto tranne che là.
    «Tutto bene?»
    Libby sorrise a Deb Greenley, l'amica che l'avrebbe assistita durante il travaglio e il parto.
    «Io sto bene, ma il bambino è irrequieto» rispose battendo un colpetto affettuoso sul pancione. «Lo conosci?» aggiunse accennando all'uomo fermo sulla soglia. «No. Ma è un bello spettacolo, non ti pare?» Libby si strinse nelle spalle con aria casuale, ma dentro di sé concordava con Deb. L'uomo era alto e imponente, tanto da riempire la porta come un vero gigante. Libby non riusciva a distinguere il colore dei suoi occhi, ma le ciglia che li ombreggiavano erano scure e straordinariamente lunghe. Le labbra sottili e sensuali erano contratte in un sorriso impacciato mentre mormorava qualcosa alla bella donna bionda che gli stava accanto.
    Libby trattenne a fatica un sospiro di delusione: avrebbe dovuto immaginare che era sposato. Gli scapoli non avevano molte ragioni di frequentare un corso di preparazione al parto. D'altra parte, lei non sentiva certo il bisogno di un uomo, quando ancora stava scontando le conseguenze delle azioni dell'ultimo uomo entrato nella sua vita.
    Dopo quattro anni di matrimonio disastroso, era rimasta con la casa, un mucchio di conti da pagare e un pancione in continua crescita, mentre Bobby era scappato a Nassau con la segretaria diciannovenne.
    In fondo, però, si sentiva sollevata: a parte qualche attacco di insicurezza alla prospettiva di allevare un figlio da sola, Libby era più felice di quanto lo fosse mai stata negli ultimi anni.
    Mabel, la giovane donna che teneva il corso, accennò alle bibite e al caffè decaffeinato in un angolo: era il momento di fare una pausa.
    Libby si alzò lentamente e seguì Deb.
    «Non ha l'aria molto felice» osservò in un sussurro cospiratorio.
    «Già. Un vero pesce fuor d'acqua» concordò l'altra con una risatina.

    Zachary Webster osservò la stanza piena di donne incinte e sospirò: avrebbe preferito buttarsi in una piscina piena di squali, o affrontare una torma di aggressivi uomini d'affari. In fondo, grazie al suo lavoro, lo faceva tutti i giorni, no? Qui, invece, si sentiva goffo e impacciato come una balena arenata su una spiaggia.
    Si guardò intorno un'altra volta e la sua attenzione fu attirata da una donna dai lunghi capelli scuri e l'aria tranquilla da Madonna. Si soffermò affascinato sui seni pieni, sulla curva delicata della guancia e su quella prominente dell'addome, poi distolse in fretta lo sguardo.
    «Allora, ti decidi a entrare?»
    Zac si voltò verso la cognata.
    «Sei in debito con me per questo, Hannah» le ricordò.
    «Be', sopravviverai» lo consolò lei prendendolo a braccetto.
    «Avrebbe dovuto esserci Ben, qui con te» brontolò Zac.
    «Ma lui non c'è e tu sì» tagliò corto Hannah.
    Zac si trovò a indugiare ancora con lo sguardo sulla bella Madonna dai capelli scuri e lucenti come una cascata di seta. Proprio il tipo da tenere tra le braccia, ma anche quello che avrebbe potuto buttare all'aria tutti i suoi piani.
    Alla fine della pausa si unirono alle altre coppie e sedettero per terra. Mabel spense le luci e mostrò loro un filmato su un parto naturale. Mentre guardavano la donna in travaglio, Zac sentì una voce femminile bassa e sensuale.
    «Chissà se faccio ancora in tempo a cambiare idea e a chiamare la cicogna.»
    Si voltò per vedere chi avesse espresso quel commento e incontrò gli occhi azzurro cupo della bellissima Madonna. Questa gli rivolse un sorriso timido e si strinse nelle spalle.
    Lui trattenne il respiro: le sue labbra erano morbide e appetitose come una pesca matura. Doveva assolutamente conoscerla.
    «Mi chiamo Zac Webster» sussurrò. «E questa è Hannah.»
    «Liberty Austen... Libby. E questa è la mia amica Deb Greenley, che mi assisterà durante il parto.»
    «Il fratello di Zac mi ha raccontato che da ragazzino ha vomitato quando la loro cagna ha avuto i cuccioli. Non so proprio come farò a trascinarlo in sala parto» raccontò Hannah, maliziosa.
    «Magari con una frusta» suggerì Libby.
    Le tre donne scoppiarono in una risatina di complicità.
    «Ehi, perché non guardate il film, invece di punzecchiarmi?» protestò Zac.
    «Sei tu che dovresti guardarlo» ribatté Hannah. «Potresti imparare qualcosa di utile.»
    «È quello che temo» brontolò Zac volgendosi verso lo schermo.
    Libby continuò a osservarlo: i capelli scuri erano un po' spettinati, come se vi avesse passato le dita in un gesto impaziente. D'improvviso, sentì un bisogno travolgente di affondarvi le mani e si dimenò a disagio.
    Insomma, come poteva pensare a un uomo mentre portava in grembo il bambino di un altro? Certo, lei e Bobby erano divorziati, ma quell'improvvisa attrazione la disturbava ugualmente.
    Tornò a guardare il film: ora la coppia, esausta ma esultante, teneva in braccio il bambino appena nato. Libby respinse a fatica una fitta d'invidia e si sentì gli occhi bruciare per le lacrime. Avrebbe dato qualsiasi cosa per condividere la nascita del figlio con qualcuno che l'amava. Non voleva nemmeno pensare a tutte le altre cose che non avrebbe potuto condividere con quel qualcuno: il primo dentino, la prima parola, i primi passi. Strinse le labbra e scacciò il senso di solitudine che tornava a opprimerla.
    Alla fine del corso un gruppo decise di mangiare un gelato in un locale vicino. Deb si congedò, ma Libby, che non perdeva occasione di assaggiare qualcosa di dolce, andò con gli altri e si trovò a condividere un tavolo con Zac e Hannah.
    Lei e Libby si lanciarono in un'animata conversazione, tipica di due donne che si trovano insieme all'ottavo mese di gravidanza. Parlarono di dottori, nomi per il bambino e caviglie doloranti, discussero di allattamento al seno o con il biberon e paragonarono marche diverse di pannolini.
    In qualche modo, Hannah riuscì a estorcere un gran numero di informazioni a Libby: scoprì che era divorziata, insegnava in una scuola elementare, abitava poco lontano da lei, amava il football, il baseball e le mostre d'arte ed era allergica alle fragole.
    Zac osservò la cognata, divertito e ammirato per la sua abilità di investigatore. Si sentiva sollevato ma anche furioso all'idea che Libby fosse divorziata: furioso perché avrebbe dovuto affrontare da sola un evento come la nascita di un figlio; e sollevato... no, meglio non pensarci.
    Buffo, avevano proprio gli stessi gusti: anche lui amava gli sport e le mostre d'arte e detestava le fragole. Mentre Hannah continuava le sue investigazioni, Zac venne a sapere che Libby adorava i vecchi film e leggeva soprattutto libri di fantascienza e gialli. Sospirò piano: era una vera sfortuna avere tanto in comune con una donna all'ottavo mese di gravidanza!
    «Tu e Zac avete molte cose in comune» osservò Hannah, come se gli avesse letto nel pensiero. «A proposito, hai sentito che Tyler fa una vendita speciale di corredini per neonati? Potremmo andarci insieme sabato» propose.
    «Oh, sì, mi piacerebbe» accettò Libby finendo il proprio gelato al cioccolato.
    «Allora ci sentiamo venerdì per metterci d'accordo. Zac, sono le dieci passate: domani hai una riunione e devi ancora accompagnarmi a casa. Dove hai la macchina, Libby?»
    «Dietro l'angolo» rispose.
    Li guardò sconcertata: possibile che non vivessero insieme? Hannah portava la fede e Zac no, ma molti uomini lo facevano, ormai. Forse erano divorziati, concluse.
    Al pensiero, Libby si sentì subito meglio: Hannah le piaceva molto. Per questo aveva avvertito un lieve senso di colpa a trovare tanto attraente l'uomo che l'accompagnava. Era sorpresa di reagire con tanta intensità a Zac: in quei giorni non si sentiva certo sexy, bensì isolata, spaventata ed enorme.
    Zac fece sedere Hannah in macchina e si offrì di accompagnare Libby fino alla sua. Le mise una mano sotto il gomito e si avviò nella direzione da lei indicata.
    Quando svoltò l'angolo e vide la vecchia, scassata Volkswagen, si fermò di colpo.
    «È quella la tua macchina?» chiese sbarrando gli occhi incredulo.
    Libby si fermò per prendere le chiavi dalla borsa e gli sorrise tranquilla.
    «Sì, perché? Qualcosa non va?»
    «Scusami, ma non puoi guidare un catorcio del genere!» «Perché no? Nonostante l'apparenza, Martha funziona benissimo» la difese Libby. «La tua macchina ha un nome?» trasecolò Zac. «Sì. Che male c'è?» «Oh, niente, niente.»
    Zac guardò lo spazio ristretto tra il sedile e il volante e si chiese come potesse starci, con il suo enorme pancione. Certo, otto mesi prima doveva essere stata sottile e slanciata come un giunco. Chissà come sarebbe stata tra le sue braccia. Fragile e delicata, o forte? Scacciò in fretta quei pensieri: ora si metteva anche a fantasticare su una donna incinta!
    Libby aprì la portiera, sedette al volante e avviò il motore con una serie impressionante di sbuffi e cigolii. «Grazie per avermi accompagnata.» «Sei sicura di arrivare a casa?» «Ma certo. Martha non mi lascerà per strada.» Appoggiato al tettuccio dell'auto, Zac torreggiava su di lei e la faceva sentire minuta e femminile, una sensazione piacevole, che non provava da mesi. Ridacchiò piano e Zac la guardò turbato: gli veniva voglia di farle il solletico per vederla ridere ancora, ma sapeva bene di non potersi permettere simili follie. Aveva il suo lavoro, i suoi progetti da seguire. A quel punto, la cosa migliore era andarsene prima di fare qualche sciocchezza. «Buonanotte» la salutò brusco. Poi girò sui tacchi e si allontanò in fretta, lasciando Libby a fissarlo sconcertata.

    Libby e Deb arrivarono in ritardo alla seduta successiva. Quando entrarono, la classe era già impegnata a esercitarsi nelle tecniche di rilassamento.
    Libby cercò un posto con lo sguardo e Hannah fece loro cenno di avvicinarsi.
    «Temevo che non sareste venute» sussurrò. «La mia macchina si è rotta» spiegò Libby. «Lo sapevo!» esclamò Zac. «Era soltanto questione di tempo. Con un bimbo in arrivo, devi trovare un'auto più affidabile. Hai pensato a quel nuovo modello che...»
    Libby si concentrò sul tono, senza seguire le parole: era rude e dolce allo stesso tempo. Una voce perfetta per sussurrare frasi appassionate a una donna o tenerezze a un bambino.
    Scacciò bruscamente quei pensieri: non doveva lasciarsi andare a simili fantasie su... cos'era, l'ex marito di Hannah? In ogni caso, quest'ultima non si dimostrava certo possessiva nei suoi confronti, anzi, continuava a sottolineare tutte le cose che lui e Libby avevano in comune.
    Ma non era tanto questo a disturbarla, quanto il fatto che Zac le faceva sentire troppo prepotentemente la mancanza di un uomo al suo fianco. In quegli ultimi giorni i suoi seni erano diventati così sensibili... chissà cos'avrebbe provato a premerli contro il petto di un uomo, contro il petto di Zac.
    Libby si impose di concentrarsi sulla lezione di rilassamento, ma presto il ronzio del telefono cellulare di Deb la distrasse. L'amica sorrise con aria di scusa e si ritirò a parlare in un angolo della stanza, poi tornò da lei.
    «Mi dispiace, ma devo andare» annunciò. «Un mio paziente di sedici anni ha perso un dente in una partita di baseball. Questo è il guaio di avere un dentista come assistente per il parto. Posso lasciarti a casa mentre vado all'ospedale.»
    Libby scosse la testa.
    «Sai bene che ti porterei completamente fuori strada. Non preoccuparti, chiamerò un taxi.»
    «Non ce n'è bisogno» intervenne Hannah. «Possiamo portarti Zac e io.»
    «Oh, ma no! Io...»
    «Fantastico!» approvò Deb. «Allora vado. Ci sentiamo più tardi, Libby.»
    Mancavano pochi minuti alla fine del corso, ma a Libby sembrarono interminabili, soprattutto quando Mabel cominciò a parlare di una posizione per fare l'amore senza pesare sull'addome. Inghiottì e si voltò di scatto verso Zac, solo per scoprire che anche lui la guardava. Si girò subito e cercò di assumere un'aria noncurante.
    Mabel passò a descrivere altre posizioni e Libby si dimenò a disagio, decisa a non guardare dalla parte di Zac. Oh, Mabel, ti prego, cambia argomento!, la implorò dentro di sé.
    Come se l'avesse sentita, la giovane donna passò a qualcos'altro: l'orgasmo.
    «Molte donne diventano più sensuali nell'ultimo periodo della gravidanza, a causa dell'aumentata circolazione nella zona genitale.»
    Libby avrebbe voluto trovare una buca per nascondersi. Stava per correre in bagno, quando Mabel tornò a parlare di respirazione.
    Non riuscì a cogliere una sola parola del suo discorso, tant'era occupata a lanciare occhiate in tralice a Zac, che aiutava Hannah negli esercizi. Era così gentile e paziente che Libby si sentì salire le lacrime agli occhi: avrebbe dato qualsiasi cosa per avere un uomo come lui ad assisterla durante il travaglio e il parto. La presenza di Zac la faceva sentire più sola che mai.
    Mentre tornavano a casa rimase in silenzio, totalmente immersa nei propri pensieri fino a che una domanda di Hannah la riscosse.
    «Che cosa, scusa?»
    «Sabato, quando siamo andate da Tyler, non mi hai detto che domani volevi visitare quella mostra d'arte precolombiana?»
    «Sì, è vero. In effetti, penso di andarci domani»
    confermò Libby.
    Hannah rivolse a Zac un sorriso di trionfo.
    «Visto? Te l'avevo detto. Anche Zac voleva andarci domani» proseguì rivolta a Libby. «E io gli ho suggerito di unirsi a te. È vero, Zac?»
    Lui assentì e si offrì di passare a prendere Libby il giorno dopo all'una.
    Lei accettò. Hannah continuò a chiacchierare fino a che non arrivarono davanti a casa sua.
    «Volete entrare a prendere un caffè?» offrì.
    «No, grazie. Domattina ho una riunione piuttosto presto.»
    «No, grazie.»
    Zac e Libby parlarono insieme e Hannah sorrise.
    «Okay, allora. Ci vediamo la settimana prossima, Libby. Ci sentiamo più tardi, Zac. Ciao.»
    Libby si mosse a fatica per prendere posto davanti e gli diede alcune brevi istruzioni per portarla a casa. Poco dopo, giunti a destinazione, lottò un attimo per slacciare la cintura di sicurezza. Si voltò verso di lui in cerca di aiuto proprio mentre Zac faceva lo stesso, e la sua mano le finì sul seno.
    I loro sguardi si incontrarono per un attimo, poi lui abbassò lentamente la mano, carezzandole piano un capezzolo.
    «Allora... a che ora devo passare a prenderti, domani?»
    «All'una, abbiamo detto» rispose Libby impacciata. «Non è necessario che mi accompagni fino alla porta» aggiunse in fretta.
    Aprì la portiera e fece per scendere, ma Zac allungò una mano e le prese tra le dita una lunga ciocca scura.
    «Mi chiedevo se fossero morbidi come sembrano» mormorò. «Lo sono. Ci vediamo domani» finì, tirandosi indietro come se si fosse scottato.
    Libby entrò, si voltò un attimo a salutare Zac, ancora fermo sul vialetto, poi richiuse la porta. Solo allora sentì la macchina che ripartiva. Si appoggiò disfatta alla porta: come la turbava quell'uomo! Riusciva a farla sentire femminile nonostante il pancione!
    Erano solo le nove e mezza, ma decise di fare una doccia e di andare subito a letto. Prese un libro e si distese accanto a Wells, il suo cane, accarezzandogli distratta il pelo folto. Wells sembrava considerare suo diritto distendersi su tre quarti del letto: probabilmente Zac avrebbe fatto lo stesso, pensò all'improvviso. Sembrava un uomo che aveva bisogno di spazio.
    Una donna che dormisse con lui doveva certo accontentarsi di un angolo del letto, ma in cambio avrebbe potuto godere del suo corpo magnifico.
    Libby fece un respiro profondo e respinse quei pensieri. Insomma, era incinta di otto mesi e non trovava di meglio che chiedersi come sarebbe stato Zac a letto! Dopo Bobby, né voleva né aveva bisogno di un altro uomo. L'unica cosa buona uscita dal suo disastroso matrimonio era il bambino, e quello era stato un incidente.
    Aveva annunciato la gravidanza a Bobby e un paio di giorni dopo lui se n'era andato, lasciando una lettera in cui rinunciava a ogni diritto sul figlio. Poco dopo erano arrivati i documenti di divorzio da Nassau.
    Ora erano passati otto mesi ed era estate. Senza la scuola a tenerla impegnata, Libby si preoccupava quasi di continuo della prospettiva di allevare un figlio da sola. Ne sarebbe stata capace? E lo stipendio da maestra elementare sarebbe bastato per lei e il bambino? Il piccolo avrebbe sofferto per la mancanza di una figura maschile in casa? Lei amava già la creatura che portava in grembo, ma non era certa che questo fosse sufficiente per una crescita equilibrata.
    Il piccolo cominciò a scalciare con vigore, come faceva spesso di sera. Libby sorrise e posò una mano sul pancione, sussurrando tenere frasi di rassicurazione fino a che lui non si calmò. Allora voltò una pagina del libro, ma si trovò a pensare a Zac.
    Cambiò posizione e cercò di concentrarsi sulla lettura, e invece ricordò il calore provocato dal suo breve tocco sul seno. Il pancione sussultò: il bimbo aveva il singhiozzo. Libby sospirò e scese dal letto: tra il figlio e Zac, non avrebbe dormito molto, quella notte.

    Avrebbe potuto essere un appuntamento perfetto, pensò Zac fermando la macchina davanti alla casa di Libby: dopotutto stava per passare il pomeriggio con una donna bella e intelligente, dai lunghi capelli neri e gli occhi azzurro cupo. C'era un unico problema: lei era incinta. E lui non voleva bambini. Non gli piacevano e loro lo odiavano.
    Tutto considerato, era meglio limitarsi a un incontro simpatico e casuale, una decisione che svanì nel momento in cui Libby aprì la porta. I capelli neri le arrivavano alla vita, lucenti come seta: erano splendidi e certo ricadevano su un uomo come una cortina, durante l'amore.
    Libby indossava un vestito dello stesso azzurro dei suoi occhi, che metteva in risalto le gambe lunghe, il seno pieno e... il pancione.
    Zac abbassò subito lo sguardo sui suoi piedi, piccoli, graziosi e racchiusi in semplici scarpe basse. Chissà se portava mai sandali dal tacco alto, si chiese incuriosito. «Sei... molto carina» dichiarò. Sta' attento, si ammonì. Era stato sul punto di dirle che aveva un aspetto fantastico.
    Quella donna portava guai, ne era sicuro. Poi lei gli rivolse un sorriso caldo, che andò diritto al cuore. Maledizione, perché Hannah l'aveva trascinato in un simile pasticcio? In realtà lo sapeva fin troppo bene: la cognata gli ripeteva di continuo che doveva mettere su famiglia e inoltre Libby le piaceva. Una combinazione del genere poteva avere effetti veramente pericolosi.
    Certo, Libby piaceva anche a lui. Anzi, a essere sincero, la desiderava. E una simile attrazione per una donna incinta gli pareva quasi sacrilega.


    2

    «Non vedo l'ora di visitare questa mostra» gli confidò Libby salendo in macchina.
    «L'arte precolombiana ti attrae tanto?»
    «Sì, ma soprattutto mi interessa l'esposizione di orchidee che si tiene in contemporanea» rispose lei con occhi scintillanti di entusiasmo.
    «Non me ne hai parlato, l'altra sera» osservò Zac in tono lievemente seccato.
    «Pensavo che lo sapessi.»
    «Be', invece no.»
    Zac strinse più forte il volante: le piante e i fiori non lo interessavano affatto. Occupavano spazio e lasciavano in giro foglie secche e petali. Molto meglio tenere in casa delle piante finte, che comunque contribuivano all'arredamento con un tocco di colore e non procuravano problemi.
    «Le orchidee sono piante carnivore?» chiese.
    Libby lo guardò divertita.
    «Carnivore? Dove hai preso un'idea simile?»
    «Ho letto un racconto di Wells su un'orchidea gigante, che incantava le sue vittime con un profumo meraviglioso e poi le divorava.»
    Gli occhi azzurri di Libby si illuminarono.
    «Ti piace Wells? Anche a me! L'ho sempre adorato e ho dato il suo nome al mio cane. Da ragazzina accendeva la mia fantasia.»
    Un'altra cosa in comune, pensò Zac, colpito. «Faceva lo stesso effetto anche a me» ammise.
    «Quali racconti ti piacevano di più?» chiese Libby, fissandolo con i grandi occhi brillanti.
    «La macchina del tempo. Passavo ore a fingere di viaggiare in un tempo e in uno spazio diversi. Forse c'entrava con il fatto che ero il minore di tre fratelli e le prendevo sempre. E a te?»
    «Oh, io adoravo L'uomo invisibile. Sai, mio padre era un pastore protestante e io desideravo tanto essere invisibile: così avrei potuto ridere, divertirmi e portare le minigonne come tutte le altre ragazzine.»
    «Era tanto severo?»
    «Non poi tanto» ammise. «Ma l'atmosfera di casa non era delle più allegre.»
    «Dove vivevi?»
    «In una cittadina del Maine, vicino a Portland.»
    «E come mai sei finita in Pennsylvania?»
    «Sono andata all'università qui, ho conosciuto Bobby e ci sono rimasta. Quando lui mi ha lasciato, ho pensato di tornare a casa, ma poi ho deciso di restare: ho tanti amici e un lavoro che mi piace.»
    «Hai notizie del tuo ex marito?»
    Libby rimase un attimo in silenzio, come se non volesse rispondere.
    «Ho ricevuto una lettera da Nassau, qualche settimana fa, in cui mi annunciava che aveva sposato la sua ultima fiamma. Non so dove sia adesso.»
    «Sei gelosa?»
    Possibile che fosse ancora innamorata di un uomo che l'aveva trattata tanto male? Ma in fondo, perché se lo chiedeva? Non erano affari suoi.
    «Oh, no! Anzi, mi dispiace per lei: come marito Bobby è un vero disastro.» '
    «Sa del bambino?»
    Libby spiegò l'accaduto e non poté fare a meno di aggiungere una considerazione: «Anche per questo ti rispetto molto».
    Zac parcheggiò la macchina di fronte al museo e la guardò interdetto.
    «E perché mai?»
    «Perché stai vicino ad Hannah e sei disposto ad aiutarla durante il parto, anche se non... non vivete più insieme» spiegò Libby, imbarazzata.
    Zac appariva più confuso che mai.
    «Non abbiamo mai vissuto insieme. Hannah è mia cognata, la moglie di mio fratello Ben. Non avevi capito?» chiese fissandola in modo strano. «Per tutto questo tempo hai creduto che fossimo sposati?»
    Libby ignorò la domanda.
    «Allora ti rispetto ancora di più. E Ben dov'è finito?»
    «Non è dove dovrebbe essere» tagliò corto Zac. «Sarà meglio entrare.»
    Per il resto del pomeriggio lui sembrò sforzarsi di mantenere le cose su un piano distaccato e impersonale, limitandosi a qualche commento banale sulle opere esposte.
    Quella freddezza si attenuò verso la fine, quando giunsero davanti a una collezione di statuette femminili dai seni grossi e il ventre abbondante. Zac le guardò pensieroso, poi rivolse una lunga occhiata a Libby e lei si rese conto che la sua gravidanza lo turbava, e molto.
    «Credo che siano rappresentazioni della dea della fertilità» osservò debolmente.
    «Già» borbottò Zac.
    «Immagino che nelle ultime settimane tu abbia visto abbastanza donne incinte da bastarti per un bel po' di tempo.»
    Zac si strinse nelle spalle e sorrise, ma continuò a fissarla pensieroso. Libby era la donna più attraente e interessante che avesse incontrato, ed era incinta! Chissà che relazione avrebbero potuto avere, senza quel particolare.
    Ma lei aveva un bambino in arrivo e lui la sua compagnia di computer. E questa era quasi come un figlio, in un certo senso: assorbiva tutto il suo tempo e gran parte della sua energia, lo teneva sveglio la notte e non gli lasciava spazio per una relazione, per quanto Libby gli facesse desiderare il contrario.
    Quella donna aveva un fascino e una serenità che lo ammaliavano. Eppure nei suoi occhi aveva colto dei lampi che facevano pensare a una natura passionale, per quanto tenuta accuratamente sotto controllo.
    Uno sguardo al pancione gli ricordò che non era la donna per lui. Allo stesso tempo, la gravidanza la rendeva sensuale. Libby pareva un frutto maturo, dolce e pronto per essere colto.
    Era proprio un peccato, rifletté più tardi, fissando senza vederli i pesci tropicali che nuotavano nell'acquario di casa sua.

    Libby e Deb salutarono Hannah e le fecero cenno di andare a sedersi vicino a loro.
    «Dov'è Zac?» chiese Libby, cercando di assumere un tono disinvolto.
    «In quell'angolo a bere caffè» rispose Hannah indicandolo.
    Non c'era da sorprendersi, rifletté Libby: dal loro unico appuntamento, due settimane prima, Zac aveva fatto di tutto per evitarla.
    Cercò di non sentirsi ferita dal suo evidente disinteresse; era difficile, però, anche perché lui le piaceva immensamente, soprattutto dopo aver scoperto che assisteva la cognata al posto del fratello assente. E questo nonostante il fatto che, secondo Hannah, avrebbe preferito farsi estrarre un dente. Dunque non era solo bello e attraente, ma anche sensibile e generoso. «Com'è andata la visita?» chiese Hannah. «Ha detto che probabilmente ci vorranno altre due settimane, anche se il termine scadrebbe tra pochi giorni. E tu?»
    «Ogni momento è buono, ormai» rispose Hannah. «Zac preferirebbe aspettare ancora un po'» aggiunse con una risatina. «Dice di non sentirsi ancora pronto.» «Pronto a cosa?» chiese Zac avvicinandosi. Il suo sguardo cercò subito Libby: era sempre più bella, nonostante le occhiaie. Evidentemente dormiva male, un evento piuttosto frequente nelle ultime settimane di gravidanza, almeno secondo Mabel. Chissà se qualcuno badava a Libby, si accertava che seguisse la dieta giusta e riposasse adeguatamente.
    «Secondo Hannah, non sei ancora pronto per il bambino.»
    Hannah e Deb si erano unite a un altro gruppo di donne immerse in un'animata conversazione: era come se Libby e Zac fossero soli nella stanza piena di gente, risate e rumori.
    «Be', non riuscirò a esserlo più di così» borbottò Zac stringendosi nelle spalle. «E tu? Sei preoccupata per il travaglio e il parto?»
    «No» rispose Libby con un sorriso sereno.
    Zac sedette sul pavimento accanto a lei e lanciò un'occhiata all'orologio: il corso sarebbe ripreso tra qualche minuto. Aveva un po' di tempo, dunque.
    «E come mai?» le chiese incuriosito.
    «Be', gli esercizi di rilassamento e respirazione che ho fatto qui mi hanno aiutata molto, ma soprattutto penso che il travaglio faccia parte della vita di una donna. Forse...»
    Si interruppe un attimo per cercare le parole giuste, poi riprese.
    «Ecco, forse è un modo fisico per prepararsi ai cambiamenti emotivi legati all'arrivo del bambino.»
    Pareva tutta rivolta in se stessa, concentrata sulla vita che cresceva dentro di lei. Zac osservò affascinato gli occhi azzurri dallo sguardo vago e la mano che carezzava il pancione, come se volesse rassicurare il bambino.
    Senza riflettere, la coprì con la sua. Libby rialzò lo sguardo, poi fece scivolare la propria mano su quella di Zac e se la premette sull'addome. Proprio in quel momento il bambino si mosse e Zac sorrise di slancio.
    Quindi sollevò la mano e le scostò una lunga ciocca scura dal viso, indugiando con le dita sui capelli morbidi e lucenti e sull'orecchio piccolo e ben modellato. Libby sgranò gli occhi turbata e Zac lasciò ricadere la mano, tornando a stringere la tazza di caffè. Respirò di sollievo quando il corso riprese.
    Tuttavia non riuscì a seguire nulla, concentrato com'era su Libby. Io ho i miei progetti, si ammonì, e per i prossimi anni, nella mia vita non ci sarà posto per una relazione, e tanto meno per una moglie e una famiglia. Eppure non poteva negare di desiderarla. Era il bambino ciò che lui non voleva. Dunque, la soluzione migliore era stare alla larga da Libby.
    Hannah però era di tutt'altro avviso. Una volta saliti in macchina, lo informò entusiasta dei propri piani.
    «Libby e io vogliamo provare quel nuovo ristorante italiano vicino al centro commerciale. Ci siamo messe d'accordo per andarci la settimana prossima, prima del corso.»
    «Ma...»
    «Potrebbe essere la mia ultima uscita prima del parto» insistette lei.
    Zac sospirò.
    «A che ora bisogna passare a prendere Libby?»

    «Che cosa ha detto il dottore, questa settimana?» chiese Hannah non appena Libby fu salita in macchina.
    «Pensa che ci vogliano ancora un paio di settimane» sospirò lei.
    «Ma non te l'aveva già detto l'altra volta?»
    «Sì. Ma forse è meglio così, visto che Deb è dovuta andare fuori città per un'emergenza. Suo fratello deve operarsi e lei non potrà tornare prima di due giorni... Ciao» aggiunse salutando Zac.
    Lui sentì nel petto la pressione che sempre provava ogni volta che la vedeva. E il peggio era che questa sensazione cominciava a piacergli.
    «Ciao» rispose con un sorriso forzato.
    «Mmm, non vedo l'ora di provare gli spaghetti!» esclamò Libby. «Adoro il cibo italiano.»
    Anch'io, pensò Zac. Maledizione, un altro punto in comune!
    Durante la cena conversarono del più e del meno, ma verso la fine Libby si fece silenziosa.
    «Non finisci quei gamberetti?» chiese Zac fissando avido il piatto ancora pieno di cibo.
    Libby trasalì e si strofinò la schiena.
    «No. Non ho poi tanta fame. Li vuoi?»
    «Solo se tu non li mangi.»
    «Prendili pure. Ho un dolore alla schiena... Forse per questo ho perso l'appetito.»
    «Zac potrebbe farti un massaggio» propose Hannah.
    L'idea delle sue mani grandi e forti sulla schiena era fin troppo allettante. Libby lo guardò: aveva l'aria scandalizzata, come se non gli sembrasse il caso di fare una cosa simile nel bel mezzo di un ristorante affollato.
    «No, no, non importa» rispose Libby. «Starò meglio, quando potrò alzarmi e muovermi un po'.»
    «Se lo dici tu...» cedette Hannah, poco convinta.
    Libby tentò un sorriso. Non voleva che si preoccupassero, ma in effetti il dolore sordo che l'aveva perseguitata per tutto il giorno stava aumentando di minuto in minuto.
    «Credo sia ora di andare al corso, non vi pare?»
    Gli esercizi di respirazione alleviarono un po' la sofferenza, ma le diedero il sospetto di aver cominciato il travaglio: i dolori non erano regolari, ma continuavano a crescere d'intensità. Non disse nulla a Zac e a Hannah, ma appena arrivata a casa telefonò al ginecologo.
    «Dolori alla schiena» commentò questi. «Con che frequenza li ha sentiti?»
    «È difficile dirlo. Non sono regolari, ma stanno diventando sempre più forti.»
    «Allora vada subito in ospedale. La raggiungo là. E guidi con prudenza: i primi figli, in genere, se la prendono comoda. Quindi si rilassi.»
    Come posso rilassarmi? Sono in travaglio!, esplose Libby. Riappese e si guardò intorno con occhi vacui: aveva tanto atteso quel momento e ora che era arrivato non si sentiva pronta. Suonò il telefono e lei lo prese con mano tremante. Era Hannah.
    «Libby, stasera eri così silenziosa che mi hai preoccupato. Sei sicura di sentirti bene?»
    «In effetti, ho appena parlato con il mio medico: a suo parere ho iniziato il travaglio.»
    «Che cosa?» proruppe Hannah. «Ti mando subito Zac.»
    Riappese prima che Libby potesse dire una parola. Quando il telefono suonò, due minuti più tardi, sapeva che era lui.
    «Hai le doglie?»
    «Credo di sì.»
    «Arrivo subito.»
    Ancora una volta, Libby rimase a fissare il telefono: si sentiva spaventata, nervosa ed eccitata.
    Avrebbe voluto piangere, ridere, andare a dormire e svegliarsi il giorno dopo, a parto avvenuto.
    Non fece niente di tutto questo: non ne aveva il tempo. Zac avrebbe impiegato almeno venti minuti ad arrivare da lei: fece qualche telefonata, portò da basso la valigetta e si avviò in bagno per una rapida doccia.
    Proprio in quel momento arrivò Zac. Ci aveva messo solo dieci minuti! La condusse velocemente alla macchina e avviò il motore.
    «Hai tutto?» chiese scorrendo un taccuino che teneva in mano. «Burro di cacao per le labbra, tavolette energetiche, camicia da notte, vestaglia, corredino per il neonato?» enumerò. «Devi avvertire qualcuno? Sei preregistrata all'ospedale?»
    Lei sorrise, commossa da tanta nervosa sollecitudine. Strano, ma ora non si sentiva più agitata; anzi, le pareva di poter affrontare qualsiasi cosa, con Zac al suo fianco.
    «Ho tutto, ho già fatto le mie telefonate e sono già registrata» rispose tranquilla.
    «Hai chiamato Deb?»
    «Le ho lasciato un messaggio a Boston, ma non so se lo riceverà in tempo.»
    «Vuoi dire che sei in travaglio e Deb è fuori città? E chi ti assisterà, allora?»
    Libby strinse le labbra. Sopportare una cosa intima come il travaglio insieme a un perfetto sconosciuto era il suo ultimo desiderio. Quella era un'esperienza da condividere con qualcuno di speciale. La solitudine che l'aveva accompagnata negli ultimi mesi tornò a opprimerla.
    «Non lo so» rispose esitante. «Forse una delle infermiere potrà aiutarmi.»
    «Insomma, non hai un assistente» riassunse Zac con voce sempre più alta.
    «Non mi sembra di avere molta scelta» osservò Libby, sarcastica. «Potrei sempre proibire al bambino di nascere fino a che non sarà arrivata Deb, ma non credo che mi ascolterebbe. Ehi, sei appena passato col rosso!»
    «Era giallo. Vuoi guidare al posto mio?» la sfidò Zac.
    «È quello che avrei fatto se la mia macchina fosse stata a posto.»
    «Io guido sempre così.»
    «Allora mi meraviglia che la tua macchina sia ancora...»
    Si interruppe di colpo e strinse i denti.
    «Un'altra contrazione?» chiese Zac premuroso.
    «Sì.»
    «Riesci a respirare?»
    «Tranne quando parlo con te.»
    «A che distanza sono le contrazioni?»
    «Le ultime due erano a quattro minuti, ma questa è arrivata dopo otto. Sono ancora irregolari, purtroppo.»
    «Hai chiamato Mabel? Potrebbe farti lei da assistente.»
    «Già provato: non c'era nessuno in casa.»
    Zac si passò le dita nel colletto della camicia: all'improvviso gli pareva troppo rigido e stretto.
    «Be', dovrebbe esserci un'infermiera in grado di aiutarti» borbottò, speranzoso.
    «Oh, sì, ne sono sicura» concordò Libby.
    Ma non pareva affatto sicura. Insomma, tra poco l'avrebbe lasciata in capaci mani professionali, rifletté Zac, e il suo compito sarebbe finito: aveva promesso ad Hannah di portare Libby in ospedale, ma non aveva alcuna intenzione di assisterla durante il travaglio e il parto. Le lanciò uno sguardo in tralice: aveva gli occhi chiusi e respirava profondamente per superare l'ennesima contrazione. In un certo senso, non gli pareva giusto che sopportasse tutto questo da sola.
    Sarebbe arrivato qualcuno, cercò di rassicurarsi. Magari Deb, o Mabel rientrata in casa in tempo. L'avrebbe richiamata una volta raggiunto l'ospedale, decise.

    L'infermiera finì di regolare il monitor che controllava i movimenti del bambino e si voltò per uscire.
    «Deve rimanere qui per venti minuti. Le consiglio di usare il lavoro con le immagini che ha imparato al corso.»
    Zac sedette accanto al suo lettino e distese le lunghe gambe.
    «Allora, da dove vuoi cominciare?»
    Libby lo guardò sorpresa.
    «Vuoi provare il lavoro con le immagini? Ma Hannah mi ha detto che non hai assolutamente fantasia.»
    Zac la guardò offeso.
    «Non è affatto vero. Su, mettiti comoda e ascolta.»
    Libby obbedì sollevata. Dopotutto, doveva restare là per venti minuti ed era curiosa di sapere che tipo di fantasie avrebbe tirato fuori Zac.
    Fin troppo curiosa...
    «Sono pronta» annunciò.
    «Be', dovresti almeno darmi un'idea di partenza.»
    Libby sistemò meglio la testa sul cuscino e lo guardò in faccia: aveva un viso forte e determinato, ma anche rassicurante.
    «Perché non mi sorprendi con qualcosa di tuo?» propose.
    «Va bene. Chiudi gli occhi e rilassati. Siamo in montagna, in un rifugio con un gran camin...»
    Libby riaprì gli occhi e fece una smorfia.
    «Non mi piace il freddo» protestò.
    «Che ne dici di una spiaggia, allora?» chiese Zac.
    «Mmm, mi piace» rispose Libby tornando a chiudere gli occhi.
    «Siamo su una barca a vela da...»
    «Non mi piacciono le barche» lo interruppe lei di nuovo.
    «Ma avevi detto che ti piaceva il mare!» le ricordò Zac, sconcertato.
    «Appunto. Mi piacciono la sabbia bianca, le onde e tutto il resto.»
    «Ma è noioso!»
    Libby riaprì gli occhi e strinse le labbra.
    «Senti, di chi dev'essere la fantasia?»
    Zac sospirò, rassegnato.
    «E va bene. Stai camminando su una spiaggia dalla sabbia calda e finissima. Senti il calore che si irradia dai piedi ai polpacci, alle cosce, a tutto il corpo. Dal mare soffia una brezza fresca, che ti scompiglia i capelli. Fa' un bel respiro... continua a respirare lentamente. Ecco, così.»
    «I dolori stanno diventando più forti» gemette Libby.
    «È naturale» la rassicurò Zac.
    Continuò a descrivere la bellissima spiaggia fino a che non arrivò l'infermiera a staccare il collegamento con il monitor.
    «Posso camminare un po'?» chiese Libby.
    «Sì, certo. Camminare accelererà il travaglio e dovrebbe anche attenuare il dolore alla schiena.»
    Libby sedette sul bordo del letto e guardò Zac.
    «Immagino che ora te ne andrai» mormorò.
    Ti prego, resta con me, lo implorò in silenzio.
    Zac la guardò incerto.
    «Posso rimanere... ecco, fino a che non arriverà qualcun altro. Sono sicuro che Deb o Mabel ce la faranno.»
    Zac aiutò Libby a percorrere il corridoio avanti e indietro; ogni volta che arrivava una contrazione, lei si fermava, afferrava il braccio di Zac e respirava profondamente. Tra un dolore e l'altro pensava a quanto lui fosse forte, gentile e premuroso.
    Dopo una contrazione particolarmente intensa abbassò lo sguardo e notò confusa una pozza ai propri piedi.
    «Oh, oh» mormorò.
    «Che succede?»
    «Credo che si siano rotte le acque.»


    3

    «Il mio taccuino! Dov'è finito il mio taccuino?» esclamò Zac frugandosi freneticamente in tasca.
    Perché mai si preoccupava per quello stupido particolare, mentre lei si ritrovava la camicia da notte fradicia e incollata alle gambe?
    «Chiama un'infermiera mentre io torno in camera» disse Libby, decisa a non farsi prendere dal panico.
    Zac la sostenne e l'aiutò a camminare.
    «Tu mi sorprendi: sei così calma e controllata. Ti ammiro davvero. Ma insomma, sei in travaglio! Un po' di nervosismo è consentito.»
    Lui era nervoso per due, pensò Libby, ma preferì non farglielo notare.
    «Al mondo nascono migliaia di bambini ogni giorno» gli ricordò con una calma che non sentiva. «Non vedo perché perdere la testa. Oltretutto, Hannah mi ha sempre detto che sei un mostro di autocontrollo.»
    «Non sto perdendo la testa» si difese Zac. «Ma non ho mai vissuto un'esperienza simile.»
    «Neanch'io, se è per questo. Quando sarà il turno di Hannah, spero che ti controllerai meglio.»
    «Lo spero anch'io. Comunque, doveva essere Ben a starle vicino» brontolò Zac.
    «E dov'è, adesso?»
    Zac sospirò, esasperato.
    «E chi lo sa? Non ha neanche risposto alla lettera con la quale Hannah gli comunicava di aspettare un bambino. È sempre stato un po' vagabondo, ma non pensavo che fosse anche un idiota egoista.»
    «Dev'essere duro per lei sopportare tutto da sola.»
    «Tu lo stai facendo.»
    «Non ho altra scelta.»
    «E il tuo ex...»
    Si interruppe di colpo quando lei gli strinse forte un braccio. Le cinse la vita, la fece appoggiare al suo petto e prese a parlarle con calma, in un sussurro tenero e rassicurante.
    «Ecco, così... respira piano... brava...»
    Anche quando il dolore fu passato Libby continuò ad appoggiarsi a lui; era così bello avere qualcuno che si prendeva cura di lei, anche se per così poco tempo! Zac colse il suo bisogno e la tenne stretta.
    «Va tutto bene, piccola. Sei bravissima» mormorò. «Sei stanca?»
    «Un po'.»
    «Niente maratone, per il momento, eh?»
    Libby tentò un sorriso, scosse la testa e si aggrappò alla sua camicia.
    «Mi sembra di aver appena corso per chilometri. Cosa farò se non riusciamo a trovare Mabel, e Deb non arriva?» chiese disperata. «Zac, non voglio essere assistita da uno sconosciuto.»
    Stava facendo appello alla sua pietà, lo sapeva, ma a quel punto non le importava. Non voleva accanto nessuno tranne Zac.
    «Non preoccuparti, sistemeremo tutto.»
    «Non posso fare a meno di preoccuparmi. Ti prego, resta con me. So che ti chiedo molto, ma non credo che ce la farei con uno sconosciuto.»
    Zac sospirò rassegnato.
    «Va bene, resterò.»
    Libby gli appoggiò la testa sulla spalla e tornò in camera. Le contrazioni erano sempre più forti e ravvicinate; a mano a mano che si intensificavano, tendeva a chiudersi in se stessa e a concentrarsi sulla respirazione, ma rimaneva sempre cosciente della presenza di Zac, ferma e rassicurante come un balsamo curativo. Avvertiva le sue mani che le massaggiavano gentili la schiena, le sue parole incoraggianti, la sua pazienza.
    Tra una contrazione e l'altra le posava una pezzuola umida sulla fronte, le applicava il burro di cacao sulle labbra screpolate e le infilava i piedi gelati nelle calze. Pareva sapere istintivamente quando Libby aveva bisogno di chiacchiere e distrazione e quando preferiva il silenzio.
    Ora le contrazioni si susseguivano a un minuto di distanza. Zac era stupito che in una situazione simile Libby conservasse la forza e la serenità che l'avevano colpito fin dall'inizio, nonostante le labbra contratte e la fronte imperlata di sudore. Non aveva voluto rimanere, ma ora era contento di esserle vicino.
    «Sono così stanca» gemette Libby all'improvviso. «Non ce la faccio più.»
    «Sì che ce la fai» la incoraggiò Zac scostandole con tenerezza una ciocca dalla fronte. «Forza, ormai non ci vorrà molto. Pensa al bambino, Libby: come sarà morbida la sua pelle, come saranno minuti e perfetti i suoi piedini e le sue manine. Come sarà bello tenerlo in braccio. Ormai manca poco, piccola.»
    «Oh, Dio, un'altra! Non ce la faccio più!»
    Zac le prese le mani tra le sue e la guardò diritto negli occhi, cercando di infonderle forza.
    «Sì che ce la fai. Respira con me, piccola.»
    Qualche minuto dopo, Libby lanciò un grido e trattenne il respiro.
    «Zac, c'è qualcosa di diverso! Ora sento una pressione tremenda. Devo spingere.»
    Zac premette frenetico il bottone che chiamava l'infermiera.
    «Oh, no, non puoi! Non fare niente fino a che non arriva qualcuno.»
    Si frugò disperato nella mente, alla ricerca di una soluzione.
    «E ora cosa facciamo?» borbottò guardandosi intorno, smarrito. «Maledizione, dove ho messo il taccuino con gli appunti del corso?» sbottò.
    Finalmente lo trovò nella tasca interna della giacca e prese a sfogliarlo frenetico. Lesse velocemente le istruzioni e si avvicinò a Libby, che ansimava pallidissima.
    «Devi respirare con piccoli sbuffi, ora... Ecco, così... brava.»
    L'ostetrica arrivò di corsa e l'esaminò.
    «Bene, direi che è venuto il momento di spingere. Ecco, sistemiamo la testa un po' più in alto. Ora mi ascolti bene: alla prossima contrazione si chini in avanti e afferri un ginocchio, mentre il suo assistente afferra l'altro. Poi inspiri profondamente, espiri e trattenga il fiato.»
    Dopo un'altra contrazione l'ostetrica tornò a visitarla.
    «Caspita, che velocità! Ora devo chiamare il dottore. Non spinga finché non arriviamo.»
    Libby lanciò un'occhiata colma di panico a Zac.
    «Come sarebbe a dire, non spinga? Ormai non posso fermarmi. Oh, ne arriva un'altra...»
    «Va tutto bene, piccola» la rassicurò Zac. «Ecco, respira bene... brava, ancora...»
    «Oddio, arriva!» proruppe Libby. «Devo spingere.»
    «No, no, aspetta! Libby! Libby!»

    «Cos'è successo? È andato tutto bene? Come sta Libby?»
    Deb arrivò di corsa e vide subito Zac, fermo vicino a una finestra, intento a fissare il sole del primo mattino.
    «Ha avuto il bambino, Deb» rispose lui voltandosi.
    «È... è tutto a posto?»
    Zac proseguì come se non l'avesse sentita.
    «Il dottore non era presente e neanche l'infermiera. Eravamo solo noi due, e a un tratto mi sono trovato quella cosina tra le braccia. È una bambina» spiegò sollevando lo sguardo su Deb. «Una bellissima bambina con pochi capelli e grandi occhi azzurro scuro. Mi ha guardato e si è messa a urlare come una pazza.»
    «Libby sta bene?»
    «Sì. È stata fantastica: non ho mai conosciuto una donna forte e determinata come lei. È rimasta calma e padrona di se stessa per tutto il tempo» commentò ammirato.
    «E ora cosa sta facendo?»
    «Penso che dorma.»
    «E tu, come stai? Hai l'aria esausta.»
    Zac tentò un sorriso.
    «In effetti sono stanco» ammise. «Non ho chiuso occhio, stanotte: credo che andrò a casa.»
    «Non vuoi aspettare che Libby si svegli?»
    «No. Tanto, si interesserà solo alla bambina. Non si accorgerà neanche della mia assenza.»
    «Oh, se ne accorgerà» ribatté Deb.
    Ma Zac si era già voltato e si avviava a passo lento per il corridoio.
    «Dov'è Zac?» fu la prima cosa che le chiese Libby.
    «Era stanchissimo e se n'è andato a casa.»
    «Ah» mormorò Libby cercando di celare la delusione. «Hai già visto la bambina?»
    «Ho dato una sbirciata nella nursery, prima di venire qui. È proprio una bambolina.»
    «Vero? Zac è stato meraviglioso. Così paziente, non mi ha lasciata sola un minuto. È un assistente fantastico... è un uomo fantastico.»
    Deb la guardò incuriosita.
    «Già, sembra anche a me.»
    «Mi ha massaggiato la schiena e tenuta stretta, ha respirato con me... e ha fatto nascere la mia bambina! Ti rendi conto, Deb? Il dottore ha impiegato troppo tempo ad arrivare e lei non voleva aspettare, così ha fatto tutto Zac. Si è messo a piangere quando l'ha avuta in braccio. Ha tentato di nasconderlo, fa io me ne sono accorta.» «E poi cos'è successo?» «Il dottore è arrivato, me l'ha messa sul petto e poi ha tagliato il cordone. Lei ha fatto ogni sorta di rumorini e poi mi ha guardato a lungo, senza battere le ciglia: sono sicura che mi ha visto davvero.»
    Deb sorrise comprensiva.
    «Ti conosco dai tempi dell'università e non credo di averti mai vista così agitata. Zac mi ha detto che durante il travaglio non hai perso la calma.»
    «Be', sapevo cosa aspettarmi e avevo lui vicino. E poi continuavo a pensare al bambino.»
    «A proposito, hai deciso un nome?»
    «Sì. La chiamerò Victoria, come mia nonna.»
    «Solo Victoria? Sai, Hannah mi ha detto che il secondo nome di Zac è Dane...»
    Libby si illuminò all'istante.
    «Victoria Dane Austen: suona bene, non ti pare?»
    Per la prima volta in dieci anni Zac prese un giorno di vacanza.
    «Non viene in ufficio?» trasecolò la segretaria. «È in ospedale o cosa?»
    «No, no, sto bene. Mi prendo semplicemente una giornata libera. È permesso, sa? Sono io il capo.»
    «Sì, certo, ma...»
    «Ci vediamo domattina» tagliò corto Zac.
    Riappese, sedette sul divano e fissò i pesci tropicali dell'acquario. Avrebbe dovuto essere a letto: dopotutto, quella notte non aveva dormito affatto.
    Ma non riusciva nemmeno ad assopirsi: continuava a rivedere il viso di Libby quando le avevano messo la bambina sul petto. Anche imperlato di sudore, con i capelli scompigliati incollati alla fronte e macchie di mascara disciolto intorno agli occhi, era il volto più bello che avesse mai visto.
    Ricordava come era arrossita, accingendosi ad allattare la bambina per la prima volta, e come era rimasta con lo sguardo incollato al suo mentre aiutava la figlia a cercare il capezzolo roseo. Quando la piccola aveva cominciato a succhiare, Libby aveva sgranato gli occhi, come se si fosse trovata davanti a un miracolo. E Zac, commosso suo malgrado, non aveva potuto fare a meno di fermarsi a guardare.
    Sbadigliò e ricordò come si era sentito tenendo in braccio quel minuscolo esserino.
    Poi chiuse gli occhi.


    4

    «Perché devo venire a questa riunione?» protestò Zac.
    «Perché mi hai assistito durante il parto. E hai fatto lo stesso con Libby» rispose Hannah salendo in macchina.
    «Non per libera scelta» puntualizzò Zac.
    Nelle ultime settimane aveva respinto ogni pensiero su Libby e, almeno di giorno, c'era riuscito.
    Il problema era la notte: non appena si addormentava, Libby gli compariva davanti con i lunghi capelli lucenti, le gambe snelle, il seno pieno e la bocca invitante. Ogni volta che allungava una mano per raggiungerla, però, si trovava a toccare un bambino piangente.
    Zac fissò il seggiolino del nipote al sedile della macchina, avviò il motore e sollevò lo sguardo sulla cognata.
    «Non potrei venire a riprendere te e Nicky tra un paio d'ore?» propose speranzoso.
    «Niente da fare, tesoro. Tu vieni con noi» rifiutò Hannah in tono definitivo.
    «Ma i bambini si metteranno a strillare non appena mi vedranno» obiettò ancora Zac. «Sai bene che non gli piaccio.»
    «Smettila di dire assurdità» tagliò corto Hannah. «I bambini si mettono a piangere perché si accorgono di spaventarti a morte.»
    «Ho le mie buone ragioni per temerli» borbottò Zac, cupo.
    Ormai erano arrivati davanti alla casa di Mabel. Hannah slacciò la cintura che tratteneva il figlio al seggiolino e lo prese in braccio.
    «Non essere ridicolo. Sarà interessante vedere come stanno gli altri, no?»
    Zac la seguì con un sospiro. Appena entrato, si guardò subito intorno in cerca di Libby e quando non la vide non seppe se sentirsi deluso o sollevato.
    «Ecco qua l'assistente dell'anno!» lo accolse Mabel, cordiale.
    Libby vide subito Zac, ma preferì rimanere nell'angolo più lontano della stanza, seminascosta da una pianta di ficus. Non stava cercando di nascondersi, si ripeté, ma solo di assecondarlo.
    A giudicare dal suo comportamento nelle ultime settimane, Zac voleva avere meno contatti possibile con lei.
    Il giorno dopo il parto le aveva mandato due dozzine di roselline, con un breve biglietto di congratulazioni; poi non si era più fatto vivo, nemmeno per richiamarla quando lei aveva lasciato un messaggio sulla segreteria. A una settimana dalla nascita di Victoria aveva mandato un orsetto di peluche; o, almeno, Libby pensava che il regalo fosse suo, visto che non c'era biglietto e tutte le amiche negavano di averglielo inviato.
    Chissà come aveva fatto Hannah a convincerlo a partecipare a quella riunione! Zac aveva la stessa espressione impacciata che ricordava dal loro primo incontro: anche questa volta sembrava un pesce fuor d'acqua. D'altra parte, lei non poteva restare nascosta dietro una pianta tutta la sera, rifletté Libby accarezzando distratta le pieghe del leggero vestito di cotone rosa. Si incollò al volto un sorriso forzato e lasciò il proprio rifugio.
    Zac la vide subito. Libby non avrebbe saputo dire se era felice o no di incontrarla, dato che il suo viso era del tutto inespressivo, ma comunque lui le andò incontro.
    «Come stai?»
    «Bene. E tu?»
    «Oh, anch'io. Come sta la bambina?»
    «Victoria è bellissima. E molto buona.»
    «Già, Hannah mi ha detto che l'hai chiamata così.»
    «Victoria Dane» precisò Libby.
    Zac la guardò colpito.
    «Hannah non te l'aveva detto?»
    «No» rispose Hannah raggiungendoli. «Pensavo che toccasse a te.»
    «Perché l'hai fatto?» chiese Zac ignorando la cognata.
    «Te lo dovevo. E tu non mi hai mai dato la possibilità di ringraziarti.»
    Zac sentì un'insolita ondata di calore salirgli alle guance.
    «Io... io ho solo fatto quello che qualunque altro uomo avrebbe fatto al mio posto» minimizzò.
    Maledizione, perché Libby lo faceva sentire goffo come un ragazzino al primo appuntamento?
    «Non è vero. Solo un uomo molto speciale avrebbe potuto comportarsi come ti sei comportato tu. Non so proprio come ringraziarti: non ce l'avrei fatta, senza di te.»
    Zac la guardò negli occhi e si chiese se diventavano più scuri quando faceva l'amore, oppure se si illuminavano. Scacciò quel pensiero, infastidito, mise le mani in tasca e si strinse nelle spalle.
    «Non c'è bisogno di ringraziarmi.»
    «Sì, invece» insistette Libby. «Sei stato gentile e paziente e sembrava che sapessi sempre che cosa mi serviva.»
    «Un modello di virtù, insomma» tentò di scherzare Zac.
    «Non ti piacciono i complimenti, eh?»
    «Non è così. È solo che...»
    Si interruppe incerto: i complimenti gli facevano piacere, ma venendo da lei lo mettevano a disagio. Oltretutto, in quel momento riusciva a pensare solo al delizioso vestito rosa che indossava.
    L'ultima volta che l'aveva vista Libby era pallida, con la fronte imperlata di sudore e il viso tirato. Alcuni particolari non erano cambiati - i capelli lunghi e lucenti, la pelle di porcellana, le gambe snelle. Ma ora ai piedi portava dei sandali dai tacchi alti, che lasciavano scoperte le dita perfette e le unghie dipinte di rosa, e soprattutto la pancia non c'era più: al suo posto c'era una vita sottile e fianchi deliziosamente arrotondati.
    Zac indugiò con lo sguardo sul vestito rosa, che metteva in risalto il seno morbido e pieno, e si fermò irritato sul bottone d'oro che chiudeva la scollatura: un giorno, decise d'impulso, gliel'avrebbe strappato con i denti.
    Quel lungo esame stava cominciando a eccitarlo troppo; era più prudente tornare a una conversazione neutrale.
    «Così la bambina sta bene» disse.
    «Sì» rispose Libby con un sorriso fiero. «Ingrassa e fa dei rumorini deliziosi. Ora ce l'ha in braccio Mabel. Vuoi prenderla un momento?»
    «Oh, no, meglio di no!» si affrettò a rifiutare Zac. «Ecco, temo che mi stia venendo l'influenza e non vorrei attaccargliela.»
    «Capisco.»
    In realtà, Libby capiva che Zac era terrorizzato all'idea di prendere in braccio un bambino. Possibile che fosse afflitto da una strana fobia nei loro confronti?
    Gli posò una mano sulla fronte e la ritirò sorridendo con lieve ironia.
    «Non sei affatto caldo» decretò. «Su, lascia che ti porti Victoria: vedrai com'è cresciuta.»
    Zac si schiarì la voce e fece un passo indietro.
    «Davvero, non vorrei attaccarle qualche malanno.»
    «Be', se lo credi veramente...» si arrese Libby, divertita dal lampo di sollievo che gli brillò negli occhi.
    Zac era alto e possente, eppure la semplice idea di tenere in braccio un neonato inerme bastava a terrorizzarlo.
    Come faceva a non capire che le sue grandi mani sembravano fatte apposta per accarezzare un bambino, che le sue larghe spalle erano perfette per accogliere la testa di un piccolo, o di una donna? Un'ondata di desiderio l'invase: voleva che fossero lei e Victoria ad appoggiare la testa sulla sua spalla. Continuò a fissarlo con uno sguardo sognante, un misto di speranza, riflessione e sensualità e Zac strisciò i piedi per terra imbarazzato.
    Quello sguardo e quel sorriso gli stavano facendo perdere la testa, effetto dimostrato dal fatto che si trovò ad accettare un invito a cena a casa sua. Non riusciva a capire perché avesse detto di sì: non aveva certo bisogno di frequentare una donna già fornita di una famiglia quasi completa. Probabilmente Libby cercava un padre per sua figlia e lui non era certo disposto ad assumere quel ruolo. Perché non aveva rifiutato l'invito, allora?
    Si passò una mano tra i folti capelli scuri, distolse lo sguardo e vide Deb che arrivava con la bambina in braccio.
    «Credo che prenderò un po' di caffè» dichiarò in fretta. «Vuoi...»
    Si interruppe di colpo quando Deb gli mise in braccio la neonata e la strinse a sé d'istinto.
    «Hai visto com'è cresciuta?» chiese Deb, entusiasta.
    Zac sorrise debolmente e abbassò lo sguardo sulla bambina: in effetti era cambiata molto, dall'ultima volta che l'aveva vista. La testolina aveva ora qualche ricciolo scuro e gli occhi erano di un azzurro cupo come quelli della madre. Indossava una tutina verde e aveva un delizioso profumo di borotalco.
    «Già, è vero» concordò.
    Al suono della sua voce, Victoria cominciò ad agitare le gambette e strillò in segno di protesta. Zac non perse tempo e la rese subito alla madre.
    «Ho davvero bisogno di una tazza di caffè» dichiarò.
    In realtà, bere caffè la sera lo teneva sveglio, ma preferiva passeggiare per la casa fino alle ore piccole piuttosto che tenere in braccio un bambino urlante.
    Libby cullò la piccola, che si calmò all'istante.
    «Vengo con te. Anch'io ho voglia di bere qualcosa.»
    «Te la porto io» si offrì Zac, ansioso di allontanarsi da quell'esserino minaccioso. «Cosa preferisci? Caffè? Aranciata?»
    «Un succo di frutta, se c'è. Niente caffè: tiene sveglia Victoria.»
    Libby doveva proprio ricordargli che stava allattando? Zac rivedeva ancora la scena all'ospedale, il rossore, poi la sorpresa e il sorriso radioso che le avevano illuminato il viso quando la figlia le si era attaccata al seno per la prima volta. Basta, pensò esasperato, dirigendosi al tavolo dei rinfreschi. Aveva proprio bisogno di una tazza di caffè.
    Libby lo seguì con lo sguardo, consolandosi con l'idea che in fondo aveva accettato il suo invito a cena, poi concentrò l'attenzione sulla figlia.
    «Perché ti sei agitata tanto? Ora Zac pensa di non piacerti» la rimproverò dolcemente.
    Victoria la fissò con i grandi occhi azzurri e gorgogliò.
    «Non lo farai più, vero? È un uomo in gamba: intelligente, buffo e sexy.»
    Hannah le si avvicinò con Nicky addormentato su una spalla.
    «Ho visto che hai parlato con Zac.»
    «Mi è sembrato terrorizzato dai bambini» confessò Libby.
    «Te ne sei accorta, eh? Per qualche assurda ragione, continua a sostenere che i bambini lo odiano.»
    «E come mai?»
    «Io credo che in parte sia una scusa. E poi ha avuto qualche esperienza traumatica con i bambini: Ben mi ha raccontato che a diciassette anni ha fatto da baby sitter al figlio di una cugina, che ha avuto una colica e ha urlato per un giorno intero. E poi c'è stata la figlia di Pamela.»
    «Chi è Pamela?»
    «La sua ex fidanzata.»
    Libby trasalì: possibile che fosse ancora innamorato di lei? Forse i bambini lo mettevano a disagio perché gli ricordavano quello che aveva perso.
    «Quando è stato?» chiese, cercando di assumere un tono casuale.
    «L'anno scorso. La figlia aveva quattro anni ed era viziatissima: probabilmente non voleva dividere la madre con nessuno. Ogni volta che vedeva Zac si metteva a urlare come una pazza e questo ha rafforzato la sua convinzione che tutti i bambini lo odino.»
    «Ha... preso male la rottura?» chiese Libby, sperando che il suo interesse non fosse troppo evidente.
    «No, affatto. Era ferito nell'orgoglio, più che nel cuore. Non si era fidanzato perché amava Pamela, ma piuttosto perché gli sembrava il momento di sistemarsi. Io la penso così e Ben era d'accordo con me.»
    Era la seconda volta che Hannah citava il marito.
    «Hai avuto sue notizie?» chiese Libby, gentile.
    «Qualche giorno fa ho ricevuto per posta i documenti del divorzio.»
    «Mi dispiace.»
    «Non è il caso. Io sono contenta che sia finita.»
    «Lo ero anch'io quando il mio divorzio è diventato definitivo.»
    Zac le raggiunse e si intromise nella conversazione.
    «Quanto tempo siete stati sposati, tu e Bobby?»
    «Quattro anni. È stato un errore fin dall'inizio.»
    «Perché?»
    «Perché era un irresponsabile. L'ho conosciuto alla fine degli studi e il suo atteggiamento spensierato mi è sembrato quello di cui avevo bisogno. Credevo che, una volta sposato, avrebbe messo la testa a posto.»
    Libby sospirò piano e cambiò posizione alla bambina ormai addormentata contro la sua spalla.
    «Invece ha continuato a uscire quasi tutte le sere, anche da solo, quando mi rifiutavo di accompagnarlo. Faceva le ore piccole alle feste, poi arrivava tardi al lavoro. Ne ha persi sette od otto, prima di mettersi alle dipendenze di uno zio.»
    Zac si schiarì la voce e Libby lo guardò con aria incerta.
    «Ecco il tuo succo di frutta» annunciò lui tendendoglielo. «Devo proprio andare» aggiunse, rivolto alla cognata. «Domani mattina presto ho una riunione.»
    «Secondo me ha solo voglia di scappare: qui ci sono troppi bambini per i suoi gusti» sussurrò Hannah all'orecchio di Libby.
    Zac colse le sue parole e ridacchiò.
    «Hai proprio ragione» ammise. «Immagino che tu abbia la macchina, adesso» aggiunse rivolto a Libby.
    «Infatti» confermò lei. «Ci vediamo venerdì alle sette, allora.»
    Zac assentì, ma era ben deciso a chiamarla entro qualche giorno per disdire l'appuntamento.


    5

    Aveva tentato di disdire l'appuntamento. Si era anche spinto fino a telefonare a Libby, ma quando aveva sentito la sua voce dolce e sensuale si era dimenticato di colpo di tutto quello che voleva dirle. E così ora era davanti alla sua porta e non riusciva a muoversi. Insomma, deciditi. Avanza o ritirati, ma fa' qualcosa. Zac fece un gran respiro e bussò.
    Libby aprì quasi subito. Indossava una gonna corta e una maglietta di un giallo vivo, e nell'insieme assomigliava a un fiore fresco e profumato.
    Il particolare che gli tolse il fiato, tuttavia, erano i sandali gialli, che mostravano le graziose unghie laccate di rosa. Per un attimo Zac non riuscì a distogliere lo sguardo da quei graziosi piedini.
    «Uh, hai un ottimo aspetto. E che profumino!» commentò annusando l'aria.
    «Le migliori lasagne fatte in casa della costa orientale»annunciò Libby. «Che cos'hai lì?» aggiunse, accennando al sacchetto che Zac teneva in mano.
    «Una bottiglia di vino. Non sapevo cos'avresti preparato, così ho scelto un rosé. Spero che vada bene.»
    «Oh, benissimo.»
    «Dov'è la bambina?»
    Signore, fa' che sia dalla nonna o da qualcun altro, pregò silenziosamente.
    «L'ho appena messa nella culla, ma credo che non si sia ancora appisolata. Vuoi vederla?»
    «Oh, no! Voglio dire, mi dispiacerebbe tenerla sveglia. Quanto pensi che dormirà?»
    «Con un po' di fortuna, fino a mezzanotte o l'una.»
    Libby trattenne a stento un sospiro davanti al suo evidente sollievo. Zac le piaceva molto, ma prima di tutto doveva pensare alla figlia: se intendeva uscire con qualcuno, doveva scegliere un uomo a cui piacessero i bambini e lui non sembrava proprio rientrare in quella categoria. Chissà, forse una storia breve e appassionata le avrebbe tolto quelle fitte di desiderio e quel turbamento che la prendevano ogni volta che lo vedeva. Forse. Ma ne dubitava.
    Gli prese di mano la bottiglia di vino e la mise in fresco. Tentò di avviare una conversazione, ma non le veniva in mente nulla, e Zac sembrava nella stessa condizione. Il silenzio si prolungò e Libby divenne sempre più nervosa.
    Infine Zac si schiarì la voce e azzardò un commento.
    «È proprio una...»
    Un grande cane dal pelo dorato fece irruzione nella stanza, si fermò un attimo agitando la coda e si diresse deciso verso Zac, posandogli il muso sul cavallo dei pantaloni.
    «Non ti farà del male» lo rassicurò Libby in fretta.
    Zac cercava di liberarsi dalle esuberanti manifestazioni di benvenuto del cane, nella speranza che non si mettesse a leccargli la faccia.
    «Immagino che questo sia Wells.»
    «Esatto. E direi che gli piaci molto.»
    «Che fortuna!» borbottò Zac a denti stretti.
    Libby prese il cane per il collare e lo tirò indietro decisa.
    «Sarà meglio che tu stia in giardino per un po'» dichiarò aprendo la porta sul retro della cucina.
    Zac l'aiutò e lei diede a Wells una spinta decisa. Il cane uscì trotterellando, senza farsi troppo pregare.
    «Mi dispiace» si scusò Libby. «È affettuoso e gli piace la gente. Tra un po' si metterà a uggiolare, nella speranza che lo faccia rientrare in casa.»
    Zac cercò invano di togliersi i peli dorati rimasti attaccati ai calzoni scuri. Infine vi rinunciò e si appoggiò alla credenza.
    «Parlami della tua famiglia» la sollecitò. «Hai fratelli o sorelle?»
    «Solo una sorella, Faith, che è all'ultimo anno di medicina. E tu? Se non ho capito male, hai due fratelli e un nipote appena nato.»
    «Esatto. Matt, il maggiore, è sposato e vive a New York con sua moglie Alice e due figli, un maschio e una femmina.»
    Libby aprì il frigorifero e cominciò ad allineare vari ingredienti sul piano di lavoro vicino ai fornelli.
    «Li vedi spesso?»
    «No.»
    «Be', New York non è poi così lontana.»
    «Sì, ma... Senti, posso aiutarti?» cambiò in fretta argomento Zac.
    «Sai tagliare le verdure?»
    «Sicuro.»
    Libby gli passò pomodori, cetrioli e un coltello.
    «Dimostramelo» lo invitò.
    Poi si voltò facendo ondeggiare la gonna corta.
    «Ecco fatto» annunciò Zac poco dopo. «Ehi, cosa stai facendo?» aggiunse esterrefatto.
    Libby si raddrizzò con un sorriso di scusa.
    «Scusami. Mi fanno male i piedi, così mi sono tolta un sandalo.»
    Zac rimase a fissarla mentre si liberava della calzatura leggera e stirava le dita dei piedi con un sospiro soddisfatto. Quel semplice gesto era più erotico di uno spogliarello. Zac si sentì assalire dal desiderio e si voltò per non vederla mentre si toglieva l'altro sandalo.
    Insomma, cosa gli stava succedendo? Non aveva mai avuto una simile fissazione erotica per i piedi di una donna! Si stava abbandonando a fantasie sbrigliate su carezze e solletico, quando un gridolino fece sobbalzare Libby.
    «Oh, Dio, Victoria si è svegliata!»
    Corse verso la camera da letto, ma a metà strada si voltò verso di lui.
    «Ti dispiace fare rientrare Wells? Non vorrei che disturbasse i vicini.»
    La serata non stava affatto andando secondo le previsioni di Zac: una cenetta romantica, un po' di vino, e poi, chissà... Ma aveva dimenticato che la donna in questione aveva una neonata e un cane.
    Cenarono con Victoria in braccio alla madre e Wells intento a fissare Zac con grandi occhi imploranti, mentre un gran numero di peli dorati si spargeva sui suoi calzoni. La conversazione si rivelò facile e sciolta, anche perché Libby era una donna affascinante e intelligente.
    Dopo cena si trasferirono in salotto a bere il caffè. Victoria sembrava sveglissima e continuava a gorgheggiare sulle ginocchia materne.
    «Forse, se l'allattassi...» mormorò Libby.
    «Per me non c'è problema» la incoraggiò Zac.
    Lei gli diede le spalle e armeggiò con la maglietta; un attimo dopo risuonò il gorgogliare inconfondibile di un neonato che succhia contento. Zac distolse a fatica lo sguardo e si concentrò sui suoi piedi nudi, ma non servì a nulla.
    Sentiva la presenza di Libby come se stesse ballando nuda di fronte a lui e presto tra loro tornò a calare un silenzio rotto solo dai rumorini prodotti da Victoria. Quando Libby si alzò per rimetterla in culla, Zac decise di andarsene prima che le cose si facessero troppo difficili.
    Tornando in salotto, Libby lo trovò in piedi.
    «È stata una serata deliziosa. Avevi ragione: fai davvero le lasagne migliori della costa orientale. La bambina dorme?»
    «Sì» rispose Libby con un sorriso fiero. «Devi proprio andartene?» aggiunse facendosi seria.
    «Ehm, ecco, sì. Domattina devo alzarmi presto.»
    Non vedeva l'ora di tagliare la corda, era chiaro. Insomma, se non gli piacevano i bambini, era inutile perdere tempo con lui, rifletté delusa. La loro era una relazione impossibile: meglio farla finita prima di cominciare.
    «Grazie per il vino» disse in tono formale.
    «Non lo hai neanche assaggiato» non poté fare a meno di osservare Zac.
    «Già. Avevo dimenticato di dirti che Victoria è un po' troppo piccola per bere.»
    Wells si stirò pigro sul tappeto e uggiolò nel sonno. Zac gli diede un'occhiata e decise che doveva proprio andarsene.
    «Ti chiamerò» promise.
    Ma sapeva che non l'avrebbe fatto: niente al mondo poteva indurlo a legarsi a lei. Be', quasi niente, aggiunse distogliendo a fatica lo sguardo dai suoi piedi nudi.
    Libby lo accompagnò alla porta, lo ringraziò ancora e lo baciò a sorpresa su una guancia.
    Zac non seppe come, ma un attimo dopo se la ritrovò tra le braccia. Cercò le sue labbra, dapprima esitante, poi sempre più sicuro: Libby sapeva di sole e di cielo sereno, il seno morbido gli premeva contro il petto e le lunghe gambe si intrecciavano alle sue.
    Quando si tirò indietro, lui notò ancora una volta i suoi piedi nudi. E seppe che l'avrebbe richiamata.

    Zac non riusciva a dormire ed era tutta colpa di Libby. Si aggirava irrequieto per l'appartamento silenzioso, senza bambini urlanti e cani invadenti, tutto giocato sui toni del bianco e del nero. Casa sua era completamente diversa da quella di Libby, con il divano a fiori ricoperto di cuscini dai colori vivaci, il tappeto tessuto a mano e i giocattoli del cane sparsi dappertutto.
    La casa di Libby era un vero carnevale di odori - salsa di pomodoro, origano, il profumo delle rose del giardino e delle decine di piante poste sul pavimento, sugli scaffali, dappertutto. E, come sottofondo, aleggiava il tenue profumo di borotalco di Victoria.
    Zac fece un respiro profondo: casa sua non sapeva di niente! Sparse un po' di cibo per pesci nell'acquario e per la prima volta si rese conto che anche questi erano tutti bianchi o neri, come i colori dominanti nell'appartamento.
    Prese una rivista e cercò di concentrarsi sulla lettura, ma dopo tre pagine la mise da parte. Si sentiva irrequieto per una ragione che non aveva voglia di individuare: forse un po' di esercizio nella palestra al pianterreno del condominio gli avrebbe calmato i nervi.
    Tre quarti d'ora più tardi, dopo molti esercizi e una doccia, era ancora agitato. Accese la televisione e passò da un canale all'altro, poi la spense con rabbia. A che gli serviva avere trenta canali se non trovava nulla di interessante da guardare? Con un sospiro spense la luce e si avviò in camera da letto.
    Un'ora dopo era ancora sveglio a fissare il soffitto. Impedirsi di pensare a Libby era così faticoso che non riusciva proprio a dormire. Così rinunciò e si lasciò andare ai ricordi che lo ossessionavano da ore.
    C'erano stati molti momenti importanti e felici nella sua vita, ma nulla poteva paragonarsi al bacio di quella sera.
    Zac sospirò piano e nascose la testa sotto il cuscino. Si addormentò pensando ai capelli lucenti di Libby, al suo seno morbido da accarezzare, ai suoi piedi graziosi...

    Libby posò Victoria sul letto e cominciò a cambiarla.
    «Dovevo aspettarmelo» borbottò. «Cosa mi è venuto in mente di baciarlo sulla guancia?»
    «Di che bacio stai parlando?»
    «Oh, ciao, Deb» l'accolse Libby senza voltarsi. «Non si usa più bussare?»
    «Comincerò a farlo il giorno in cui tu chiuderai a chiave la porta di casa.»
    «Avresti dovuto annunciarti» insistette Libby. «E se fossi stata... occupata con un uomo?»
    Deb sgranò gli occhi, poi si mise a ridere.
    «Ah, certo! Dimenticavo che Zac Webster è venuto qui a cena ieri sera. Com'è andata?»
    «La cena bene» rispose Libby senza sbilanciarsi.
    «E poi?» insistette Deb.
    «E poi niente. È venuto, ha mangiato ed è tornato a casa.»
    «È per questo che borbottavi tra te e te?»
    «Non borbottavo tra me e me. Nel caso non l'avessi notato, c'è un'altra persona, qui.»
    «Victoria è un amore, ma non la definirei una campionessa di conversazione. E tu stai tentando di evitare l'argomento.»
    «Non c'è niente da dire» tagliò corto Libby.
    «Ma come?» protestò Deb. «Hai cenato con un tipo bellissimo, che oltretutto ha fatto nascere tua figlia, e non trovi niente da dire? Non è possibile!»
    «E va bene» cedette Libby. «Se vuoi tutti i particolari, ecco qua: Victoria non voleva dormire, il cane lo ha riempito di peli e lui se n'è andato poco dopo le nove. Insomma, un disastro. Non credo che si farà più vivo. Magari ci incontreremo ogni tanto a causa di Hannah e ci tratteremo come conoscenti occasionali.»
    In quel momento suonò il telefono. Libby passò la figlia a Deb e andò a rispondere.
    «Pronto?» disse Zac, gentile. «Volevo ringraziarti ancora per la cena di ieri.»
    Libby sentì la sua voce dolce e profonda insinuarsi in ogni parte del proprio corpo, mentre un calore improvviso la invadeva.
    «Oh, ciao. Sono contenta che ti sia piaciuta.»
    «Come sta la bambina?»
    Non chiamava mai Victoria per nome; chissà, forse lo aiutava a mantenere le distanze.
    «Bene. Sta giocando con Deb.»
    «Ecco, visto che mi hai preparato la cena, pensavo di ricambiare invitandoti fuori a mangiare» disse Zac tutto d'un fiato.
    Non mi sembra una buona idea, l'ammonì una vocina interna.
    «Oh, sì, mi piacerebbe. Quando?» rispose senza potersi trattenere.
    «Stasera è troppo presto?»
    Libby batté una mano sulla spalla di Deb.
    «Se riesco a trovare una baby sitter... Sì, stasera va bene» rispose al cenno d'assenso dell'amica.
    «Alle sette?»
    Libby guardò ancora Deb.
    «Va bene. Devo vestirmi da sera?»
    «Be', pensavo di cenare e poi di andare a ballare.»
    Questo era davvero un rischio, visto il modo in cui si sentiva ogni volta che gli stava vicino. Poteva reggere una cena, separata da lui da un tavolo e in mezzo alla gente, ma un ballo guancia a guancia?
    «D'accordo. Ci vediamo alle sette.»
    Riappese e si voltò verso Deb, che ridacchiava.
    «Non doveva più farsi vivo, eh?»
    «Si vede che ha cambiato idea» tagliò corto Libby.
    Si voltò di scatto e giocherellò con la collezione di boccette di profumo allineate sul cassettone vicino al letto.
    «Vuoi che porti Victoria a casa tua o preferisci venire qui?»
    «Vengo io. Sarà la prima uscita del sabato sera da sei mesi.»
    Libby la guardò sorpresa.
    «Davvero?»
    «Davvero. L'ho fatta finita con gli uomini, almeno per un po'. Mi pareva di avertelo detto, no?»
    «Ma Deb, non ti pare di...»
    «Senti, potrei portare Victoria fuori in passeggino, mentre tu ti lavi i capelli o stai un po' in pace» propose l'amica.
    «Be', se proprio non vuoi parlarne...»
    «Non voglio. Dov'è il passeggino?»
    «Nello sgabuzzino in fondo al corridoio.»
    «A proposito, come devo regolarmi per il mangiare?»
    «Victoria prende il biberon senza problemi, ma non credo che sarà necessario: l'allatterò prima di uscire.»
    Libby passò un tempo infinito davanti all'armadio, cercando di decidere cosa indossare quella sera: un vestito era troppo stretto, un altro troppo formale, un altro troppo casual. Finalmente, poco prima delle sette, ne scelse uno bianco, abbottonato sul davanti.
    Si stava spazzolando i capelli con vigore quando la porta della camera si aprì.
    «È arrivato Zac» annunciò Deb. «È in salotto che tenta di impedire a Wells di mangiarlo vivo.»
    «Allora sarà meglio che vada a liberarlo.»
    Si guardò allo specchio ancora una volta, poi si rivolse ansiosa all'amica.
    «Come ti sembro?»
    «Perfetta.»
    «Non è troppo aderente? Il seno si è ingrossato molto, con l'allattamento.»
    «Non preoccuparti, va benissimo così. Non ti sembra di dimenticare qualcosa?» chiese Deb accennando ai piedi nudi.
    Libby li infilò nei sandali, mise veloce gli orecchini e si passò il rossetto sulle labbra, tentando di ignorare lo sguardo divertito dell'amica. Poi fece un respiro profondo, passò in salotto e rimase a bocca aperta.
    Zac era splendido, come al solito, ma non era questo a toglierle il fiato: era il suo sorriso di pura ammirazione maschile. La esaminò dalla testa ai piedi, soffermandosi in particolare sul seno e sulla punta delle dita dei piedi, e il sorriso divenne ancora più aperto. Libby si sentiva sciogliere: come avrebbe fatto a reggere per tutta la serata?
    «Sei bellissima» mormorò Zac.
    «Grazie» rispose lei a fatica. «Anche tu non sei male» aggiunse.
    Zac tirò fuori dalla tasca un foglietto e lo diede a Deb.
    «Ci puoi trovare a questi numeri, in caso di bisogno.»
    Con qualche fatica estrasse i piedi da sotto la massa dorata di Wells, ormai beatamente addormentato, e si rivolse a Libby.
    «Sei pronta?»
    Lei assentì, incapace di spiccicare parola. Era uscita per la prima volta con un ragazzo a quindici anni e non ricordava di essere stata tanto nervosa, anche se quel ragazzo era il capitano della squadra di baseball dell'università. Ma Chris Matthews, per quanto bello e simpatico, non era nemmeno lontanamente paragonabile a Zac.
    «Sei mai stata da Wendover?» le chiese.
    Libby ritrovò la voce.
    «No, ma ne ho sentito parlare molto bene.»
    «La sua specialità sono i frutti di mare, ma se non ti piacciono possiamo...»
    «No, no, li adoro.»
    Il ristorante aveva un'eleganza classica e per nulla vistosa - tappeti rossi, tovaglie immacolate, candele lucenti - e, nonostante la folla del sabato sera, il loro tavolo era intimo e piuttosto isolato. Forse fin troppo, pensò Libby, turbata da quell'atmosfera romantica.
    Non c'erano molte cose che riuscissero a toglierle l'appetito, ma sedere di fronte a Zac era una di queste. Forse era colpa del suo sorriso perpetuo o dei suoi commenti sulle qualità afrodisiache delle ostriche, o forse si trattava semplicemente del fascino virile che irradiava, che colpiva ogni donna presente nel ristorante.
    In confronto alla sera prima, la conversazione scorreva fluida toccando vari argomenti, dai libri, ai film, alla politica. Il fascino di Zac era tale che Libby cominciò a chiedersi se il suo fosse un dono naturale o se avesse fatto qualche corso per acquisirlo. O forse, era lui a tenere il corso.
    A mano a mano che si avvicinava la fine della cena e il momento di andare a ballare, Libby diventava sempre più chiusa e silenziosa. Non era una buona idea, continuava a ripetersi: Zac aveva un effetto magnetico su di lei, ma una relazione tra loro non poteva funzionare. C'era un ostacolo insormontabile: la sua bella bambina dagli occhi azzurri.
    Mentre si dirigevano al Sunny Daze per ballare, pensò di dirgli che aveva mal di testa e che voleva tornare a casa, ma la lingua non le obbedì, come se fosse bloccata. Inoltre, non poteva resistere alla tentazione di ballare con Zac almeno una volta. Forse stava scherzando con il fuoco, ma non si era mai tirata indietro davanti a una sfida e Zac rappresentava la sfida più ambiziosa che le fosse mai capitata.
    Forse, se l'avesse coinvolto in un argomento che lo prendeva molto, avrebbe smesso di sorriderle e di sedurla con il suo fascino. A sentire Hannah, il tema che più gli stava a cuore era la sua compagnia di computer, così decise di attaccare con quello.
    «Secondo Hannah, gli affari ti vanno molto bene. So che ti occupi di computer, ma che cosa fai esattamente?»
    Zac non parve sconcertato da quella domanda improvvisa. Parcheggiò la macchina di fronte al locale, scese e fece il giro per aprirle la portiera.
    «Ho cominciato inventando e installando programmi adattati alle esigenze di varie aziende: prendevo un appuntamento con i dirigenti, mi facevo spiegare quello che serviva loro ed elaboravo un programma.»
    «Riuscivi a soddisfare le esigenze più diverse?»
    «Più o meno. Ho fatto programmi per un negozio di ferramenta, per una catena di farmacie e ho lavorato con ditte di giocattoli e di animali domestici. Ultimamente, però, il settore che tira di più è quello dei programmi educativi.»
    Tenendola per il gomito guidò Libby attraverso la folla, fino a un tavolo appartato.
    «Vuoi qualcosa da bere?» chiese alzando la voce per farsi sentire al di sopra della musica.
    «No, per ora no, grazie.»
    «Vuoi ballare?»
    «Non ancora. Voglio saperne di più sulla tua compagnia. Su cosa stai lavorando, adesso?»
    «Abbiamo cominciato a concentrarci sull'elaborazione di programmi educativi per le scuole.»
    «Dio, non riesco a crederci! Sto parlando di lavoro con una donna che mi attrae più di ogni altra donna della mia vita!»
    Eppure, a parte il bacio scambiato la sera prima, non l'aveva mai toccata intimamente. Anche se ci aveva pensato, più e più volte...
    Zac non voleva più parlare. L'avevano fatto per tutta la sera, scoprendo di avere tante cose in comune, oltre a quelle che conosceva già. Il fatto che avessero perfino le stesse idee politiche era stato il colpo finale... un altro chiodo nella sua bara.
    Non voleva scoprire altre cose in comune con Libby: dopotutto, quella donna aveva una figlia e anche un cane! Zac voleva mantenere il loro rapporto su un piano soltanto fisico, ma era maledettamente difficile, quando continuava a scoprire aspetti di lei che lo attiravano in modo irresistibile, o quando ricordava la forza e l'equilibrio da lei dimostrati durante il travaglio. Anche nei momenti più difficili Libby non aveva mai perso il suo sottile senso dell'umorismo e la serenità che pareva una parte di lei, quasi una seconda pelle.
    Era così anche quando faceva l'amore? O si liberava di quella seconda pelle così come faceva dei vestiti, per lasciarsi guidare dagli istinti e dalla passione?
    «Voglio ballare con te» proruppe, senza curarsi se lei lo sentisse o no al di sopra della musica assordante.
    Si alzò e le tese una mano guardandola con intensità.
    «Balla con me, Libby.»


    6

    Bambini, cane e vissero per sempre felici e contenti, tutte le cose che lo allontanavano da lei, svanirono non appena le cinse la vita. Zac riusciva solo a sentire la morbidezza del suo seno contro il proprio petto, l'ondeggiare dei fianchi a tempo con la musica, la frizione gentile delle cosce contro le sue e la cascata di capelli neri e lucenti.
    Il suo profumo delicato lo avvolgeva, ma non riusciva a capire di cosa si trattasse esattamente. Gli ricordava le notti d'estate passate sulla sedia a dondolo sotto il portico dei nonni, o impiegate a dare la caccia alle lucciole. Caprifoglio, ecco cos'era! Profumo di caprifoglio. Appoggiò la guancia alla sua e inalò quella dolce fragranza, tanto intensa da fargli girare la testa.
    Insinuò le mani sotto la cascata di capelli e prese a carezzarle la schiena: il ruvido cotone sotto le dita contrastava con la morbidezza della pelle calda e liscia. Zac non voleva rapporti impegnativi, ma questo non significava vivere come un monaco, no? Che c'era di male in una relazione breve e appassionata? Probabilmente neanche Libby voleva legarsi a un uomo, in quel momento; dopotutto, era divorziata da poco.
    Era così bello tenerla tra le braccia... ma lui non aveva tempo per cose che non rientrassero in piani accuratamente delineati. Credeva nel programmare tutto, non solo i computer, ma non aveva previsto di incontrare una donna bella e intelligente, con una figlia e un cane. Tutto questo non rientrava nei suoi progetti, ma conoscerla meglio non gli avrebbe fatto male. È, comunque, quante altre cose potevano avere in comune?
    Si tirò indietro per guardarla in viso e si sentì fremere: meglio recuperare un po' di distanza, o se la sarebbe caricata sulle spalle all'istante, per portarla fuori da quel luogo affollato e rumoroso. E con Libby un sistema così rude e primitivo non avrebbe mai funzionato, ne era sicuro. Forse chiacchierare un po' lo avrebbe aiutato a calmarsi.
    «Tu insegni, vero?» chiese.
    Lei assentì, sorpresa da quell'improvviso tentativo di conversazione.
    «Sì, alla scuola elementare.»
    «Proprio in questi giorni sto elaborando un programma di inglese per i bambini delle elementari. Voi usate molto i computer?»
    «Io non l'ho ancora fatto, ma se ci fossero programmi adatti a stimolare i miei allievi, a far venire loro voglia di scrivere, li adotterei senz'altro.»
    «Che cosa ti servirebbe, esattamente?»
    «Vorrei un programma che facesse capire ai bambini l'importanza della comunicazione. Tutto quello che faranno d'ora in avanti, tutto ciò che diventeranno, come affronteranno la vita di tutti i giorni, dipende dalla capacità di comunicare.»
    La sua voce vibrava di passione e intensità.
    «A mio parere le persone che arrivano più lontano sono quelle capaci di comunicare meglio. Immagina uno che deve occuparsi di un ufficio pieno di gente e non sa come dire a ognuno quello che deve fare. Se non riesce a farsi capire si creano malintesi e offese, e alla fine non ottiene quello che aveva voluto.»
    Si fermò di colpo e sorrise con aria di scusa.
    «Mi dispiace. Mi sono fatta trascinare dalla foga: spero di non averti annoiato, ma è un argomento che mi sta molto a cuore. Potrei andare avanti a parlarne per giorni.»
    «Non mi hai annoiato. Stavo solo pensando come sei bella quando ti appassioni a qualcosa, ed ero un po' geloso che non ti appassionassi a me.»
    Sotto il suo sguardo diretto Libby inghiottì e si passò la lingua sulle labbra secche. Zac la strinse più forte a sé, trasmettendole un messaggio che non si poteva fraintendere: la desiderava. E glielo confermò mormorandole che avrebbe voluto essere solo con lei.
    Libby sentì la sua eccitazione crescente e si tirò indietro.
    «Zac, dobbiamo parlare.»
    «Hai ragione, piccola. Ma non qui.»
    Libby fece per avviarsi al tavolo, ma lui la trattenne.
    «Aspetta un attimo. Dammi ancora un minuto.»
    Non c'era bisogno di chiedersene la ragione: un calore intenso la invadeva e probabilmente succedeva lo stesso a lui.
    Rialzò lo sguardo e lo vide chiudere gli occhi e respirare profondamente, come per calmarsi.
    Poi la prese per mano, passò dal tavolo solo per raccogliere la sua borsa e si avviò all'uscita.
    «Dove andiamo?» chiese Libby sconcertata.
    «Non torniamo ancora a casa tua. Hai ragione, abbiamo bisogno di parlare, ma non credo che riusciremo a farlo con Deb e la bambina nell'altra stanza, e il tuo cane accucciato sulle mie ginocchia. Quindi andiamo a casa mia: là avremo tutta la privacy che ci serve.»
    Un campanello d'allarme suonò subito nella testa di Libby ammonendola a non andare, ma lei lo ignorò. Era una pazza a cacciarsi nella tana del leone? Probabilmente sì. Era pericoloso trovarsi sola con Zac, ma lei moriva dalla voglia di vedere la sua casa e di conoscere altri particolari della sua vita.
    In macchina nessuno dei due parlò, ma la comunicazione passò ugualmente, e più intensa che mai: i loro corpi irradiavano calore e desiderio, sebbene repressi.
    Quando Zac parcheggiò davanti al grande condominio dove abitava, Libby si strinse in un mantello protettivo di cautela e lo seguì in silenzio all'interno.
    Poco dopo Zac apriva la porta del suo appartamento; la guardò un attimo, poi assentì piano, come se avesse preso una decisione.
    «Vado a fare un po' di caffè decaffeinato» annunciò dirigendosi in cucina. «Il salotto è da quella parte.»
    Libby si guardò intorno nell'ingresso, sollevata per quei pochi minuti che avrebbe trascorso da sola, e aggrottò la fronte alla vista del pavimento nero, delle pareti candide e del tavolino nero dal piano smaltato cosparso di figurine di ceramica bianche e nere.
    Entrò in salotto e trattenne a stento un brivido: le pareti, il tappeto e il divano erano tutti bianchi, con qualche spruzzo di nero nei cuscini e nelle lampade ultramoderne. Il caminetto era bianco e la mensola che lo sovrastava di marmo nero.
    Perfino i pesci tropicali dell'acquario erano di quei due colori. Tutto ciò non assomigliava all'uomo che conosceva, che l'aveva stretta tra le braccia in ospedale, spingendola a tener duro quando lei stava per cedere.
    No, l'uomo che conosceva era allegro e pieno di colore: quell'appartamento perfetto e tranquillo apparteneva a qualcun altro.
    Si affacciò in cucina e scoprì un'altra stanza in bianco e nero.
    «Come si chiamano i tuoi pesci?» chiese.
    «Quelli bianchi iridescenti si chiamano tetra e gli altri angelo.»
    «No, no, intendo i loro veri nomi» insistette Libby.
    Lui la guardò incredulo: che idea assurda, battezzare dei pesci come se fossero esseri umani!
    «Non glieli ho dati» tagliò corto.
    Libby fece una smorfia: e pensare che lei aveva dato un nome a tutte le sue piante!
    «Serve aiuto?» offrì.
    «No, no, ho tutto sotto controllo.»
    «Allora posso...»
    «Certo. La prima porta a destra, in fondo al corridoio.»
    In bagno, almeno, l'alternanza di bianco e nero era rotta dagli asciugamani rosso vivo e da una pianta finta di ficus accanto alla vasca dell'idromassaggio.
    Zac aveva usato quegli asciugamani uscendo da un bagno caldo e tonificante? E lei cos'avrebbe provato a distendersi là, appoggiata al suo corpo forte, con le grandi mani di Zac a coprirle il seno?
    Un'ardente ondata di desiderio le tolse il fiato e i capezzoli cominciarono a pizzicarle. Ma forse facevano così perché ormai erano passate quattro ore dall'ultima volta che aveva allattato Victoria. Con un sospiro inserì dei fazzolettini di carta nel reggiseno, nel caso sgorgasse un po' di latte.
    Non poté resistere alla tentazione di dare un'occhiata alla camera da letto di Zac e qui ebbe una piacevole sorpresa: il soffice tappeto grigio perla metteva in risalto il copriletto e le tende di un rosso vivo, una parete era coperta da scaffali di libri e un'altra da manifesti di film, mentre le altre due mostravano una gran quantità di foto. Libby sorrise soddisfatta: questo era l'uomo che conosceva.
    Si fece avanti per dare un'occhiata da vicino e d'impulso si sfilò i sandali: i piedi nudi affondarono piacevolmente nel tappeto soffice e folto.
    «Ecco il tuo caffè.»
    Libby trasalì e si voltò, imbarazzata di essere stata colta a curiosare, ma Zac non sembrava offeso. Le tese la tazza e indicò la foto di un bell'uomo dai capelli scuri accanto a una bionda sottile.
    «Quelli sono mio fratello Matt e sua moglie Alice. E quello è Ben» aggiunse, accennando alla foto di Hannah che guardava con occhi adoranti un uomo alto, bruno e dall'aria pericolosa. «È stata scattata prima che si separassero.»
    C'era poi una foto dei tre fratelli in riva a un lago, con Zac in mezzo.
    «E questa?» chiese Libby divertita, indicando una foto che mostrava Zac, chiaramente in preda al panico, con un neonato in braccio e un bimbetto poco giù grande aggrappato ai pantaloni. «Non mi sembra che questi bambini ti detestino» osservò maliziosa.
    «Hanno cominciato a urlare un attimo dopo aver scattato la foto» ricordò Zac con un brivido. «Ti ho immaginata molte volte nella mia camera da letto» aggiunse in un tono completamente diverso, «ma non pensavo certo che ci mettessimo a discutere di vecchie foto.» Quella frase ricordò a Libby perché erano là. «Già, hai ragione. Perché non prendiamo il caffè in salotto e parliamo un po'?» propose.
    Quando notò che Zac osservava affascinato i suoi piedi nudi, cercò di nascondere le dita nel folto tappeto.
    «D'accordo» concordò lui con voce strozzata. «Andiamo in salotto.»
    A che serviva parlare, poi?, si chiese Zac dopo qualche minuto di silenzio impacciato, stringendo la tazza di caffè fumante. «Di che cosa volevi parlare?» attaccò. Libby appoggiò la tazza ancora semipiena su un tavolino e intrecciò le mani in grembo.
    «Lo sai: di te e di me. Di noi. Del nostro rapporto, ammesso che ne abbiamo uno.»
    «Oh, sì, certo che l'abbiamo!» confermò Zac. «Non so pensare a un argomento migliore: come proseguire la nostra relazione.»
    «Ma Zac, questo è solo il nostro terzo appuntamento!»
    «E allora? A volte ne bastano anche meno, per iniziare una storia.»
    «A me sembra che stiamo andando troppo in fretta» insistette Libby, ostinata.
    «Forse è vero» ammise Zac. «D'altra parte, durante il tuo travaglio ci siamo conosciuti meglio che in settimane di appuntamenti a cena o al cinema.»
    Si appoggiò allo schienale del divano e allungò le gambe sul folto tappeto; pareva a proprio agio, mentre Libby era terribilmente nervosa.
    «Ma ancora non ci conosciamo veramente. Il travaglio ci ha dato un senso di intimità, facendoci sentire... ecco... come se...»
    «Come se fossimo più legati di quanto siamo veramente» completò Zac per lei.
    «Esatto.»
    «Non ti sei mai fermata a pensare che questi sentimenti potrebbero essere giusti?»
    «E tu non hai mai pensato che potrebbero non esserlo?» ribatté Libby.
    Rimase un momento in silenzio, cercando di riordinare i propri pensieri, poi riprese a parlare lentamente.
    «Se questi sentimenti fossero giusti, allora mi sentirei meglio alla prospettiva di... ecco, avere una relazione...»
    «Intima» finì ancora una volta Zac per lei.
    Quelle intromissioni la irritavano, ma doveva ammettere che aveva difficoltà a concludere le frasi.
    «Sì, intima» concordò facendosi coraggio. «Comunque, continuo a pensare che non ci conosciamo abbastanza.»
    «Non riesco a immaginare un modo migliore per conoscersi che fare l'amore.»
    «Sul piano fisico puoi avere ragione, ma non su quello mentale o emotivo.»
    Zac sospirò esasperato.
    «Oh, insomma, io ti conosco! So che ti piacciono la fantascienza, i gialli, i cani, le piante e la cucina italiana, l'arte precolombiana e le orchidee. Adori i vecchi film e l'insegnamento e sei liberale in politica.»
    «Questo non significa conoscermi. Ci sono molte cose di me che ancora ignori. Per esempio, potrei essere una persona orribile.»
    «Avanti, raccontami qualcosa di orribile che hai fatto» la sfidò Zac.
    Libby rimase a riflettere un attimo, poi fece schioccare le dita con aria trionfante.
    «Ho trovato! Una volta ho copiato un compito in classe.»
    «E quanti anni avevi?»
    Libby abbassò lo sguardo sulle mani.
    «Otto, credo» confessò poi.
    «Caspita, un vero atto criminale!» commentò Zac, ironico. «Avanti, Libby, raccontami qualcosa di te che dovrei veramente sapere.»
    «Sono impaziente e a volte ostinata.»
    «Questo l'ho notato» borbottò lui. «Su, dimmi qualcosa che non so.»
    «Ma Zac, tutto questo è assurdo!»
    «Ah sì? Ascoltami bene, Libby: noi due ci conosciamo meglio di quanto tu non pensi. Abbiamo vissuto un'esperienza incredibile, insieme; si imparano un sacco di cose sulla gente, in momenti simili. Già ora ti conosco meglio di quanto conoscessi molte donne a cui sono stato legato. Dunque, che cosa hai bisogno di sapere su di me, a parte il fatto che sono un tipo in gamba?» finì con un sorriso divertito.
    Libby avrebbe voluto saperne di più sulle altre donne, ma preferì restare su un terreno più neutro.
    «Qual è il tuo colore preferito?»
    «Il rosso.»
    Dopo aver visto la sua stanza, la cosa non la stupiva.
    «Lo immaginavo. Allora perché il tuo appartamento è tutto in bianco e nero?»
    Zac apparve un po' meno a proprio agio.
    «Ho detto al decoratore che volevo qualcosa di molto definito e lui ha trovato questa soluzione» spiegò con una punta di imbarazzo.
    «E ti piace?»
    Possibile che gli piacesse quell'ambiente statico e asettico?
    «Ma certo! Lo trovo molto... ecco, ordinato» proclamò Zac. «E ora torniamo al tema: conosci già i miei gusti in fatto di libri, cibo e film. Le tue idee politiche coincidono con le mie, sai che mi piace l'arte precolombiana e che il mio colore preferito è il rosso. Che altro hai bisogno di sapere?»
    «Qual è il tuo piatto preferito?»
    «C'è bisogno di chiederlo?» ridacchiò Zac.
    «Un piatto italiano?» tirò a indovinare Libby.
    «Giusto! Le fettuccine panna e prosciutto, per l'esattezza. Vedi, la mia vita è un libro aperto.»
    «Qual è il tuo hobby?»
    Zac la guardò confuso.
    «Come sarebbe a dire, il mio hobby?»
    «Cosa fai per divertirti?» puntualizzò Libby.
    «Gioco a tennis quattro volte alla settimana con Ryan Miller, il mio vice» rispose lui dopo una breve riflessione.
    Ma si divertiva davvero a giocare, o piuttosto lo faceva perché, con un lavoro sedentario come il suo, le partite lo aiutavano a tenersi in forma? Quando era stata l'ultima volta che si era davvero divertito a fare qualcosa?
    «E tu, cosa fai per divertirti?» le chiese. E ora voglio proprio vedere cosa mi risponde, pensò soddisfatto.
    «Leggo, curo il giardino, noleggio la cassetta di un vecchio film e me lo guardo mangiando pop-corn. Mi piace andare in bicicletta.»
    «Anche a me.»
    Aveva una vecchia bici, sebbene non la usasse da anni. Probabilmente funzionava ancora.
    «Potremmo incontrarci e fare un giro al parco, qualche volta» propose Libby.
    «Potrebbe essere un'idea» concordò Zac.
    Lo entusiasmava di più la prospettiva di vedere insieme un vecchio film, però. Con un po' di fortuna si sarebbero persi il film e i pop-corn, per dedicarsi a passatempi molto più eccitanti.
    «E ora, torniamo alle scuse che stai tirando fuori per non venire a letto con me...»
    «Non mi piace il sesso usa e getta.»
    Zac le lanciò un'occhiata ardente e scosse la testa.
    «Dubito molto che tra noi sarebbe così. Mi sembra più probabile qualcosa di caldo e intenso.»
    «Lo penso anch'io» concordò Libby senza riflettere. «Ma sarebbe comunque una storia di breve durata» si riprese poi, «e io voglio qualcosa di più.»
    Zac allungò una mano e prese tra le dita una lunga ciocca di capelli neri.
    «Che cosa vuoi, Libby? Il Principe Azzurro? E vissero per sempre felici e contenti!»
    «E se anche fosse, che male ci sarebbe?»
    «Be', temo che dovrai aspettare a lungo.»
    «Tu non credi nell'amore e nel matrimonio?»
    «Non so se l'amore esista davvero. Il matrimonio esiste, ma non sono sicuro che sia una buona cosa.»
    «Le coppie felicemente sposate avrebbero qualcosa da dire al riguardo.»
    «E chi sono? Io non ne conosco. Guarda Hannah e Ben. E tu non fai eccezione.»
    «E tuo fratello Matt e sua moglie? Dalla foto sembrano felici.»
    «Già. Ma chi può dire se durerà?»
    Libby si strinse nelle spalle.
    «Non si può neanche dire il contrario. Certo, se inizi un matrimonio pensando che sia un impegno temporaneo, del quale liberarsi in qualsiasi momento, non ti impegnerai molto per farlo funzionare.»
    «E tu ti sei impegnata?»
    Libby lo guardò con occhi limpidi come un cielo d'estate.
    «Con tutte le mie forze. Dopo il primo anno cominciammo a frequentare un consulente matrimoniale; quando Bobby decise che non era un problema suo e smise di andarci, io continuai. Speravo di fargli capire che cosa stava succedendo alla nostra unione.»
    «Lo ami ancora?»
    Libby scosse la testa.
    «No. L'amore è morto dopo due o tre anni, quando Bobby ha perso il settimo lavoro e si è messo con la terza o la quarta amante.»
    «E comunque continui a credere nei matrimoni d'amore.»
    «Ne ho visti parecchi: quello dei miei genitori e dei miei nonni, e anche vari zii e amici.»
    «Ma non continuerai ad aspettare il Principe Azzurro, spero. Quello davvero non esiste.»
    «Forse. Ma forse sì.»
    Forse ti assiste durante il parto e aiuta tua figlia a nascere, aggiunse dentro di sé.
    «Comunque, ora ho una bambina e devo stare attenta a darle il buon esempio.»
    «Dubito che una bimba di due mesi si accorga di questo» ribatté Zac con lieve ironia.
    «Tu non mi ascolti!» protestò Libby.
    «Ma certo che ti ascolto.»
    «No. Magari mi senti, ma non stai attento a quello che dico. Forse è meglio che torni a casa. Si sta facendo tardi e tu sarai stanco. Dov'è la mia borsa?» finì guardandosi intorno.
    Zac si appoggiò con la schiena alla spalliera del divano, nascondendo la piccola borsa da sera.
    «Non ne ho idea» disse con aria innocente.
    Libby continuò a guardarsi intorno, fino a che non vide la tracolla che spuntava da sotto le sue gambe.
    «Eccola là!» esclamò trionfante.
    Zac continuò a fissarla con aria di totale innocenza.
    «Vieni a prenderla, se la vuoi» la sfidò.
    «Tu pensi che non ne abbia il coraggio, eh?» ribatté Libby bellicosa.
    «Esatto» rise lui.
    Libby strinse le labbra, si alzò e avanzò verso di lui. Poi, a braccia conserte sul petto, lo osservò da tutti i lati, come se stesse cercando di decidere da quale parte le convenisse attaccare. Poi, tutto d'un tratto, lo colpì alle costole.
    Zac la schivò, ma Libby lo attaccò subito dall'altra parte e riuscì a impossessarsi della borsa.
    «Ehi, non vale!» protestò Zac con una risata che smentiva la sua aria indignata. «Hai giocato sporco.»
    «E allora?» rise a sua volta Libby.
    «Anch'io posso giocare sporco» mormorò Zac minaccioso.
    Senza preavviso, la prese per la vita e la trascinò giù, facendosela sedere in grembo, dove lei poteva sentire la sua eccitazione crescente.
    Libby si irrigidì subito.
    «Lasciami andare, Zac.»
    «Ti prego, resta qui» ribatté lui con voce suadente.
    «Lasciami andare» ripeté Libby.
    «Tra un minuto. Ora voglio goderti un po'.»
    Libby si sentiva calda, con le guance arrossate e la testa confusa. E il calore divenne ardente, quasi insopportabile, quando le mani di Zac le carezzarono il seno.
    «Volevo farlo fin da quella volta in macchina» confessò. «Te la ricordi?»
    E come avrebbe potuto dimenticarla?
    «Volevo vedere se eri davvero così morbida e piena come sembrava.»
    Le racchiuse i seni nelle mani e strinse piano, come se palpasse un frutto maturo, chiudendo gli occhi per assaporare meglio quel piacere delizioso.
    «Lo sei» decretò. «Anche più di quanto sognassi.»
    «Zac, basta!» lo implorò lei debolmente.
    Ma lui mise a tacere ogni protesta prendendole le labbra.
    «Forse dovrei fermarmi, ma non credo che lo farò.»
    Le slacciò il primo bottone del vestito, poi il secondo e insinuò la mano all'interno della scollatura, fino a sfiorare il reggiseno di pizzo.
    Libby fremette tutta, travolta dall'inebriante reazione fisica che il tocco di lui le provocava.
    «Zac, non so se...» mormorò smarrita.
    «Lascia fare a me, piccola» la rassicurò lui.
    Aprì il terzo bottone del vestito, poi il quarto e insinuò la mano per slacciare il reggiseno. Quando il fermaglio cedette posò le mani sui seni morbidi, premendo le dita contro la pelle. Libby chiuse gli occhi e Zac glieli baciò piano.
    Non la travolse con un bacio impetuoso, ma seguì i contorni della bocca con la punta della lingua per poi tempestarle di piccoli baci la mascella, le guance e le orecchie.
    Quindi tornò alle labbra, in un bacio che divenne una resa totale.
    Libby le dischiuse con un gemito e lasciò che la sua lingua si insinuasse avida e ardente, inclinando la testa all'indietro con un invito che Zac si affrettò a raccogliere.
    Tempestò di baci il collo e il seno, mentre le faceva scendere il vestito sulle spalle. La sua pelle non era solo morbida come una crema, ma aveva anche un gusto dolce e ricco, un gusto che poteva far perdere la testa a un uomo.
    Il vestito ricadde fino alla vita e Zac fece scivolare le spalline del reggiseno lungo le braccia, per poi eliminarlo del tutto. Mosse le labbra alla conquista di quel nuovo territorio e... si trovò la bocca piena di carta.
    «Ehi, ma che...?»
    La sua esclamazione fu come un vento freddo che disperse la nebbia in cui Libby si sentiva avvolta. Si irrigidì un attimo, poi strinse al petto il vestito e scivolò via dal suo grembo.
    Con suo grande sollievo Zac non tentò di fermarla, pur mantenendo un braccio intorno alle sue spalle.
    «Come mi è finita in bocca questa carta?» sbuffò tra il furioso e il divertito.
    Libby distolse lo sguardo, mortificata.
    «L'ho messa io nel reggiseno, nel caso perdessi un po' di latte» spiegò.
    Zac la guardò esterrefatto, poi si illuminò.
    «Ah, ho capito! E succede spesso?»
    Libby rispose a occhi bassi.
    «Ora quasi mai, ma accadeva quasi di continuo nelle prime settimane. A volte bastava sentire il pianto di un bambino alla televisione perché succedesse.»
    «Che scomodità!»
    «Già, può essere imbarazzante. Ma ora, per fortuna, non mi capita quasi più. Non volevo correre rischi, ecco tutto» finì debolmente.
    Finì di abbottonare il vestito e ne lisciò le pieghe impacciata.
    «E questa volta qual è stata la causa?» volle sapere Zac.
    «Non ne ho idea. Stavo pensando a te e...»
    Si fermò di colpo, nella speranza che lui non avesse sentito, ma il sorriso soddisfatto che si disegnò sulle labbra di Zac le confermò il contrario.
    «È ora che torni a casa» dichiarò confusa.
    «Se è questo che vuoi» concesse Zac continuando a sorridere. «Non preoccuparti, Libby, sei al sicuro. Per adesso, almeno. Ma non mi fermerò, ti avverto. Ci conosciamo abbastanza e io ti voglio. Ti desidero da morire.»
    «E questo ti basta?»
    «Sì. Non ho tempo per una moglie, un figlio e una casetta, almeno nei prossimi anni. E dubito che avrò mai tempo per dei figli: ti prendono troppo impegno e troppa energia. Comunque, io e i bambini non andiamo d'accordo.»
    «Mi considero avvertita» mormorò Libby con il cuore pesante. «Ma lo stesso vale per te: se voglio, posso essere molto convincente. E sono convinta che tu possa benissimo andare d'accordo con i bambini.»
    «Voglio vedere come farai a convincermi. Sarà una sfida interessante.»
    Libby lo fissò seria.
    «Vale la pena di provarci, Zac?»
    «Stai parlando del nostro rapporto?»
    «Sì. Siamo così diversi. Non ti piacciono i bambini e io ho una figlia. Tu non vuoi sposarti e io credo nel matrimonio.»
    «Anche dopo quello che ti ha fatto passare Bobby?»
    «Sì. Il problema non era il matrimonio, ma il fatto che lui non fosse pronto per un rapporto serio.»
    «Non lo sono neanch'io.»
    «Per questo mi chiedo se valga là pena di insistere.»
    Zac rimase in silenzio, a riflettere.
    «Tra noi c'è qualcosa di speciale, Libby» disse infine. «Qualcosa che vale la pena di esplorare. Io voglio rivederti.»
    «Io... non so. Ho bisogno di tempo per pensarci. E ora, puoi accompagnarmi a casa?»
    Durante il tragitto, nella macchina regnò un silenzio carico di cose non dette, di confusione, cautela e smarrimento.
    «Non sei obbligato ad accompagnarmi fino alla porta» disse Libby quando l'auto si fermò nel vialetto.
    Zac scese lo stesso e la prese per un gomito, guidandola verso casa.
    «Ti chiamo domani.»
    Lei scosse la testa.
    «No. Dammi un po' di tempo.»
    Per tutta risposta, Zac l'attirò a sé e le cercò le labbra in un bacio ardente, mentre le sue mani la carezzavano con passione.
    «Questo è tutto il tempo che ti concedo» l'ammonì.
    Poi si tirò indietro e percorse il vialetto senza voltarsi, lasciandola debole e scossa. Se non si fosse appoggiata alla porta, sarebbe caduta in ginocchio.
    L'unica consolazione era che l'espressione di Zac era turbata quanto la sua.


    7

    Zac chiamò il giorno dopo, come promesso, ma la colse nel bel mezzo del bagno di Victoria. Libby ebbe il tempo di dire poche parole, poi dovette riappendere e tornare dalla bambina urlante.
    Alla luce del giorno, con la figlia cambiata e addormentata tra le braccia, sentì che aveva fatto bene a frenare le cose, la sera prima. Certo, sentire la voce dolce e profonda di Zac al telefono non l'aiutava a mantenere la decisione presa. Anzi, bastava una parola per farla sciogliere.
    Sapeva essere così convincente, tanto che la sua voce pareva un magnete pronto ad attirarla in modo irresistibile. La richiamò più tardi, nel pomeriggio, e Libby inventò una scusa per non restare al telefono.
    Zac ritentò alle nove di sera.
    «Sto mettendo a letto la bambina» spiegò Libby. «Non è il momento ideale.»
    All'altro capo del filo ci fu una pausa.
    «Devo prendere un appuntamento per richiamarti?» chiese Zac, esasperato.
    «Senti, te l'ho detto ieri sera: ho bisogno di tempo per riflettere. Vogliamo cose diverse da un rapporto. Tu vuoi...»
    «Del sesso bollente?»
    «Vuoi smetterla di finire le frasi per me?» scattò Libby, irritata. «Comunque, sì, è chiaro che ti interessa solo questo. Io voglio di più. Voglio un futuro e in questo momento non so se me la sento di avviare una relazione con un uomo che non può darmelo.»
    «Non è finita, tra noi, piccola, neanche per sogno. Ma se hai bisogno di tempo, va bene, l'avrai. Solo, non posso garantirti quanto te ne concederò.»
    Riappese bruscamente e Libby sospirò di sollievo e di rimpianto.

    Zac chiamò due giorni dopo. Chiese notizie della bambina e le parlò di una serata tutta dedicata ai film di fantascienza, in programma alla televisione per il venerdì seguente. Libby si aspettava che le proponesse di passarla insieme, ma lui non lo fece. Così lei riappese il telefono sconcertata e sedette sul divano vicino a Victoria.
    «Che ne pensi?» chiese alla bambina, intenta a succhiare il ciucciotto e a dimenare i piedini. «Sono così confusa... Gli ho chiesto di darmi tempo per pensare, ma ora che me l'ha dato non sono contenta. Tu cosa faresti?»
    Victoria perse il ciuccio e cominciò a piangere. Libby glielo rimise in bocca con un sospiro di simpatia.
    Il venerdì sera Zac non l'aveva ancora chiamata e lei stava considerando la possibilità di telefonargli. In fondo era un amico e l'aveva aiutata a partorire. Che cosa c'era di male, dunque, a farsi viva?
    Compose in fretta il suo numero, prima di pentirsene, ma le rispose la segreteria telefonica. Riattaccò con rabbia. Tante chiacchiere sul legame speciale che li univa e poi non aveva faticato a trovare qualcuno con cui uscire il venerdì sera!
    Mise a letto Victoria e frugò nel frigorifero alla ricerca di un gelato: in genere lo preferiva al cioccolato, ma visto che sembrava far male alla bambina ne scelse uno alla vaniglia. Certo, conteneva un sacco di calorie... Be', se fosse ingrassata avrebbe dato la colpa a Zac.
    Quindici minuti dopo l'inizio del primo film di fantascienza, suonò il telefono.
    Per un attimo Libby sentì solo le urla di un bambino, poi una voce affannata la chiamò per nome.
    «Zac, sei tu?» chiese confusa.
    «Sì. Libby, ho bisogno d'aiuto!» gridò disperato. «Nicky piange da due ore e non so più cosa fare.»
    «Gli hai dato da mangiare?»
    «Sì. L'ho anche cambiato ed è un'ora che cammino avanti e indietro tenendolo in braccio. Ti prego, aiutami. Sto diventando sordo e il maledetto gatto di Hannah mi soffia ogni volta che gli passo vicino.»
    «Cosa vuoi che faccia?»
    «Che cosa? Non ti sento! Puoi alzare la voce?»
    Libby ripeté la domanda a voce più alta.
    «Puoi venire qui ad aiutarmi? Ti prego, Libby. Non ne posso più.»
    «Dov'è Hannah?»
    Ci fu uno schianto, seguito da una serie di imprecazioni alla volta del gatto. Libby capì che era meglio rimandare le domande.
    «Arrivo appena possibile» promise.
    Riappese e restò un attimo a fissare il telefono: Zac non le era mai sembrato così agitato, nemmeno in ospedale durante il parto.
    Infilò in fretta un paio di jeans e una maglietta e mise Victoria nel seggiolino. La bimba continuò a dormire e lei sospirò sollevata.
    Era stata una sola volta a casa di Hannah, ma non ebbe difficoltà a trovarla. Una volta imboccata la via giusta, vide subito la BMW rossa di Zac.
    La porta si aprì non appena lei fu scesa dalla macchina e Zac si precipitò fuori.
    «Grazie a Dio sei venuta!» esultò. «Spero che Nicky non sia malato. Non fa che strillare.»
    Libby slacciò la cintura che tratteneva Victoria al seggiolino e tese la bambina a Zac.
    «Tienila tu mentre prendo le sue cose.»
    Zac abbassò lo sguardo sulla piccola addormentata.
    «Ehm, non mi sembra una buona idea.»
    «Ti insegnerò a tenerla bene in braccio, ma prima sarà meglio occuparsi di Nicky.»
    Libby prese la borsa con pannolini e biberon e si avviò verso la casa, seguita da Zac, che teneva la bambina di fronte a sé come se si trattasse di una bomba pronta a esplodere.
    Appena entrata, Libby fu investita dalle urla provenienti dalla culla posta in un angolo.
    Posò una mano sulla fronte del bambino e la trovò rossa e sudata, anche se non c'erano segni di febbre.
    «Perché gli hai messo tante coperte?» chiese Libby togliendone due. «Dio santo, ma ha addosso una tuta di lana!»
    Aprì la lampo e gliela tolse. Le grida del bimbo si fecero meno acute.
    «Ha bagnato tutte le altre» si difese Zac. «Così gli ho messo la prima cosa che ho trovato nel cassetto. Sta bene, secondo te?»
    «Credo di sì.»
    Libby prese Nicky e se lo appoggiò sulla spalla, cullandolo e battendogli colpetti delicati sulla schiena, fino a che si fu calmato. Poi portò la culla in camera del piccolo, mentre Zac sedeva sul divano in salotto, sempre tenendo in braccio Victoria.
    Chinò lo sguardo sulla bambina addormentata: sembrava una bambolina, con la tutina rosa e le lunghe ciglia sugli occhi chiusi. Zac sentì una strana sensazione al petto: poteva essere un'indigestione, ma temeva che fosse qualcos'altro, qualcosa che avrebbe potuto cambiare completamente la sua vita.
    Libby uscì in punta di piedi dalla stanza di Nicky e chiuse la porta.
    «Credo che dormirà per un po'. E ora spiegami come mai sei finito qui a fare il baby sitter. Come ha fatto Hannah a convincerti?»
    «Vuoi prendere la bambina?» chiese Zac, speranzoso.
    Ma lei non diede segno di aver sentito. Sedette su una sedia vicino al divano e accavallò le gambe. Zac non poté fare a meno di ammirare il modo in cui i jeans aderivano alle sue gambe snelle. Poi lo sguardo gli cadde sugli stivaletti che portava: non erano sexy come i suoi piedi nudi, ma niente male ugualmente.
    «Hannah è dovuta andare a Pittsburgh per quel servizio di vendite su ordinazione che sta mettendo in piedi. Voleva anche incontrare una sua amica dell'università e mi ha chiesto di badare a Nicky. Mi ha detto che probabilmente avrebbe dormito, ma in caso contrario avrei dovuto solo dargli il biberon, fargli fare il ruttino e rimetterlo a letto. Però non è andata così» finì con un borbottio contrariato.
    «Ora sta bene, comunque» lo rassicurò Libby. «Ma c'è qualcosa che dovresti ricordare, se ti capiterà di fargli ancora da baby sitter.»
    «Non ne ho alcuna intenzione» dichiarò con tanta foga che Victoria trasalì.
    Zac la guardò apprensivo, ma lei si limitò a stirarsi e a sospirare e continuò a dormire.
    «Te l'ho già detto, sono un disastro, con i bambini. Non so perché ho accettato di badare a Nicky stasera.»
    «Tenerli in braccio nel modo giusto ti potrebbe aiutare» suggerì Libby.
    «Perché, così non va bene?» si inalberò Zac.
    «Un bimbo non è un sacco di patate, Zac. Ha bisogno di sentirsi al sicuro. Se hai tenuto così Nicky, non c'è da meravigliarsi che urlasse come un ossesso. Tienila più vicina, così, e avvolgile intorno anche l'altro braccio.»
    Gli mostrò come fare e Zac prese a cullare Victoria con un'espressione così intensa che Libby si sentì salire le lacrime agli occhi. Non vedeva come gli veniva naturale tenere in braccio sua figlia?
    «Così?» chiese Zac, incerto.
    «Sì.»
    «Non è poi tanto difficile» ammise lui con un sorriso. «È come tenere stretta una palla quando si corre verso la porta durante una partita di football.»
    «Hai giocato a football?» chiese Libby.
    «Sì, all'università.»
    In quel momento suonò il telefono.
    «Rispondi tu, per favore» disse Zac, agitato. «Spero che non abbia svegliato Nicky.»
    Libby tornò un attimo dopo.
    «È Hannah» annunciò.
    «Dille che va tutto bene e chiedile a che ora torna» la istruì Zac.
    Libby riferì il messaggio.
    «Tornerò verso mezzanotte» rispose Hannah. «Sei sicura che vada tutto bene? Come mai sei là?»
    «Be', Zac e io volevamo vedere il festival di fantascienza alla televisione.»
    «E lui dov'è?»
    «Sul divano con Victoria.»
    «Nel senso che la tiene in braccio?» trasecolò Hannah.
    «Sì.»
    «Allora c'è speranza, per lui.»
    «Già. Ti stai divertendo?»
    «Moltissimo. Ti chiamo domani per raccontarti. Credo proprio che riuscirò ad avviare il mio progetto: sarà la prima volta che riesco a fare qualcosa da sola. Ci vediamo tra un paio d'ore» si congedò Hannah.
    «Quando torna?» chiese Zac non appena Libby fu rientrata in salotto.
    «Verso mezzanotte.»
    «Speriamo che Nicky continui a dormire» sospirò Zac.
    «Bene, sarà meglio che vada» dichiarò Libby senza guardarlo. «Nicky è a posto e...»
    «Ti prego, resta.»
    «Ma...»
    «Potremmo vedere i film insieme. Se te ne vai ora, ne perderai una buona parte» insistette Zac.
    «Be', potrei restare per un po'» cedette Libby.
    «Che cosa vuoi fare con la bambina?»
    «Intendi dire che non hai voglia di tenerla in braccio tutta la sera?» indagò Libby con una punta di malizia.
    «Posso tenerla ancora un po', mentre tu le sistemi un posto per dormire. Puoi usare la carrozzina» disse Zac indicandogliela.
    «Sembra a suo agio, tra le tue braccia» notò Libby.
    «Non farti strane idee» l'ammonì Zac. «E poi, sei tu che dovresti star bene tra le mie braccia.»
    «Zac!» lo rimproverò lei.
    «Va bene, va bene, mi dispiace» borbottò lui con un sospiro. «Oh, maledizione!» aggiunse con un grido.
    «Cos'è successo?»
    «I pantaloni sono caldi e bagnati» spiegò Zac, cupo.
    «Oh, mi dispiace. Passamela.»
    «Con grande piacere.»
    Zac tese la bambina alla madre e fissò furioso la larga macchia scura che si allargava sui calzoni kaki. Si diresse in cucina per prendere dei tovagliolini, mentre Libby cambiava la figlia e la metteva a letto nella carrozzina. Quando Zac ricomparve, pieno di tovagliolini infilati nei calzoni, trattenne a stento un sorriso.
    «Non posso cambiarmi, quindi me li devo tenere» brontolò Zac. «Vieni qui.»
    «Non volevi guardare la televisione?» ribatté Libby azionando il telecomando.
    «Vieni a sederti vicino a me» la invitò Zac battendo un colpetto sul cuscino del divano.
    «Vedo meglio da qui» replicò Libby prendendo posto su una comoda sedia a dondolo.
    Si chinò sugli stivali e Zac ebbe un'improvvisa ispirazione.
    «Se ti fanno male, puoi toglierli» la invitò.
    «Come fai a sapere che mi fanno male i piedi?» chiese Libby, stupita.
    Non lo sapeva, infatti, ma ci sperava.
    «Be', gli stivali sembrano nuovi di zecca.»
    «Infatti. E sono piuttosto rigidi.»
    Cominciò a togliersene uno, ma Zac intervenne rapidamente e lo fece al posto suo. Solo sfilarle le mutandine sarebbe stato più sexy, pensò, controllando a fatica il tremito delle mani. Poi le massaggiò i piedi e le caviglie attraverso le calze leggere.
    «Mmm, che bello!» mormorò Libby.
    Zac le tolse l'altro stivale, massaggiò il piede e sfilò la calza, per poi tornare a carezzarlo piano, delicatamente. Quindi ripeté l'operazione con l'altro. Erano piedini deliziosi, sottili e perfetti.
    «Ti sei mai tinta le unghie di rosso?» chiese senza riflettere.
    Libby aveva chiuso gli occhi per assaporare meglio quelle lente carezze; li riaprì e lo guardò sconcertata.
    «Perché me lo chiedi?»
    «Semplice curiosità: le unghie laccate di rosso mi piacciono da morire» rispose, passandole ancora le dita sulle caviglie e sulla pianta dei piedi.
    Lei fremette e Zac continuò.
    «Sta per cominciare il film» gli ricordò Libby con voce malferma.
    «Vuoi che mi fermi?»
    «No. Cioè, sì. Non voglio perdere il film.»
    «Se è questo che vuoi...»
    Indugiò ancora un attimo sulla caviglia snella, poi si alzò e le voltò le spalle in fretta, in modo che non notasse la sua evidente eccitazione.
    «Vieni a sederti vicino a me» le ripeté. «Solo per un po'.»
    «Ma dovrei controllare i bambini...» protestò Libby.
    «Se hanno bisogno di qualcosa ce lo faranno sapere. Su, vieni qui» insistette Zac tendendole la mano.
    Lei gliela diede e lo raggiunse riluttante.
    «Temo che non sia una buona idea» mormorò impacciata. «Sai cosa succede quando... quando...»
    «Quando stiamo troppo vicini?»
    «Ecco, stai di nuovo finendo le frasi al posto mio!» protestò Libby.
    Ma il sorriso smentiva il tono di rimprovero.
    «Non succederà niente, se non vuoi» le assicurò Zac.
    «Ho sempre voluto quello che è successo» chiarì Libby, «ma questo non mi impedisce di credere che sia meglio lasciar perdere. Le nostre idee sono ancora lontane anni luce.»
    «Ma i nostri corpi no.»
    «Comunque, vogliamo cose diverse» insistette Libby stringendo ostinatamente le labbra.
    «Io voglio te e tu vuoi me, lo sai benissimo.»
    «Basta, Zac. Non voglio più parlarne» scattò lei in tono secco. «Lasciami guardare il film» aggiunse addolcendo la voce.
    «Ai tuoi ordini» declamò Zac.
    Si appoggiò allo schienale e le passò un braccio intorno alle spalle con aria casuale, attirandola a sé.
    Dopo qualche minuto Libby gli lanciò un'occhiata sospettosa, ma lui si limitò a sorridere con aria innocente.
    «Bel film, vero?» commentò.
    Libby assentì e tornò a guardare lo schermo. Era quello che aveva chiesto, eppure non sapeva se sentirsi sollevata o avvilita.

    Rimasero a guardare il film seduti vicini, in un silenzio amichevole. Una parte di Libby era delusa perché Zac non aveva portato avanti i tentativi di seduzione, ma un'altra apprezzava che le lasciasse il tempo di riflettere sul loro rapporto.
    Purtroppo, però, più tempo passava con Zac meno si chiarivano le cose. Non c'era bisogno che la toccasse per scatenare l'attrazione possente che sentiva per lui: bastava la sua voce profonda e carezzevole. E quando Zac non c'era, l'immaginazione faceva la sua parte.
    In quel momento, seduta sul divano accanto a lui, era più cosciente che mai del suo braccio che le cingeva le spalle e delle dita che passavano leggere sul collo. Uno scatto di immaginazione, e poteva sentirle sul seno, sul ventre, tra le gambe...
    Nemmeno nei primi tempi dell'infatuazione per Bobby si era sentita così. Libby fece un respiro profondo e cercò di concentrarsi sul film, ma non era facile, avvolta com'era in una nuvola di desiderio.
    «Qualcosa non va?» si informò Zac.
    Fu allora che commise un errore: si voltò verso di lui e lo guardò negli occhi. Non appena vide l'avidità che li illuminava, si sentì perduta. Come fermare ciò che non poteva essere fermato? Con un lieve sospiro Libby si arrese al destino.
    Zac le carezzò piano il viso, poi affondò le dita nei capelli. Quindi si chinò a baciarle un angolo della bocca e poi un altro, per passare alle palpebre, al naso e alle guance. Non le prese le labbra finché Libby non le dischiuse in un'offerta invitante.
    Allora si lanciò con un gemito soffocato, insinuando la lingua in un'esplorazione avida e ardente, le sfilò la maglietta dai jeans e prese a carezzarla attraverso la stoffa sottile del reggiseno.
    Quando i pollici trovarono i capezzoli sensibili, Libby emise un suono rauco. Zac slacciò il fermaglio e passò le mani sui seni nudi e rosei, mentre lei si lasciava andare chiudendo gli occhi. Non aveva mai desiderato tanto qualcosa, ma ancora di più voleva toccarlo, esplorarlo a sua volta.
    Carezzò piano il petto muscoloso, coperto dalla camicia di cotone; Zac trattenne il fiato, incoraggiandola a continuare. Ma lei voleva di più.
    Zac sembrò capirlo e la lasciò, giusto il tempo per sfilarsi la camicia e gettarla sul pavimento. Libby gli posò le mani sul petto.
    «Sì, toccami» la esortò con voce rauca.
    Abbassò lo sguardo sulle sue mani che passavano gentili sulla peluria scura e gliele premette contro il petto.
    «Senti come mi batte il cuore, Libby.»
    Lei fece lo stesso con la sua mano, mostrandogli che anche il suo cuore batteva come un tamburo, quindi gli coprì i capezzoli piatti con i palmi. Zac la imitò.
    Continuarono così, in un gioco di specchi, ognuno facendo all'altro quello che sperimentava su di sé. Zac la fece distendere con la testa appoggiata al suo braccio e le baciò i seni offerti, uno alla volta, per poi posare le dita sul bottone dei jeans. Cercò di slacciarlo, ma non ci riuscì.
    «Maledizione!» borbottò tra i denti. «Non li mettere più» l'ammonì.
    Infine vi riuscì, calò la cerniera lampo e passò le dita sul bordo di pizzo delle mutandine.
    «Zac» mormorò Libby con voce rotta.
    Era un appello soffocato a porre fine a quel tormento e allo stesso tempo a non fermarsi più.
    Zac insinuò le dita fino al suo luogo più intimo e Libby si inarcò per venirgli incontro.
    «Sei così dolce, così calda» mormorò Zac con voce rotta.
    Un pianto acuto ruppe il silenzio. Libby si irrigidì all'istante.
    «Victoria!» mormorò ansiosa.
    Si rimise a sedere, allacciò il reggiseno e sistemò alla meglio jeans e maglietta, poi corse dalla figlia piangente. Zac si raddrizzò frastornato; un attimo dopo risuonò un altro pianto.
    «Oh, no!» gemette.
    Poi si rimise la camicia e corse dal nipote.

    I bambini piansero per la successiva mezz'ora e Zac e Libby camminarono avanti e indietro nel salotto per calmarli. Appena uno dei due si quietava, l'altro urlava più forte e il primo lo imitava. Alla fine riuscirono a farli smettere. Nicky fece un gran sorriso senza denti, poi un ruttino e infine sputò sulla camicia dello zio.
    Zac sobbalzò disgustato, poi lo mise nella carrozzina prima usata da Victoria e corse in cucina.
    Tornò qualche minuto dopo con una gran macchia umida sulla camicia.
    «È proprio una cospirazione» borbottò furioso. «L'ultima volta che ho visto i figli di Matt, uno mi ha sbavato sui pantaloni e l'altro sulla schiena. E ora ci si mettono pure Victoria e Nicky.»
    Era la prima volta che Zac chiamava sua figlia per nome, notò Libby, seppure per lamentarsene. Possibile che stesse facendo progressi?
    «A proposito, la tutina di Nicky mi sembra umida. Se vuoi tenere un attimo Victoria, vado a cambiarlo.»
    Zac guardò Victoria, ancora piuttosto agitata, e il nipote, tranquillo nella carrozzina, con una macchia umida sul davanti, e decise che era meno rischioso dedicarsi a lui.
    Quando non faceva i capricci era proprio un bel bambino, decise, con il mento determinato e gli occhi scuri di un vero Webster. Gli tolse il pannolino bagnato e Nicky agitò le gambette paffute.
    «Guardalo, Libby» disse, sollevato. «Ha l'aria di divertirsi un mondo.»
    «Zac, c'è qualcosa che dovresti sapere riguardo ai maschietti» lo avvertì Libby.
    «E cioè?»
    «È meglio non lasciarli esposti mentre si cerca un altro pannolino.»
    «Non preoccuparti. Faccio in un momento.»
    Zac andò nella camera del piccolo e ne tornò un attimo dopo con una tutina di spugna e un pannolino. Poi fissò esterrefatto le goccioline che rigavano lo stomaco e le gambe del nipote.
    «Ehi, come mai è di nuovo bagnato?»
    «Ti avevo avvertito» gli ricordò Libby.
    Zac estrasse con un sospiro i fazzolettini dai pantaloni e li usò per asciugare l'ultimo disastro combinato da Nicky.
    Quand'ebbe finito, lo portò in camera e lo mise nella culla, lasciando la porta aperta per sentirlo nel caso riprendesse a piangere. Libby cercò di rimettere Victoria nella carrozzina ma, non appena distesa, la bimba cominciò ad agitarsi.
    Allora rialzò la testa e incontrò lo sguardo di Zac.
    «Sarà meglio che l'allatti. Non ha veramente fame, credo, ma così si calmerà.»
    Sedette sul bordo del divano e sollevò la maglietta. Zac le si mise vicino e la guardò con intensità.
    Libby sorrise imbarazzata e fece per voltarsi, ma lui la fermò.
    «No, ti prego. Mi piace guardarti mentre allatti.»


    8

    Zac la guardò fisso mentre slacciava una coppa del reggiseno da allattamento.
    «Ah, funziona così? Non l'avevo notato, o mi sarei risparmiato tutto quel traffico con il fermaglio» osservò.
    Un mezzo sorriso gli incurvò le labbra mentre osservava Libby che abbassava il capo sulla bambina. Victoria le appoggiò le manine sul seno e prese a succhiare. Zac passò con lo sguardo dall'una all'altra, notando il calore che si irradiava dal bel viso di Libby.
    Non riusciva a distogliere gli occhi da quella scena intima e serena - un inno all'amore materno e un momento erotico allo stesso tempo. All'improvviso immaginò di stringere Libby tra le braccia mentre allattava la figlia e si sentì invadere da uno strano turbamento.
    «Cosa si prova?» chiese con dolcezza.
    «Ecco, non so... è bello» rispose Libby con aria imbarazzata.
    Si fermò, come in cerca delle parole giuste, poi riprese lentamente.
    «Mi fa sentire calda e... unita a lei. È difficile da spiegare» terminò con un sospiro.
    «Non ti fa male?» chiese Zac incuriosito. «Voglio dire, succhia così forte.»
    «All'inizio sì, ma ormai mi sono abituata e non sento più niente.»
    Zac rimase a guardare fino a che la piccola chiuse gli occhi e cominciò a succhiare con meno vigore. Libby le passò un dito sul viso con un tale amore negli occhi che a Zac si strinse il cuore.
    E all'improvviso lui credette di capire quello che Libby aveva cercato di spiegargli poco prima, a proposito dell'esempio da dare alla figlia. Se qualcuno fosse dipeso da lui come Victoria da Libby, probabilmente avrebbe fatto di tutto per quella persona.
    Forse loro due erano davvero troppo diversi: ognuno di loro aveva bisogno di qualcosa che l'altro non poteva dargli. Zac desiderava semplicemente un'amante appassionata e temporanea, mentre Libby voleva e meritava un rapporto permanente. Così, forse, aveva ragione lei: era perfetta per lui, calda e appassionata. Forse era lui a non andare bene.

    Quando Victoria riprese a dormire il film era quasi finito. Rimasero a guardare la televisione in silenzio, ma Zac non avrebbe saputo descrivere ciò che passava sullo schermo nemmeno se gli avessero offerto un milione di dollari.
    Anche per Libby la concentrazione sembrava un problema: si passava una mano tra i capelli lucenti e faceva girare un anello intorno al dito con gesti assenti e nervosi. Zac si chiese dove fosse finita la sua imperturbabile serenità: non l'aveva mai vista così agitata.
    La sua mente, d'altra parte, era più confusa che mai, assediata da idee, pensieri, ricordi, immagini lontane e tuttavia vivide: rivedeva Meggy, la figlia di Pamela, durante una cena disastrosa. La bimba aveva frignato tutto il tempo, gli aveva dato un calcio nello stinco e alla fine era corsa in camera sua dichiarando che lo odiava.
    Ricordava poi i serafici figli di Matt e Alice, che urlavano come ossessi non appena finivano in braccio allo zio Zac, così come aveva fatto Nicky poco tempo prima.
    Poi si rivide a ventun anni, mentre giurava di avere una compagnia tutta sua prima di compierne venticinque. E a venticinque, mentre di riprometteva di finire nella classifica di Fortune dei 500 uomini più ricchi degli Stati Uniti entro dieci anni.
    E poi si trovò davanti l'immagine di Libby con le unghie dei piedi dipinte di rosa, gli occhi azzurro cupo e il sorriso che lo faceva sciogliere. La rivide com'era poco prima, con le labbra gonfie per i baci e i seni nudi tra le sue mani - la donna più bella che avesse mai visto.
    Ma c'era anche il ricordo di Libby con la fronte imperlata di sudore e stretta alla figlia appena nata, il viso stanco soffuso di una felicità radiosa.
    Appena finito il film, Libby si alzò.
    «Ormai Hannah dovrebbe arrivare da un minuto all'altro. Sarà meglio che riporti a casa Victoria e la metta nel suo letto.»
    «Se aspetti che torni Hannah, poi ti riaccompagno io.»
    «Ho la mia macchina.»
    «Ah! In tal caso, guida con prudenza.»
    «Lo faccio sempre. Ho un carico prezioso.»
    Libby prese in braccio Victoria e si chinò verso la grossa borsa piena di pannolini che si portava sempre dietro.
    «Aspetta, faccio io» si offrì Zac.
    Prese la borsa e gliela portò fino alla macchina, buttandola sul sedile posteriore mentre lei sistemava la figlia sul seggiolino.
    Libby sollevò lo sguardo su di lui e gli sorrise timida.
    «Grazie per...»
    «Per avermi salvato?» finì Zac per lei. «A volte i cavalieri senza macchia e senza paura sono donne» aggiunse ridendo. «Buonanotte, Libby» finì carezzandole piano una guancia.
    Perché le era sembrato un addio?, si chiese Libby tornando a casa. Forse per la rassegnazione che aveva colto nei suoi occhi, o per il tono serio e definitivo? Non lo sapeva, ma era sicura che qualcosa fosse cambiato mentre Zac la guardava allattare Victoria. Le era parso serio e pensieroso e verso la fine si era ritirato in se stesso.
    E pensare che avevano quasi fatto l'amore! Aveva perso la testa per la passione, stretta tra le sue braccia, e aveva creduto che a lui fosse successo lo stesso. Perché, allora, era diventato all'improvviso freddo e distante? Era tutta colpa del pianto di Victoria che li aveva interrotti?
    Era mezzanotte passata e la stanchezza forse le annebbiava la mente. Libby detestava l'idea che il loro rapporto fosse già finito: aveva la sensazione che l'avrebbe rimpianto per il resto della vita. Tuttavia temeva che, se non vi avesse posto fine subito, in futuro il rimpianto sarebbe stato ancora maggiore.

    Era l'una. Alle otto del mattino dopo Zac aveva un importante appuntamento con un nuovo distributore, eppure non riusciva a dormire. Camminò avanti e indietro per un po', poi si lasciò cadere sul divano e rimase a fissare i pesci. All'improvviso gli parve stupido avere dei pesci bianchi e neri come il resto dell'appartamento. Perché aveva accettato una soluzione così assurda?
    Inoltre, casa sua era troppo tranquilla. Per tutta la sera si era trovato circondato dalle urla dei bambini, dal ronzio della televisione e dalla voce piacevole di Libby; ora il silenzio tanto invocato gli dava ai nervi. Accese la radio e passò dall'abituale stazione che trasmetteva musica classica a una interamente rock.
    Così andava meglio: forse quel fragore assordante gli avrebbe impedito di pensare. Aveva paura che, riflettendo troppo, avrebbe finito col mandare al diavolo tutto pur di restare con Libby. E questo non poteva permetterselo: aveva programmato la sua vita con troppa cura per consentire a un incontro imprevisto di sconvolgere i suoi piani. Se mai avesse messo su famiglia, sarebbe stato dopo aver raggiunto l'obiettivo che si era prefisso anni prima. E comunque nei suoi disegni non erano previsti dei figli. I fratelli avevano già provveduto a perpetuare il nome dei Webster; dunque, lui poteva fare come preferiva.
    Desiderava Libby con un'intensità senza precedenti, ma rifuggiva da qualsiasi legame duraturo; lei, invece, puntava proprio a quello. Non c'era modo di mettersi d'accordo, dunque. Poteva solo sperare che quel desiderio con il tempo si attenuasse e finisse per spegnersi.
    Per togliersi dalla mente Libby, avrebbe potuto sempre chiedere un appuntamento alla bionda procace che aveva incontrato al club del tennis. Era sicuro che le sue velleità in fatto di durata non sarebbero andate al di là del week end successivo.
    Per correttezza avrebbe dovuto forse parlarne a Libby. In fondo era il minimo che potesse fare: una cena a lume di candela e del buon cibo facevano meraviglie per i sentimenti feriti. Non che gli fosse sembrata troppo colpita, in realtà: aveva detto e ripetuto che loro due volevano cose diverse. In ogni caso, gli sarebbe piaciuto vederla un'ultima volta.
    Le telefonò il lunedì mattina e la invitò per il venerdì sera. Parlarono pochi minuti, perché Zac doveva andare a una riunione, ma quella breve conversazione lo fece sentire meglio.
    In genere gli piacevano le riunioni di lavoro, con la sfida e lo stimolo per le nuove idee che a esse si accompagnavano, ma quel giorno faceva fatica a concentrarsi e la sua mente continuava a divagare.
    Immagini e pensieri riguardanti Libby si presentavano di continuo a distrarlo. Un'improvvisa risata in fondo a un corridoio gli ricordò quella di lei. In realtà nessuno rideva in quel modo musicale, contagioso e incredibilmente sexy. Un collega aprì una valigetta di lucido cuoio nero e Zac pensò ai capelli di Libby sciolti sulla schiena.
    Quando la segretaria gli tese un messaggio telefonico scritto su un biglietto rosa pensò subito alle unghie dei piedi laccate di quel colore.
    Non ne poteva più, riconobbe nervoso. Alzò una mano e suggerì una pausa di cinque minuti. Poi, senza aspettare il consenso dei presenti, si alzò, lasciò la sala riunioni e uscì in corridoio. Poco dopo era all'aperto, a respirare a pieni polmoni un'aria insolitamente fresca.
    Rimpianse di aver smesso di fumare: forse una sigaretta sarebbe servita a rilassarlo. Da ragazzo avrebbe sbattuto il pugno contro il muro, ma ora si trovava di fronte a pareti troppo solide e si sarebbe fatto male. Allora, tuttavia, era più portato a fare il gradasso che a esaminare un problema alle radici. E il problema era Libby. Maledizione, perché non riusciva a togliersela dalla testa?
    Era una questione da risolvere in fretta, decise. Il venerdì sera le avrebbe detto che non dovevano più rivedersi. Oppure se la sarebbe portata a letto in un'unione travolgente.

    Per tutta la settimana Libby si aspettò che Zac la chiamasse per disdire con una scusa l'appuntamento di venerdì. Ogni volta che suonava il telefono il cuore le dava un balzo e doveva farsi forza per rispondere. Ma non era mai Zac.
    Aveva voglia di chiamarlo, voglia di vederlo, di parlargli, di sentire la sua forza che la circondava, ma aveva la sensazione che le cose tra loro fossero cambiate.
    Hannah sembrò confermarlo il mercoledì pomeriggio, quando portarono i bambini al parco e pranzarono all'ombra di un vecchio acero.
    «Che cosa diavolo hai fatto a Zac?» le chiese subito l'amica.
    Libby, china sul passeggino di Victoria, si raddrizzò e la guardò perplessa.
    «Cosa vuoi dire? Io non gli ho fatto proprio niente.»
    «Negli ultimi giorni è stato stranamente silenzioso; quando sono tornata a casa, venerdì scorso, mi ha detto a mala pena due parole e poche di più quando è venuto a cena la domenica.»
    Libby tirò fuori la figlia dal passeggino e la posò su una coperta distesa sull'erba, all'ombra del grande albero.
    «Non so proprio che cosa gli passi per la testa» confessò. «Venerdì sera è andato tutto bene: abbiamo parlato e guardato la televisione. Poi, tutto d'un tratto, è diventato vago e distante. Speravo che tu potessi schiarirmi le idee.»
    Hannah aprì il coperchio del contenitore di vetro dove aveva messo l'insalata di pollo.
    «Vorrei aiutarti» sospirò. «Se può consolarti, penso che tu l'abbia steso.»
    «Non io, Victoria. L'altra sera ho intravisto per un attimo come potrebbe essere bravo con i bambini, se solo si rilassasse un po'. È riuscito a stabilire una tregua con Nicky, ma poi l'ho di nuovo colto a guardare Victoria come se avesse due teste e sei occhi.»
    Hannah cominciò a mangiare l'insalata di pollo.
    «Be', prima o poi dovrà abituarsi ai bambini» sentenziò. «Dopotutto ha già tre nipoti.»
    «Ma non vede molto spesso i figli di Matt, vero?»
    «Va a New York due o tre volte all'anno. Quando Matt e Alice vengono qui, in genere stanno da lui.»
    «Perché non da te? Hai più spazio, mi sembra.»
    Il viso di Hannah si incupì.
    «Ultimamente io e Matt non andiamo molto d'accordo. Lui pensa che dovrei tentare una riconciliazione con Ben. Sai, è molto legato a suo fratello.»
    «Ma tu hai detto a Ben di essere incinta, no?»
    «Appena l'ho scoperto gli ho scritto una lettera: avevo qualche perdita e dovevo stare a letto, così gli chiesi di tornare. Lui non mi rispose neanche. Si fece vivo solo dopo, mandandomi i documenti di divorzio. L'ultima volta che qualcuno l'ha sentito è stato quando ha scritto a Matt, raccontando di essere in partenza per un lavoro in Medio Oriente. Ormai sono rassegnata al fatto che non torni più. Nicky e io dovremo cavarcela da soli.»
    Hannah sospirò piano e guardò l'amica celando a stento l'infelicità che quei discorsi le provocavano.
    «Parliamo di qualcosa di più allegro. Per esempio, quando rivedrai Zac?»
    Libby si servì a sua volta di insalata di pollo.
    «Venerdì sera» rispose.
    «Se sono troppo invadente, dimmelo» cominciò Hannah, cauta. «Ma mi piacerebbe sapere cosa provi per il mio ineffabile cognato.»
    «Ecco... mi riempie di brividini» ammise Libby tentando di assumere un tono leggero.
    Hannah scoppiò a ridere.
    «Lo immaginavo. È proprio un bel tipo, eh?»
    «Sì. Bello, intelligente, ostinato, arrogante e...»
    «Ho capito, ho capito» la interruppe Hannah. «Non arrenderti, Libby: può essere un osso duro, ma alla fine scoprirai che ne valeva la pena. Se ti interessa il mio parere, credo che tu vada bene per lui. E credo che i brividini siano reciproci» finì strizzandole l'occhio.
    Deb telefonò a Libby il venerdì mattina.
    «Mi dispiace molto, ma non posso tenere Victoria, stasera.»
    «Perché? Qualcosa non va?»
    Prima di rispondere, Deb starnutì parecchie volte con fragore.
    «Sto quasi morendo» annunciò in tono melodrammatico. «O forse sono già morta e non lo so ancora.»
    «Stai così male?» chiese Libby, preoccupata.
    «Secondo il medico si tratta solo di un'allergia, ma a me sembra polmonite. Spero di non crearti troppi problemi per stasera» aggiunse dispiaciuta.
    «No, no, non importa» minimizzò Libby. «Chiederò ad Hannah.»
    Promise di richiamare Deb più tardi, per sapere come stava, poi telefonò all'amica.
    «Oh, mi dispiace, ma sto partendo» disse Hannah in tono di rammarico. «Vado nel New Jersey a passare il week end con i miei genitori.»
    Libby la salutò e riappese desolata. Non le importava di dover cucinare per Zac, ma un'altra serata in casa, con il costante pericolo dei pianti di Victoria e degli assalti di Wells, l'avrebbe probabilmente messo in fuga per sempre. Non sapeva cos'altro fare, così telefonò a Zac in ufficio.
    Rispose la segretaria e Libby esitò un attimo davanti a quella voce lenta e sensuale. Soffocò rapidamente la fitta di gelosia e chiese di parlare con Zac.
    «Il signor Webster è in riunione. Vuole lasciargli un messaggio?»
    «Può dirgli di chiamare Libby Austen appena possibile? Lui ha il numero.»
    Riappese e si morse le labbra nervosa: e adesso? Le conveniva aspettare la sua chiamata o fare comunque' la spesa per la sera? Scelse la seconda possibilità e uscì decisa.
    Quando tornò a casa il telefono stava suonando. Libby depose i sacchetti della spesa sulla credenza, ma il contenuto si rovesciò e cadde rumorosamente per terra, strappando uno strillo a Victoria.
    «Pronto?» rispose affannata.
    «Sono Zac.»
    Come se fosse necessario specificarlo, rifletté Libby, già turbata da quelle semplici parole.
    «Ciao, Zac» disse, alzando la voce per coprire le urla della figlia. «Deb non può tenere Victoria, stasera. Se vuoi, posso preparare una cena qui a casa.»
    All'altro capo del telefono ci fu una lunga pausa, poi Zac rispose in tono cauto.
    «Non so se è una buona idea. La bambina mi sembra un po' agitata.»
    Libby se la sistemò meglio sulla spalla e le batté un colpetto amichevole sulla schiena.
    «No, no, sta bene. È solo un po' nervosa perché ha saltato il sonnellino. Ho tutti gli ingredienti per le fettuccine panna e prosciutto» lo tentò lei.
    «Be', se sei proprio sicura che la bambina stia bene...» finì per capitolare Zac. «A che ora vuoi che venga?»
    «Avevamo detto alle sette.»
    «D'accordo, alle sette. Posso portare una bottiglia di vino?»
    «È meglio che non beva, finché allatto, ma se vuoi portala pure. Non mi serve nient'altro: ho preso del pane fresco e preparerò un'insalata mista.»
    «Se tu non bevi, non lo farò neanch'io. Ma voglio portarti qualcosa: un dolce, magari. O un gelato» insistette Zac.
    «Buona idea» approvò Libby. «Ci vediamo stasera, allora.»
    Avrebbe dovuto disdire l'appuntamento, lo sapeva, ma era affascinata da Zac, ipnotizzata, innamorata...
    Se ne rese conto senza sorprendersi troppo. In fondo lo sapeva da tempo, era un particolare che faceva parte di lei: aveva i capelli neri, gli occhi azzurri, una figlia, un cane e un amore travolgente per Zachary Webster.
    Proprio quello che le serviva, commentò amaramente, perché non solo Zac non l'amava, ma sembrava addirittura essere in cerca di un modo discreto per tirarsi fuori dalla loro storia.
    Libby sospirò e sedette a cullare Victoria per qualche minuto, prima di iniziare i preparativi per la cena. Con un bambino piccolo le cose non andavano mai come previsto; meglio dunque cautelarsi dandosi parecchio tempo.
    Quando ebbe finito di lavare e asciugare i capelli, nutrire il cane e allattare la figlia, Libby scoprì con ansia che le restava solo un quarto d'ora per vestirsi. Sarebbe stato più che sufficiente, se Zac non fosse arrivato in anticipo.
    Stretta in un asciugamano, si affacciò alla porta e gli rivolse un sorriso imbarazzato.
    «Sei in anticipo» osservò.
    Lui diede un'occhiata all'orologio e assentì. Stava per dirle che era arrivato prima perché non vedeva l'ora di incontrarla. Quella era forse la loro ultima serata insieme e rivestiva un'importanza enorme per lui. Ma poi decise di tacere.
    «Posso entrare o preferisci che aspetti fuori fino alle sette in punto? Non so che ne sarà del gelato, però» disse con un sorrisetto.
    «Non sono ancora vestita, ma...»
    Libby si interruppe quando Victoria cominciò a frignare. Strinse l'asciugamano al petto e gli aprì la porta.
    «Farai meglio a entrare» lo invitò.
    Non appena Zac mise piede in salotto lei sparì in bagno, permettendogli solo un'occhiata alle lunghe gambe e alle spalle nude.
    Zac aveva fame - un impulso che non aveva nulla a che fare con le fettuccine. In quel momento un gridolino gli ricordò che non era solo. Nervoso, si voltò verso la bambina assicurata con una cintura a un seggiolino.
    Victoria indossava una graziosa tutina rosa e lo fissava con i solenni occhi azzurri. D'impulso, Zac si inginocchiò davanti a lei.
    La piccola agitò le braccia, ma non pianse.
    «Come va?» le chiese lui, incoraggiato.
    Victoria continuò ad agitare le braccia, gli occhi sempre fissi nei suoi.
    «Stasera vorrei passare un po' di tempo con la tua mamma» le spiegò Zac, serio. «Ci faresti il favore di addormentarti presto? Tu te la godi tutto il giorno; io te la prendo in prestito solo per stasera. Se sarai buona, ti regalerò... be', mi sembri un po' piccola per un lecca lecca. Comunque, ti porterò qualcosa di buono e dolce. D'accordo?» concluse stringendo la minuscola manina.


    9

    Per un attimo Zac si meravigliò della stretta della bambina: pareva quasi che il suo dito fosse qualcosa di importante, che Victoria non voleva assolutamente lasciare andare. Quando non piangeva, era proprio un esserino delizioso.
    In quanto a Libby, Zac non sapeva ancora se quella sera avrebbe portato la loro relazione su un piano amichevole o se l'avrebbe coronata con un'unione colma di passione. Forse sarebbero finalmente riusciti a esaminare le varie possibilità senza improvvise, spiacevoli interruzioni.
    Il cane cominciò a uggiolare fuori della porta sul retro. Ricordando la preoccupazione di Libby che disturbasse i vicini, Zac decise di farlo entrare. Aprì la porta della cucina e Wells irruppe dentro di slancio, agitando la coda e balzandogli subito addosso. Zac sollevò le mani per ripararsi il viso dalla sua lingua ruvida.
    Victoria non amava essere lasciata sola: dal salotto provenivano strilli di protesta e gridolini che minacciavano di degenerare presto in un pianto furioso. Zac tornò da lei e la guardò preoccupato: il visetto era paonazzo, i minuscoli pugni stretti e i piedini si agitavano nell'aria. Per essere così piccola, era davvero molto determinata.
    Libby fece capolino dal bagno.
    «Zac, ti dispiacerebbe prenderla in braccio e camminare un po' su e giù con lei? È stanca, ma non vuole cedere. Tra poco si addormenterà, vedrai. Grazie.»
    Poi richiuse la porta.
    Prenderla in braccio? Stava scherzando? Non ricordava l'effetto che lui aveva sui bambini? Zac fece una smorfia e prese la bambina, tenendola come Libby gli aveva insegnato. Trattenne il respiro in attesa di un pianto di protesta, e invece gli strilli si ridussero a un sommesso piagnucolio. Quando poi le mise in bocca il ciuccio, cessarono del tutto.
    Victoria sollevò gli occhi su di lui e Zac non poté fare a meno di notare le ciglia lunghe, tanto simili a quelle della madre, e la pelle morbidissima. Non aveva mai toccato nulla di così morbido, rifletté. Era la sua immaginazione o la bimba assomigliava già a Libby? Gli pareva di ritrovare la stessa curva della guancia, gli stessi occhi azzurro cupo, lo stesso mento ostinato. E i capelli scuri avevano lo stesso identico colore di quelli della madre.
    «Grazie.»
    Zac si voltò di colpo e rimase a bocca aperta. Libby indossava una gonna rossa corta e un top dello stesso colore, che metteva in risalto la curva morbida del seno. Ma non era questo l'unico particolare che gli toglieva il fiato.
    Erano soprattutto i sandali dorati che indossava sui piedi nudi con le unghie ora tinte di rosso.
    «Perché non metti Victoria nella culla?» propose, avviandosi verso la camera della piccola.
    Zac la seguì e depose la bimba nel suo lettino. Libby le rimboccò la soffice coperta di lana rosa e verde e gli rivolse un sorriso radioso.
    «Grazie» ripeté. «Si è calmata subito, appena l'hai presa in braccio.»
    Ancora incredulo, Zac scosse la testa e la seguì in cucina.
    A cena tutto filò liscio, o almeno così gli parve. Non riusciva a capire cosa stesse mangiando: impossibile concentrare l'attenzione sul cibo, quando aveva davanti quelle gambe snelle e quei piedini deliziosi. Ma non si trattava solo di questo.
    Ogni parola che Libby pronunciava, ogni gesto che faceva, gli restavano impressi nella mente. Se anche fosse vissuto cent'anni, non avrebbe dimenticato il modo in cui i capelli neri e lucenti le ricadevano sulle spalle, la luce che le faceva brillare gli occhi quando rideva, o il modo in cui stringeva le labbra quando rifletteva. Lui aveva pensato che la serata si sarebbe svolta secondo uno schema semplice: una simpatica cenetta e poi un saluto, o un'unione appassionata, seguita ugualmente da un saluto.
    Ma ora le cose non gli sembravano più tanto facili. Non poteva dirle che non voleva più vederla: non era vero. Voleva rivederla eccome, e aveva la sgradevole intuizione che una notte a letto non sarebbe stata sufficiente.
    «Va tutto bene?»
    Zac trasalì e abbassò gli occhi sul piatto: le fettuccine erano quasi scomparse, quindi doveva aver mangiato.
    «Sì, sì, bene» rispose distrattamente. «Una ricetta deliziosa.»
    Avrebbe potuto essere segatura condita con l'aceto, e difficilmente avrebbe colto la differenza. Nella stanza faceva caldo, notò all'improvviso: era una normale serata estiva, ma da quando Libby era comparsa con quell'audace vestito rosso, gli pareva di soffocare.
    Quella serata era un errore, un colossale errore, ma forse lui era ancora in tempo a ripararlo. Se avesse avuto un po' di buon senso, avrebbe dovuto alzarsi alla fine della cena, ringraziarla e andarsene. Rimanere era troppo pericoloso. Purtroppo, però, il pericolo, la sfida l'avevano sempre attratto. Erano lusinghe troppo seducenti perché potesse resistervi.
    «Preferisci mangiare il gelato ora o più tardi?» chiese Libby.
    «Più tardi» rispose Zac.
    Aveva in mente qualcosa di completamente diverso, per coronare quella cena deliziosa.
    «Che cosa stai guardando?»
    «Te.»
    «E perché?»
    Zac fece un sorrisetto malizioso, poi prese a parlare in tono lento e colmo di allusioni.
    «Sto cercando di decidere la mia prima mossa: baciarti fino a farti perdere la testa o sfilarti quel bel top rosso e riempirmi le mani con i tuoi seni? O forse potrei baciarti le gambe e l'interno delle cosce. Tu che ne dici?»
    Libby lo immaginava benissimo intento a fare tutto ciò che aveva detto; aveva sognato spesso scene simili, ma quelle parole sensuali la colsero di sorpresa, considerato il modo in cui si erano lasciati l'ultima volta. Non sapeva come reagire e preferì prendere tempo.
    «Devo lavare i piatti» dichiarò alzandosi. «Perché non mi aspetti in soggiorno?»
    «Preferisco aiutarti.»
    «Oh, no! Voglio dire, non è necessario. Non ci metterò molto» si schermì Libby, agitata.
    Zac si alzò, portò il proprio piatto nel lavello, aprì l'acqua e lo lavò.
    «Voglio darti una mano» insistette. «Facciamo così: tu lavi e io asciugo.»
    «Ma posso cavarmela da sola!» si oppose ancora Libby.
    Sapeva che c'era poco da fare, tuttavia: Zac aveva un'espressione decisa e sembrava pronto a restarle tra i piedi e renderla più nervosa che mai. Prima quelle dichiarazioni erotiche, e ora la proposta di aiutarla in cucina! Santo cielo, quell'uomo era bravissimo a confonderla!
    Mentre riempiva d'acqua il lavello, Zac arrivò da dietro e le allacciò un grembiule intorno alla vita. Le accarezzò un attimo i fianchi, ma quando lei si voltò di scatto le rivolse un sorriso angelico e si tirò indietro. Libby gli lanciò un'occhiata dura e immerse le mani nella schiuma.
    «Ehi, guarda quello!» le fece notare Zac poco dopo, allungando un braccio per indicarle un piatto sporco e sfiorandole il seno.
    «Ora lo lavo» ribatté Libby.
    Prese la spugnetta e si voltò per non fargli vedere la risposta automatica del proprio corpo al suo lieve tocco.
    «Scusami» mormorò Zac.
    Ma non sembrava affatto contrito.
    «Senti, perché non vai di là?» proruppe Libby con voce stridula.
    Aveva bisogno di qualche minuto da sola, o avrebbe finito per rivelargli quello che provava. Le sue emozioni erano travolgenti e aveva paura di lasciarsi trascinare fino al punto da confessargli la verità. Ma Zac non voleva certo sentirla e ne avrebbe approfittato per fuggire definitivamente. E lei non voleva che se ne andasse.
    «Perché voglio aiutarti» insistette Zac, tranquillo.
    «Aiutarmi a perdere la testa, vuoi dire.»
    «Preferirei aiutarti a toglierti i vestiti» la sfidò in tono provocante.
    L'attirò a sé e prese a carezzarle il collo e l'attaccatura dei capelli, per poi stuzzicarle i capezzoli già turgidi attraverso la sottile stoffa rossa. Libby si voltò di colpo e lo colpì in pieno petto con la spugnetta dei piatti.
    Zac fece un balzo all'indietro.
    «Ehi!» protestò. «Perché l'hai fatto?»
    «Per rappresaglia» rispose Libby fissandolo, minacciosa.
    «Ah, be', te la sei voluta.»
    Zac prese la spugnetta, la immerse nell'acqua schiumosa e la brandì con aria risoluta.
    Libby indietreggiò.
    «Non oserai!»
    Zac ridacchiò divertito.
    «Tu che ne dici?» la sfidò.
    Libby scosse la testa.
    «Hai ragione» concordò Zac abbassando la spugnetta. «Mi vengono in mente forme di rappresaglia molto più interessanti.»
    Libby lo guardò sospettosa.
    «Tipo?»
    «Ci penserò e te lo farò sapere» prese tempo Zac.
    Poi si sfilò la camicia bagnata dalla testa e la gettò su una sedia.
    Libby rimase senza fiato: aveva un petto magnifico, abbronzato e coperto da una peluria scura e ricciuta. Inghiottì a vuoto, senza riuscire a staccare gli occhi da quel corpo stupendo. L'altra notte, quando l'aveva accarezzato, non si era soffermata a osservarlo, troppo presa dalle emozioni che lui le suscitava, ma ora lasciò vagare lo sguardo dappertutto. Non pensava che un uomo potesse essere tanto bello, anche se bello era un termine del tutto insufficiente a descrivere il suo aspetto magnifico.
    Si chiese per un attimo dove avesse ottenuto quell'abbronzatura, con il suo lavoro sedentario, poi decise che non le interessava. L'unica cosa che contasse era la sua presenza forte e sicura vicino a lei.
    Zac ruppe il silenzio con una voce vibrante di desiderio.
    «Quando mi guardi così mi fai venire voglia di accarezzarti. Voglio toccarti... lo voglio più di qualsiasi cosa al mondo.»
    I loro sguardi si incontrarono e Libby si chiese se si stava comportando con saggezza. Forse no, ma lo voleva e si fidava di lui. Anzi, lo amava. Stava cominciando ad accettare il fatto che Zac non poteva darle la sicurezza a cui aspirava, ma non voleva passare la vita senza sapere cosa si provava a essere amata, per quanto brevemente, da un uomo simile.
    Fece un passo verso di lui, ma Zac non la toccò subito, limitandosi a guardarla negli occhi.
    «Pensaci, Libby» l'ammonì. «Se comincio, questa volta non mi fermerò, a meno che non ci crolli in testa la casa. E forse neanche allora» finì con un mezzo sorriso.
    Libby era spaventata. La sua vita stava per cambiare; anzi, il semplice fatto di avere conosciuto quell'uomo l'aveva già cambiata. Era affascinata dalle fiamme di desiderio che danzavano negli occhi di Zac e le promettevano una passione incendiaria.
    «Non voglio che ti fermi» mormorò con un filo di voce.
    Zac allungò una mano, poi la riabbassò di colpo.
    «Se vuoi controllare la bambina, fallo subito. Non so se ti lascerò andare, più tardi.»
    Libby si voltò obbedientemente ed entrò in camera di Victoria per assicurarsi che fosse asciutta e addormentata. Passò un attimo in bagno per spazzolarsi i capelli e fissò la propria immagine allo specchio: gli occhi brillavano eccitati e le labbra erano incurvate in un sorriso tremulo. Il suo era chiaramente il viso di una donna innamorata: possibile che Zac non se ne fosse accorto?
    Un brivido di apprensione le corse lungo la schiena. Bobby era stato il suo unico amante e lei aveva sempre attribuito lo scarso piacere provato a letto all'impazienza e all'egoismo dell'ex marito. E se invece non avesse goduto perché non ne era capace? Se Zac l'avesse trovata goffa e inesperta?
    Libby strinse le labbra. Avrebbe compensato con l'amore e l'entusiasmo ciò che le mancava in abilità. Scostò una ciocca dalla fronte e tornò in salotto.
    Zac era fermo accanto alla porta finestra che dava sul portico. Libby lo guardò un momento, incerta sul da farsi.
    Lui si voltò, le sorrise e tese una mano.
    «Vieni qui, piccola.»
    Strinse la mano di Libby nella sua e tornò a guardare fuori della finestra.
    Lei distolse a fatica gli occhi da Zac per ammirare ciò che rimaneva di un tramonto spettacolare. Le strisce rosa e purpuree stavano lasciando il posto al violetto e al blu del cielo notturno.
    «Che bello!» mormorò.
    «Usciamo a guardarlo insieme» disse Zac.
    La trascinò fuori, sempre tenendola per mano, e la fece sedere accanto a sé sul primo gradino del portico.
    Libby era confusa. Possibile che Zac non volesse più fare l'amore con lei?
    «Io pensavo che tu... che noi...» cominciò, impacciata.
    Poi si fermò. Come poteva chiedergli se avesse cambiato idea?
    «Abbiamo tutto il tempo del mondo» la tranquillizzò Zac.
    Le cinse le spalle con un braccio e l'attirò più vicina.
    «Voglio prendermela comoda» spiegò. «Mi fai sentire come un ragazzino al suo primo appuntamento. Voglio che la nostra prima volta sia lunga, lenta e meravigliosa per tutti e due.»
    Avrebbe mai smesso di meravigliarla? Libby era commossa dalle sue attenzioni, pur convinta che con lui sarebbe stato comunque bellissimo. Mentre osservavano in silenzio il cielo che diventava buio sentì il polso che accelerava e il respiro che si faceva ansante al pensiero della notte meravigliosa che li attendeva.
    Zac continuò a tenerla stretta, sollevando di tanto in tanto una mano a carezzarle i capelli. Quando l'ultima striscia violacea scomparve all'orizzonte, Libby si sentì sempre più cosciente del corpo di Zac, del suo respiro caldo, del cuore che batteva forte come il suo. La mano di Zac lasciò i capelli e cominciò a tracciarle lenti circoli sensuali sulla nuca. Come avrebbe reagito, si chiese Libby, se si fosse sciolta là, sotto il portico?
    Alla fine Zac si alzò e le tese una mano per aiutarla a rimettersi in piedi.
    «Ora, Libby» mormorò con voce pressante.
    Lei assentì in silenzio e lo condusse in camera. Sedette sul bordo del letto e si chinò per slacciarsi uno dei sandali dorati, ma lui la fermò.
    «Non ancora» l'ammonì, facendola rialzare e passandole le mani lungo le braccia. «Sei così bella, Libby. La prima volta che ti ho visto, ho pensato che assomigliassi a una Madonna, così calma e serena.»
    «Una Madonna?»
    «Sì. Ma quando ho visto i tuoi occhi, ho capito che sotto c'era una donna calda e appassionata.»
    Con gli occhi fissi nei suoi passò le mani sull'aderente top rosso, poi glielo sfilò dalla testa e lo gettò a terra.
    «Già allora ti volevo» confessò.
    Poi le fece scivolare la gonna lungo le gambe, fino ai piedi.
    «Ma la prima volta che ti ho baciato e tutti e due siamo saltati in aria, ho capito che avremmo fatto l'amore» concluse.
    Poi non riuscì più a parlare: lo sguardo si era fermato sul reggiseno e sulle mutandine di pizzo rosso.
    «Oh, Dio!» sospirò con voce roca. «Sapevi che il rosso è il mio colore preferito?»
    «Sì.»
    Seguì con un dito il bordo di pizzo del reggiseno, poi raccolse lunghe ciocche di capelli neri per farli ricadere come una cortina di seta sul petto.
    «Questo non è un reggiseno da allattamento, vero?» chiese con una punta di malizia.
    Poi slacciò il fermaglio e fece scivolare le spalline lungo le braccia. Con il respiro ansante scostò i lunghi capelli e posò le mani sui seni nudi.
    «Sento il tuo cuore che batte» mormorò, «come se facesse parte di me.»
    Prese un seno in ogni mano, affascinato da quel peso morbido e caldo, poi passò il pollice sui capezzoli, stuzzicandoli fino a che non divennero duri. Libby trasalì, come se le sensazioni fossero troppo intense da sopportare.
    «Guardami» la sollecitò Zac. «Guarda le mie mani che ti toccano.»
    Libby abbassò il capo, affascinata dalla vista delle sue grandi mani che l'accarezzavano in modo tanto intimo. Notò che tremavano lievemente e si sentì percorrere da un brivido di risposta.
    Allungò le proprie mani, anch'esse tremanti, e le passò sul petto muscoloso di Zac.
    «Guardami mentre ti tocco» disse ripetendo le sue parole.
    Passò le dita sui suoi capezzoli piatti e lui rispose con gesti analoghi, tracciando cerchi lenti e sensuali in un intreccio che toglieva il fiato a entrambi. Poi Zac le cinse la vita con le mani e Libby fece lo stesso.
    Mentre insinuava le dita nel pizzo delle mutandine, lei si diede da fare con la cerniera dei pantaloni. Zac cominciò a sfilarle gli slip lentamente, centimetro per centimetro e Libby lo imitò con i calzoni.
    Zac mise le mani sulle sue per fermarla.
    «Ti prego, questa prima volta lasciami fare a modo mio. La prossima sarò tutto tuo. Ma se mi tocchi ancora, salterò in aria come un fuoco d'artificio.»
    «Non mi importa se sarà veloce.»
    Zac si portò la sua mano alle labbra e la baciò con dolcezza.
    «Ma a me sì. Voglio amarti per tutta la notte.»
    La fece distendere sul letto, poi sedette sul bordo, accanto ai suoi piedi. Se ne mise uno in grembo e le slacciò lentamente il sandalo, lasciandolo cadere per terra. La sua eccitazione aumentava mentre le carezzava la pianta del piede e la caviglia, per poi soffermarsi sulle dita sottili.
    Libby trattenne il respiro e Zac passò all'altro piede, compiendo gli stessi gesti lenti e sensuali. Lei chiuse gli occhi per assaporare meglio le sensazioni incredibili che il suo tocco le suscitava e lui cominciò a muovere le dita avide e leggere su per il polpaccio, fino al ginocchio e alle cosce. Libby gemette e Zac finalmente le sfilò le mutandine, lasciandole cadere ai piedi del grande letto matrimoniale.
    Ora era completamente nuda. Zac rimase a fissarla a lungo, immobile, come se avesse paura di toccarla. Doveva andare piano, senza gesti bruschi, ma faticava già a mantenere il controllo.
    Non immaginava che potesse essere così bella, con i capelli neri sparsi sul cuscino, la pelle liscia e rosea e il corpo dalle proporzioni perfette. I seni rotondi, dai capezzoli turgidi, sovrastavano la vita sottile e il ventre ormai piatto, solcato solo da segni impercettibili. Zac vi passò piano le dita in un silenzio reverente.
    Libby aprì di colpo gli occhi.
    «Sono i segni del parto» mormorò timida, posandovi sopra una mano come se volesse nasconderli.
    «Segni di coraggio e di forza» la corresse Zac con tenerezza infinita.
    Allontanò la sua mano, li carezzò piano e poi si chinò a seguirne il contorno con la lingua. I gemiti di piacere che le strappò lo trafissero come frecce ardenti, aumentando il suo desiderio fino a un'intensità esplosiva.
    Zac si sentiva travolto da un istinto primitivo, dal bisogno di possedere e conquistare. Non aveva mai provato nulla di simile in vita sua. Prima gli era sempre bastato soddisfare un desiderio momentaneo e tutto tornava a posto, ma ora voleva di più, molto di più, anche se non riusciva a esprimere a parole quell'esigenza nuova e possente. Sapeva soltanto che doveva comunicare tutto ciò che sentiva a Libby. Era sicuro che lei avrebbe capito.
    Con una comunicazione che non aveva bisogno di parole Zac le dimostrò i propri sentimenti attraverso i gesti, le carezze, i baci. Ogni volta che Libby gemeva o gridava di piacere, si sentiva spronato a proseguire. Come un uomo assetato giunto a una sorgente, affondava nella sua freschezza, lasciando che lo riempisse fino a traboccare.
    Ormai non c'era un solo centimetro del suo corpo che non avesse gustato ed esplorato - dalla base della gola alla curva della vita, alle ginocchia, fino alle unghie dei piedi dipinte di rosso vivo. Quando finalmente gustò i petali della sua femminilità, Libby gli affondò le mani nei capelli e si inarcò gemendo, mentre fremiti estatici le scuotevano tutto il corpo. Zac sentiva ogni suo minimo movimento, come se fossero connessi l'uno all'altro attraverso un legame invisibile eppure possente.
    «Ti prego, ti prego, ora» invocò Libby con voce rotta.
    «Ora» concordò lui. «Guardami, piccola» aggiunse in un sussurro. «Voglio vedere i tuoi occhi quando mi prenderai dentro di te.»
    Poi scivolò in lei, nel dolce, caldo piacere che lo attendeva.
    Mentre i loro corpi si muovevano insieme, Zac rimase sconvolto nel profondo dall'intensità dei sentimenti che lo invadevano e lo rendevano di volta in volta appassionato e tenero, selvaggio e avido. Facendo appello a quel poco controllo che gli era rimasto, si trattenne fino a che sentì il corpo di Libby squassato da fremiti senza fine: allora spinse fino in fondo e le nascose il viso contro il collo.
    «Oh, Dio, Libby» gemette ancora e ancora, senza riuscire a fermarsi.
    Mentre si avvinghiavano l'uno all'altro, Zac si trovò a pronunciare parole che sgorgavano dal profondo di sé, parole che non sapeva di custodire in attesa di quel momento.
    «Ti amo, piccola. Ti amo.»
    Più tardi, mentre giacevano stretti l'uno all'altro, si chiese se avesse davvero pronunciato quelle parole a voce alta. Strano, ma non lo spaventavano, almeno non quanto l'idea di innamorarsi l'avrebbe terrorizzato un anno o due prima. L'amore non significava automaticamente il matrimonio.
    Non prevedeva di sposarsi nei prossimi anni, ma non vedeva niente di male in una relazione tra loro: ora che aveva sperimentato cosa volesse dire fare l'amore con Libby, non intendeva certo rinunciarvi. Chiuse la mente al pensiero della bambina che dormiva nella stanza accanto; certo, Libby voleva una relazione duratura, ma forse, dopo quella notte appassionata, si sarebbe accontentata di dividere il suo letto. Era tutto ciò che Zac aveva da offrirle.
    L'attirò ancora più vicina e aspirò la deliziosa fragranza di caprifoglio e borotalco per bambini che emanava dal suo corpo. Poi giocherellò con i lunghi capelli, spargendoli per il cuscino.
    «Stai bene?»
    «Più che bene» rispose lei in tono sognante. «È stato meraviglioso. E tu come stai?»
    Zac si stirò languido e si lasciò sfuggire un sospiro soddisfatto. La sua voce era carica di promesse ancora più eccitanti e meravigliose.
    «Se avessi immaginato che sarebbe stato così fantastico, ti avrei assalita da tempo» confessò.
    Libby sorrise e gli passò le dita sui peli ricciuti del petto. Poi indugiò su un capezzolo e sentì il cuore di lui che batteva più forte.
    Zac si schiarì la voce.
    «Se vuoi assalirmi di nuovo, fa' pure» la invitò ridacchiando.
    Libby sollevò la testa e lo guardò sorpresa.
    «Subito?» chiese sgranando gli occhi. «Pensavo che ti voltassi dall'altra parte e ti mettessi a dormire.»
    «Certo che no! Sarebbe un tragico spreco di tempo» protestò Zac. «Inoltre, ti avevo promesso che la seconda volta sarei stato tutto tuo, no?» aggiunse, voltandosi in modo da mostrarle la propria rinnovata eccitazione.
    Un'altra ragione per maledire Bobby, pensò Libby. Le aveva fatto credere che tutti gli uomini si voltavano dall'altra parte e si addormentavano subito dopo l'amore, ma evidentemente non era così. O forse Zac rappresentava un'eccezione? In ogni caso, era un'eccezione benvenuta, concluse elettrizzata dal suo desiderio sempre presente.
    Sorridendo tra sé cominciò un'accurata esplorazione: ora toccava a lei farlo impazzire di desiderio, come Zac aveva fatto in precedenza con lei. Gli passò le mani sul petto e lui mugolò di piacere. Gli succhiò i capezzoli e lui trattenne il respiro. Scese con la mano fino alla pulsante erezione e lui sobbalzò, poi si girò e la inchiodò sotto di sé.
    «Non so se sono tanto brava, ma...» cominciò lei con un lampo malizioso negli occhi.
    «Se fossi meglio di così mi uccideresti» decretò Zac ridendo.
    Poi posò le labbra sulle sue.
    «Mi piace baciarti. Potrei farlo per ore e ore» sussurrò.
    Quindi le prese i seni nelle mani e tornò a guardarla negli occhi azzurri.
    «E mi piace accarezzarti qui. Potrei continuare per ore, ma poi non avrei tempo per fare questo...»
    Prima che la passione la inondasse, Libby ebbe un ultimo pensiero: Zac ammetteva di amarla solo al culmine dell'estasi sessuale.
    Ma l'amore sarebbe stato sufficiente?


    10

    Il mattino dopo Libby si svegliò prima di Zac, si puntellò su un gomito e lo guardò: la teneva abbracciata anche nel sonno, con una mano sul seno. Libby si liberò riluttante, facendo attenzione a non svegliarlo, e si stirò pigramente. Era invasa da un vago, piacevole indolenzimento, conseguenza delle follie notturne. Zac aveva mantenuto la promessa: era stato tutto lento e lungo, almeno la prima volta.
    La seconda, invece, era stata veloce e selvaggia. E nel bel mezzo della notte, quando lei si era alzata per allattare la bambina, Zac si era svegliato e al suo ritorno a letto l'aveva trascinata in un'altra avida esplorazione.
    Libby indugiò con lo sguardo sul suo viso disteso: la mascella di lui era ostinata anche in quel momento e la curva ironica delle labbra era ancora visibile.
    Zac era un uomo da desiderare per tutta la vita, il compagno ideale con cui svegliarsi ogni mattina. Le sue labbra possedevano una meravigliosa tenerezza e la mascella era risoluta senza mostrare alcun segno di ossessione. Era quella determinazione che le avrebbe procurato più problemi, rifletté preoccupata: Zac era deciso a rimanere scapolo e lei voleva sposarsi. Scacciò il dubbio di aver commesso un grave errore.
    Zac mormorò qualcosa e allungò una mano sfiorandole il seno. La pressione le ricordò gli slanci scatenati durati quasi tutta la notte e d'impulso si girò a guardare la sveglia sul comodino: erano le otto! Victoria non aveva mai dormito così a lungo. Con il cuore che le batteva furiosamente Libby scese dal letto e corse in camera della figlia: la trovò tranquillamente distesa sulla schiena, intenta a giocare con i propri piedini.
    Non appena la vide la piccola emise un gorgoglio di felicità e agitò le braccia. Con un sospiro di sollievo, Libby la sollevò e prese a cullarla con dolcezza.
    «Grazie, amore» sussurrò. «Grazie per avermi concesso una notte senza interruzioni.»
    «Brava, piccola» approvò una voce profonda dalla porta.
    Libby si voltò con un sorriso e il fiato le mancò alla vista del corpo di Zac delineato dalla luce del mattino. Teneva le braccia incrociate sul petto ed era nudo e magnifico, come un pascià che osserva compiaciuto il proprio harem.
    «Buongiorno» lo salutò timidamente.
    Zac la raggiunse e cinse con le braccia lei e la bambina.
    «Torna a letto, Libby. Non mi è piaciuto svegliarmi senza di te.»
    «Mi dispiace, ma dovevo andare a vedere come mai Victoria aveva dormito tanto.»
    «Ho fatto un patto con lei» spiegò Zac con un sorriso soddisfatto.
    Libby si voltò sconcertata.
    «E cioè?»
    «Ieri sera le ho promesso qualcosa di buono da mangiare, se ci avesse lasciato in pace per tutta la notte.»
    «Non appena potrà mangiare qualcosa di solido, ti farò mantenere la promessa. Per adesso, credo che abbia bisogno di latte.»
    Sentiva la boccuccia della figlia che le succhiava la spalla, un segno chiaro dei suoi desideri.
    «Vieni a letto con lei» insistette Zac.
    Libby prese un pannolino e si diresse in camera, seguita dallo sguardo colmo di ammirazione di Zac. Si muoveva con grazia innata e girava nuda senza il minimo imbarazzo. Gli piaceva che lei si sentisse a proprio agio con il corpo, anche perché ne aveva incontrate davvero poche in grado di muoversi tranquille, senza falsi pudori.
    La sua figura non era proprio perfetta, o perlomeno non corrispondeva all'ideale della modella magra e slanciata, ma le curve un po' troppo pronunciate sembravano chiedere di essere esplorate e conquistate. Un uomo avrebbe potuto passare il resto della vita immerso in quel compito delizioso, ma quell'uomo non poteva essere lui.
    Zac le sedette accanto sul letto e Libby gli passò subito la bambina e il pannolino.
    Lui inarcò un sopracciglio con aria lievemente interrogativa.
    «Cambiala» lo esortò Libby.
    «Con che cosa?» scherzò Zac. «Pensavo che ti piacesse così com'è.»
    «Intendo cambiale il pannolino» chiarì Libby.
    Quando Zac fece per protestare, lei alzò una mano per fermarlo.
    «Non dirmi che non sei capace. Con Nicky te la sei cavata benissimo.»
    «A parte quando si è bagnato.»
    «Be', è normale. Tutti i maschietti lo fanno.»
    Zac sospirò, ma in realtà il compito assegnatogli non gli pesava poi tanto.
    «E va bene» borbottò, slacciando la tutina di Victoria.
    Per una persona quasi priva di esperienza in quel campo, e per giunta convinta che i bambini l'odiassero, Zac era davvero competente. In pochi minuti sostituì il pannolino, cosparse di borotalco il corpicino morbido di Victoria e le infilò una tutina pulita. Libby ringraziò il cielo che quella mattina la figlia fosse particolarmente di buon umore.
    Victoria agitava i piedini, sorrideva, faceva bollicine e ogni volta che Zac la guardava gli rivolgeva un grande sorriso sdentato. Lui le passò un dito sulla guancia rosea e la piccola glielo afferrò, succhiandolo con vigore. Zac si voltò interdetto verso Libby.
    «Ti sta dicendo che è pronta per fare colazione» tradusse lei divertita.
    «Lascia che ti aiuti.»
    «Non vedo cosa potresti fare...»
    Zac si appoggiò alla testiera del letto e l'attirò a sé.
    «Posso fare questo» rispose.
    Le circondò un seno con la mano, spingendolo verso la boccuccia di Victoria, e continuò a tenere Libby tra le braccia mentre lei allattava la figlia.
    Quando si sporse al di sopra della spalla di lei per osservare la piccola, uno strano calore lo invase. Quella posizione lo eccitava e Libby poteva certo sentirlo, appoggiata com'era contro di lui. Trovava quella scena incredibilmente erotica, ma anche commovente. D'improvviso ricordò la frase di Libby: ora anche lui si sentiva unito ai due esseri che teneva tra le braccia.
    La bimba doveva essere quasi sazia, a giudicare dal minore interesse che metteva nel succhiare e dalla rinnovata voglia di agitarsi e giocare. Ogni volta che vedeva il viso di Zac al di sopra della spalla materna, gli dedicava un grande sorriso, senza staccarsi dal capezzolo. Alla fine cominciò a giocherellare con i piedi, mentre piccole bolle di latte affioravano intorno alle sue labbra.
    Zac ne toccò una, ancora appesa al capezzolo roseo di Libby.
    «Che sapore ha?» chiese.
    Poi, d'impulso, si chinò per assaggiarlo.
    «Zac!» protestò Libby. «Devo farle fare il ruttino.»
    Aveva idea di quanto fosse sexy la sua voce, impacciata e lievemente roca?
    «E io devo fare l'amore con te» replicò Zac. «Be', posso aspettare» concesse. «Ma non più di un minuto o due.»
    Osservò Libby che metteva la figlia sulla spalla e le dava colpetti delicati sulla schiena. Anche ora Victoria continuava a sorridergli e Zac non poté fare a meno di ricambiare.
    Dopo qualche minuto senza risultati, Zac si sporse e sfiorò il nasino della bimba con il suo.
    «Avanti, fa' il ruttino» ordinò.
    Victoria sorrise e obbedì. Libby la mise nel seggiolino, spostandolo in modo che potesse vedere i raggi del sole che filtravano attraverso le piante. Poi si voltò verso Zac con un sorriso, ma proprio in quel momento Wells arrivò abbaiando festoso e balzò al centro del letto.
    Zac alzò gli occhi al cielo.
    «E questo cosa vuole?» sospirò.
    «Uscire, immagino.»
    «Lo porto io in cortile» si offrì lui. «E ti proibisco di abbaiare, capito?» aggiunse in tono autoritario, rivolto al cane festante.
    L'animale scodinzolò e corse verso la porta della cucina. Zac tornò poco dopo, ma prima di rimettersi a letto sollevò il ricevitore del telefono e lo sbatté sul comodino.
    «Così nessuno ci disturberà» dichiarò con aria soddisfatta.
    «Sei proprio un uomo dai mille talenti!» esclamò Libby ammirata. «Riesci a cambiare i bambini e a far fare loro il ruttino, ordini ai cani di non abbaiare e trovi anche il modo di evitare telefonate inopportune.»
    «Aspetta di vedere che cos'altro so fare» la stuzzicò Zac.
    Sedette sul bordo del letto e le sollevò un piede, tenendolo con delicatezza tra le mani.
    «Non riesco più ad aspettare» mormorò Libby con un gemito soffocato.

    Di comune accordo saltarono la colazione. Stavano per evitare anche il pranzo, ma il brontolio dello stomaco affamato glielo impedì. Libby non era mai stata così felice in vita sua, pur sapendo che si trattava di una felicità destinata a durare poco. Mentre preparavano da mangiare ridacchiarono come bambini, Zac trovò il modo di trasformare anche questa attività in un gioco erotico, soprattutto quando coprì il seno di Libby di mostarda e poi provvide a leccargliela via. Rimandarono il pranzo di un'altra mezz'ora e alla fine lo consumarono quasi freddo.
    Zac tornò a casa a metà pomeriggio, con l'accordo di rivedersi a cena da lui. Rimasta sola, Libby sedette sul divano a cullare Victoria e sentì subito un terribile senso di vuoto.
    Mise la bimba contro la spalla ed entrò in cucina, ma si fermò subito di fronte al disordine che l'accolse - un disordine che parlava di Zac in ogni minimo dettaglio. I piatti sporchi del pranzo erano impilati nel lavello e sul piano della credenza si vedeva ancora una traccia di mostarda, a ricordarle i giochi erotici del mattino. Libby scosse la testa: avrebbe rimesso a posto più tardi.
    Entrò in camera da letto per prendere il seggiolino di Victoria e le parve che le lenzuola spiegazzate e la biancheria rossa disseminata sul pavimento le gridassero il nome di Zac.
    Strinse più forte la figlia. Aveva commesso un terribile errore? Una donna che voleva, che aveva bisogno di un marito, e un uomo che non voleva dipendere da nessuno: era proprio una combinazione impossibile. Se si sentiva così vuota e sola dopo una notte soltanto, cosa avrebbe potuto aspettarsi dal futuro, se non una sofferenza senza fine?

    Tornato a casa, Zac fece la doccia, si cambiò e accese la televisione. Ma non riuscì a stare fermo sul divano e ascoltò la cronaca della partita di baseball con un orecchio solo, camminando nervoso per il salotto. Era già pronto ad andare da Libby, ma lei gli aveva detto di passare alle sei. Mancavano tre ore e non sapeva come riempirle.
    Si guardò intorno e per la prima volta non provò la solita soddisfazione. Risistemò le piante finte sulla mensola del caminetto, aprì le tende per far entrare più luce e riordinò le riviste ammucchiate sul basso tavolino da caffè. Ma qualcosa ancora non andava. Si tolse calze e scarpe e riprese a camminare avanti e indietro, poi si fermò di colpo e le guardò: non sapeva perché, ma quella nota di disordine lo faceva sentire meglio.
    Preso da un'ispirazione improvvisa, si rimise calze e scarpe, prese le chiavi della macchina e uscì di corsa. Meno di un'ora dopo era di ritorno con un enorme mazzo di fiori azzurri, gialli, viola e rossi. Li dispose in un vaso al centro del tavolino da caffè e assentì soddisfatto: era sicuro che Libby li avrebbe apprezzati.
    Arrivò a casa sua alle cinque e mezzo.
    «Sei in anticipo, come al solito!» lo rimproverò lei scherzosa. «Per fortuna siamo pronte.»
    Gli tese la figlia e afferrò la borsa piena di pannolini rimasta dietro la porta.
    «Dobbiamo trasferire il seggiolino di Victoria sulla mia macchina, vero?» disse Zac.
    Libby sgranò gli occhi, sorpresa.
    «Vero. Come facevi a saperlo?»
    «Oh, devo averlo letto da qualche parte» minimizzò lui.
    Doveva essere un articolo della rivista sui bambini datagli da Hannah: dopo mesi di insistenza da parte della cognata, finalmente, qualche sera prima, si era messo a leggerla e l'aveva anche trovata piena di temi interessanti.
    Osservò Libby mentre apriva la portiera della macchina e toglieva il seggiolino da bebè. Indossava il vestito rosa che lui ricordava dalla riunione delle mamme a casa di Mabel; ancora una volta, Zac desiderò strapparle con i denti il bottone che impediva l'accesso alle morbide curve messe in risalto dalla stoffa leggera.
    Dopo una notte e una mattina passate a fare l'amore con lei, Zac non avrebbe mai pensato di possedere abbastanza energia per ricominciare, eppure era proprio così: anzi, solo ora capiva che gli ci sarebbe voluto molto tempo prima di saziarsi di lei. Forse non sarebbe bastata una vita intera.
    Zac si fermò di colpo: non la voleva solo nel proprio letto. La voleva nella propria vita! Voleva svegliarsi con lei, andare a dormire con lei, tornare a casa da lei.
    Ma nei suoi piani non c'era posto per tutto questo. Aveva giurato di accumulare una fortuna prima dei trentacinque anni e gliene mancavano ancora quattro. Fino a che non avesse raggiunto quell'obiettivo, il lavoro avrebbe assorbito tutto il suo tempo e le sue energie. Non sarebbe rimasto nulla da dedicare alla famiglia. Maledizione, perché non si erano incontrati cinque anni dopo?
    Libby notò che si era fermato e lo guardò preoccupata.
    «Qualcosa non va?»
    Zac si riscosse a fatica e le rivolse un sorriso tirato.
    «No, no, tutto bene.»
    Poi sistemò il seggiolino di Victoria nella propria macchina.
    Durante il tragitto Libby rimase in silenzio, apparentemente immersa nei propri pensieri, e Zac ne fu sollevato: anche lui aveva parecchie cose su cui riflettere. Sapeva che Libby cercava un marito per sé e un padre per la figlia. Forse avrebbe accettato un esperimento con lui, ma presto i suoi orari impossibili avrebbero cominciato a creare problemi tra loro, facendola sentire sola e trascurata.
    Ma allora perché aveva permesso alle cose di arrivare fino a quel punto? Qualcuno avrebbe sofferto; qualcosa gli diceva che non sarebbe stata solo Libby.
    Quando arrivarono al condominio dove viveva Zac, il silenzio nella macchina era diventato quasi oppressivo. L'unica a non notarlo era Victoria, che si era addormentata quasi subito.

    «Posso aiutarti?» chiese Libby appena furono entrati in casa.
    «No, grazie. Lasciami solo un attimo per controllare le patate. Perché non vai in salotto e ti metti comoda? Io arrivo tra un minuto.»
    Libby vide subito i fiori.
    «Che belli! Te li ha mandati una delle tue ammiratrici?» chiese, gridando per farsi sentire nell'altra stanza.
    Zac entrò in salotto.
    «No. Vengono da uno dei tuoi ammiratori.»
    Libby lo guardò interdetta.
    «Come, dei miei?»
    «Sono per te.»
    Libby rimase in silenzio per un attimo, poi gli occhi le si riempirono di lacrime.
    «Sono bellissimi, Zac. Grazie» mormorò, sfiorando un petalo rosa con un dito.
    «Se vuoi mettere a letto Victoria, puoi usare la stanza degli ospiti. È di fronte alla mia camera. Le ho riempito il letto di cuscini, in modo da creare una specie di nido: così non potrà cadere.»
    Libby assentì e si voltò di scatto, per nascondergli gli occhi umidi. Era più dura di quanto immaginasse: ogni momento che passavano insieme le forniva un nuovo ricordo a cui aggrapparsi negli anni di solitudine che l'attendevano. Per non impazzire doveva porre fine a quella storia. Un cuore poteva spezzarsi più di una volta; il suo si sarebbe spezzato ogni volta che avesse visto un film di fantascienza alla televisione o mangiato un piatto italiano. Più ricordi avessero costruito insieme, più ricordi l'avrebbero fatta soffrire in futuro.
    Ma c'era ancora quella notte. Un altro ricordo, solo un altro.

    Le bistecche erano perfette e le patate cotte al punto giusto, ma Libby riuscì appena a toccarle. Passò quasi tutto il tempo a spostare il cibo nel piatto e un'occhiata a Zac le confermò che lui si trovava nella stessa situazione: anche la sua porzione era quasi intatta.
    Zac portò i piatti nel lavello, senza fare commenti sulla montagna di cibo avanzato. Si sedettero sul divano ad ascoltare la musica dello stereo e a osservare i pesci tropicali dell'acquario. Libby si alzò, si inginocchiò e indicò i due pesci angelo bianchi e neri.
    «Come hai detto che si chiamano, quelli lì?» chiese incuriosita.
    «Michael e Gabriel» rispose Zac.
    Aveva scelto i nomi di due angeli, notò lei. Pochi giorni prima era rimasto inorridito all'idea di fare una cosa così sentimentale, ma forse ora era cambiato. In fondo era giusto: anche lei era cambiata tanto, da quando l'aveva conosciuto.
    Notò qualche altro cambiamento. Le piante sulla mensola del camino erano state spostate e non erano più allineate in una fila ordinata, come soldatini, ma raggruppate in modo più informale. Le riviste sul tavolino da caffè erano radunate in modo più casuale e dal divano spuntava una scarpa da tennis. Libby avrebbe voluto sorridere con approvazione, ma non ci riuscì.
    Zac si inginocchiò accanto a lei e prese a parlare senza guardarla.
    «Tutto d'un tratto mi è sembrato idiota avere dei pesci dello stesso colore del resto del salotto» confessò.
    Libby gli indicò gli altri abitanti dell'acquario.
    «E quelli come si chiamano?»
    «A, E, I, O e U.»
    Questa volta il sorriso le venne più facile.
    «Le vocali sono cinque e i pesci sei» gli fece notare.
    «L'ultimo si chiama Y» rispose Zac.
    Libby si voltò verso di lui e lo guardò diritto negli occhi.
    «Sono contenta che tu abbia dato un nome ai tuoi pesci.»
    Zac si strinse nelle spalle.
    «Che altro potevo fare? Tu hai trovato un nome perfino alle tue piante.»
    «Come fai a saperlo?»
    «Ti ho sentito borbottare qualcosa, stamattina: promettevi di innaffiarle più tardi. A proposito, chi è Elliott?»
    «L'edera appesa sopra il lavello in cucina.»
    «Insomma, non avevo scampo» riprese Zac. «Prima o poi saresti intervenuta, così ho deciso di chiamare i miei pesci come volevo, prima che proponessi nomi come Priscilla, Harry o Bartholomew.»
    «Non avrei mai scelto dei nomi del genere!» protestò lei, indignata.
    «Libby, per quanto tempo ancora dobbiamo parlare di pesci?» chiese Zac con dolcezza.
    Lei abbassò la testa, confusa.
    «Non lo so.»
    «Parliamo di qualcos'altro» decise Zac.
    Allungò una mano, afferrò una lunga ciocca di capelli neri e se la passò lentamente sulle labbra.
    «Di... di che cosa vuoi parlare?» chiese Libby con voce malferma.
    Ora Zac le stava strofinando le labbra con i suoi stessi capelli. Poi li lasciò andare e le accarezzò una guancia.
    «Oh, non so» rispose con deliberata vaghezza. «Mi piacerebbe parlare di te, di me e del bel tappeto bianco su cui siamo inginocchiati» aggiunse in tono carico di allusioni.
    Libby sentì il suo respiro caldo sul collo.
    «Che... che cosa c'entra il tappeto?» chiese smarrita.
    «È morbido» rispose Zac spingendola giù. «Non trovi?»
    «Sì» rispose lei con voce rotta.
    «Anche tu sei morbida» riprese, tempestandole di piccoli baci il vestito leggero. «E io ho tanto, tantissimo bisogno di te.»
    «Anch'io ho bisogno di te» gli fece eco Libby con voce fievole.
    Le mani di Zac coprirono il seno messo in risalto dal vestito leggero e aderente.
    «Questo vestito è indecente, lo sai?»
    Libby lo guardò sconcertata.
    «Come, indecente?»
    Zac accostò le labbra al bottone che chiudeva la scollatura.
    «Questo bottone è un affronto, una sfida: incita un uomo a slacciarlo.»
    «Perché non lo fai, allora?»
    Zac sollevò la testa e le sorrise malizioso.
    «Ne ho tutta l'intenzione» le assicurò.
    Tornò a chinarsi e prese l'odiato bottone tra i denti: venne via facilmente, come se fosse stato cucito apposta per incitare un uomo a strapparlo.
    Le sue mani fecero scivolare fino alla vita il corpetto aderente, denudando i seni morbidi. Zac li circondò con amore e passò la lingua sui capezzoli rosei, stuzzicandoli con piccoli movimenti avidi ed esperti.
    «Come fa la bambina a succhiare?» chiese. «Così?» aggiunse, prendendo in bocca un capezzolo e cercando di imitare i movimenti di Victoria.
    Libby gemette di piacere.
    «Sì. No. Ecco, è...»
    Non riuscì a finire perché le parole si persero in un mormorio incoerente.
    «Mmm, che sapore dolce!» esclamò Zac in tono estasiato.
    Furono le ultime parole pronunciate da entrambi, a parte qualche mormorio di passione. Ma nella loro unione adesso c'era un fondo di asprezza e disperazione, una spinta a portare tutto al massimo, come se quella potesse essere l'ultima volta.
    Zac carezzò Libby fino a farla fremere tutta, poi lei gli restituì il favore. Raggiunsero più di una volta il culmine del piacere, fino a quando non ricaddero esausti sul morbido tappeto bianco. Sonnecchiarono un po', poi si trasferirono nel letto di Zac, dove si amarono ancora e si addormentarono abbracciati.
    Quando Zac si svegliò non era ancora l'alba. Rimase disteso, con Libby rannicchiata al proprio fianco, a guardare i raggi del sole che sorgeva. La sua luce dorata carezzava la pelle di porcellana di Libby e traeva riflessi lucenti dai suoi capelli neri. Non aveva mai visto una donna così bella di mattina... e anche di notte.
    Anche la notte sembrava amarla, sottolineando il colore dei suoi capelli e gli occhi azzurro cupo. In realtà, ogni momento del giorno sembrava prediligerla, rifletté. E anche lui l'amava. L'amava abbastanza da capire che non poteva darle ciò di cui aveva bisogno. Ciò che si meritava. L'amava abbastanza da lasciarla andare.
    Sentì dei rumori soffocati provenire dalla stanza di fronte, infilò in fretta i jeans e corse a controllare come stava Victoria. La trovò sveglia e coricata sulla schiena, con le braccia che si agitavano in aria. Ricordò che la sera prima Libby l'aveva messa a letto distesa sulla pancia e provò una fitta d'orgoglio constatando che era riuscita a girarsi da sola. Prese un pannolino dalla borsa, la cambiò e le mise una camicetta pulita, gialla come i pantaloncini. Poi la portò in camera da letto, dove Libby continuava a dormire tranquillamente.
    Gliela mise vicina e Victoria impiegò pochi attimi a trovare il seno materno e a succhiare con avidità. Zac rimase a guardare appoggiato a un gomito, preso da un'improvvisa tristezza, da un senso di solitudine quale non aveva mai provato in vita sua: era una scena così intima e calda, eppure in futuro ne sarebbe stato escluso.
    Come sarebbe diventata Victoria? Avrebbe portato i codini o i capelli corti? Avrebbe preferito giocare con le bambole o con le macchinine? Magari con tutti e due. Non c'era una legge che lo proibisse, no? E Libby si sarebbe accertata che avesse tante costruzioni con cui giocare? Aveva letto da qualche parte che aiutavano la coordinazione. E... Si interruppe di colpo: non erano affari suoi.
    Libby si stirò pigramente e aprì gli occhi. Guardò la figlia che succhiava felice, poi Zac che le osservava entrambe e arrossì. Rimasero in silenzio fino a che la bimba non ebbe finito di mangiare, poi Libby si mise a sedere, la sistemò sulla spalla e le fece fare il ruttino.
    Quindi tornò a distendersi e guardò Zac.
    «Dobbiamo parlare.»
    Lui scese velocemente dal letto.
    «D'accordo. Ti aspetto in salotto.»


    11

    Libby si avvolse un lenzuolo intorno al corpo, tornò in salotto, prese i propri indumenti sparsi sul tappeto e si rifugiò in camera per rivestirsi. Sostituì il bottone strappato da Zac con una spilla da balia trovata in un cassetto.
    Lo sguardo turbato di Zac non lasciava presagire una conversazione facile. Strinse al petto Victoria, bisognosa di conforto; il suo corpo morbido e il suo profumo fresco le diedero la forza di affrontare la realtà. Ormai non le restava alternativa: doveva mettere fine alla storia con Zac. Victoria meritava le attenzioni e l'amore di un vero papà, non di un amante temporaneo della madre.
    Non appena entrò in salotto Zac cominciò a parlare in fretta.
    «Libby, in questo momento ho tempo solo per una relazione poco impegnativa. Tu e Victoria meritate molto di più e...»
    «Hai ragione» lo interruppe lei. «Ho bisogno di qualcuno che possa starmi vicino, non solo per me, ma soprattutto per mia figlia. E so che questo qualcuno non puoi essere tu» aggiunse, facendosi forza per non piangere.
    Nonostante la sua ferma risoluzione, però, una lacrima scese a rigarle la guancia.
    «Non potrò esserci sempre, ma potremmo continuare a vederci» tentò di rimediare Zac.
    Lei lo guardò con occhi lucidi di lacrime, di amarezza e di rabbia.
    «No! Non posso sprecare altro tempo. Ho bisogno di un uomo che non abbia paura di impegnarsi.»
    «Come sarebbe a dire, paura?» protestò Zac. «Io non ho paura.»
    Libby lo guardò negli occhi.
    «Ah, no? Tutti i tuoi discorsi di tempo e progetti sono solo delle scuse. I progetti si possono cambiare, se non si ha paura, ma tu ce l'hai.»
    «Libby, io ti a... io tengo a te.»
    Libby sospirò piano e si diresse alla grande finestra che dava sul parco.
    «Oh, sì, tieni a me!» proruppe amara. «Che graziosa, insipida parola! Una parola perfetta, per chi ha paura di legarsi. Ma io voglio un uomo pronto ad amare me e mia figlia.»
    Zac la raggiunse impacciato.
    «Libby, cerca di capire» la pregò. «Ho basato tutta la mia vita su progetti e obiettivi. Devo fare tante cose prima di avere il tempo di dedicarmi a una moglie e a una famiglia. Non sarebbe giusto chiedere a una donna di stare con un uomo che non può darle tutto se stesso.»
    «Infatti, non sarebbe giusto» concordò Libby. «Io voglio di più e per ottenerlo la mia vita deve andare avanti.»
    Si voltò verso di lui, con le lacrime che le rigavano il viso, e lo osservò come se volesse imprimersi nella memoria i suoi tratti, per ricercarli nelle lunghe notti di solitudine che l'attendevano.
    «Non sai come vorrei poterti dare quello che desideri» mormorò Zac con voce strozzata. «Davvero, Libby, credimi.»
    «E io vorrei che tu tenessi abbastanza a me da riuscire a...»
    Lui la interruppe, indignato.
    «Come sarebbe a dire, abbastanza? Non è questo il punto.»
    «Io ti amo, Zac. Ti amo abbastanza da riorganizzare la mia vita per te, ma tu non sei disposto a fare altrettanto. Ti capisco, sai? Una moglie e una famiglia già pronta non sono facili da accettare. Ma ci sono uomini che non hanno paura di provare.»
    Si voltò bruscamente e accennò al telefono.
    «Devo andare. Posso chiamare un taxi?»
    «Ti accompagno io.»
    «Preferisco di no» rifiutò Libby con calma.
    Non capiva, constatò Zac con un senso di disperata impotenza: erano anni che lavorava per raggiungere certi obiettivi. Se li avesse abbandonati, avrebbe sprecato tutta la sua vita.
    «Vorrei accompagnarti» insistette.
    «E io preferisco di no» ripeté Libby. «E ora, posso usare il telefono?»
    Zac si strinse nelle spalle.
    «Se è questo che vuoi...»
    Si voltò e guardò fuori della finestra con occhi vuoti. Quando Libby riattaccò il ricevitore e prese la borsa dei pannolini, tentò di aiutarla, ma lei rifiutò con gentile fermezza. Lo salutò in fretta, aprì la porta e usci.
    Rimasto solo, Zac sbatté il pugno contro il muro, imprecando.

    La scuola sarebbe ricominciata entro due settimane e Libby non vedeva l'ora di riprendere a insegnare. Il contatto con i bambini l'avrebbe aiutata, ne era sicura. E poi non sopportava di restare in casa: negli ultimi giorni aveva portato Victoria al parco, al museo - ma non alla mostra d'arte precolombiana - e perfino a un paio di spettacoli mattutini. Tutto era preferibile a restare a casa.
    Le notti non erano così facili: non riusciva quasi più a dormire nel suo letto, colmo com'era di ricordi di Zac, e spesso finiva per trasferirsi sul divano e guardare la televisione fino alle ore piccole, senza seguire veramente ciò che passava sullo schermo.
    Anche Victoria sembrava più nervosa del solito: mentre cercava di calmare il suo continuo piagnucolio, Libby si chiedeva se stesse reagendo alla sua infelicità o se anche lei sentisse la mancanza di Zac.
    Ogni volta che suonava il telefono trasaliva, nella folle speranza che fosse lui, pronto a scusarsi e a pregarla di riprenderlo. Ma non era mai Zac. Alla fine smise di rispondere e lasciò attaccata la segreteria telefonica.
    Poi, la sera, ascoltava i messaggi con il cuore stretto.
    «Libby, sono la mamma. Ti ho chiamato qualche giorno fa, ma forse non hai ricevuto il messaggio. Riproverò ancora. Dai un bacio alla mia bella nipotina.»
    «Sono Faith. È la terza volta che chiamo. Ehi, sorella, che ti succede? Devo raccontarti di un tipo fantastico che ho conosciuto. Ora devo scappare. A presto.»
    «Sono Hannah. So che è successo qualcosa tra te e Zac. Se ti può consolare, lui sta malissimo. Se hai voglia di parlarne, chiamami.»
    «Libby, sono Deb. Non lascerò più messaggi su quella dannata segreteria! Maledizione, prendi il telefono e chiamami! Ho parlato con Hannah: mi ha detto che è successo qualcosa tra te e Zac. Nessun uomo merita che si soffra troppo per lui. Ora devo andare: il mio prossimo paziente arriva tra due minuti. Ti richiamo stasera.»
    «Ciao, Libby... ehm, sono Zac. Hai lasciato un paio di cose della bambina a casa mia. Se non vuoi... ehm, vedermi, posso lasciarle al portiere da me. Io... spero che tu stia bene. E anche la bambina.»
    Libby ascoltò il messaggio una decina di volte, poi lo cancellò rabbiosamente. Prese la figlia, la borsa e le chiavi e uscì. Non resisteva un minuto di più in quella grande casa vuota.

    Zac cominciava a odiare il proprio appartamento lindo e silenzioso. Ogni giorno, tornato dal lavoro, cercava una scusa per uscire di nuovo. Pranzava e cenava con dipendenti e conoscenti d'affari, giocava a tennis più spesso di prima e andava in palestra: qualsiasi cosa era preferibile a restare solo a casa.
    Forse doveva apportare qualche cambiamento. Per esempio, il tappeto bianco. Voleva sostituirlo perché se ne era stancato, si disse, non certo perché ogni volta che entrava in salotto si rivedeva su di esso, avvinto a Libby. E anche la camera da letto aveva bisogno di qualche novità... e non certo perché rivedeva il corpo roseo di Libby disteso tra le lenzuola spiegazzate.
    Comprò anche un pesce rosso e lo mise nell'acquario in mezzo agli altri. Non perché secondo Libby era assurdo coordinare il colore dei pesci con quello dell'arredamento, ma semplicemente perché aveva voglia di variare un po'.
    I fiori che aveva comprato per lei erano ancora al centro del tavolino da caffè, sebbene molti petali fossero ormai caduti. Eppure non riusciva a liberarsene, forse perché gli ricordavano Libby e tutte le ragioni per cui aveva fatto bene a rompere con lei.
    La notte stentava ad addormentarsi, e quando ci riusciva era ancora peggio, visti i sogni che faceva. Erano sogni pieni di risate e di tranquille chiacchierate con Libby, che al risveglio lo lasciavano pieno di odio per il silenzio intorno a lui; sogni di unioni appassionate, che lo lasciavano pazzo di desiderio frustrato; sogni di tenui rumori infantili, che lo facevano scendere dal letto di corsa, solo per ricordare che non c'era nessun bambino nella stanza accanto.
    Spesso camminava avanti e indietro fino alle tre di notte, e la mattina dopo era stanco e irritabile. Così ordinava alla segretaria di rimandare gli appuntamenti e le riunioni già fissate. Tanto non era in grado di dedicarsi al lavoro: dopo qualche minuto la concentrazione svaniva e lui riusciva a pensare solo a Libby.
    Ma stare a casa era la tortura peggiore: il suo appartamento tranquillo, un tempo rifugio e paradiso, ora lo tormentava con continui ricordi di Libby. Il silenzio che amava tanto risuonava di echi di voci e risate. Ormai nemmeno la musica rock che aveva cominciato ad ascoltare alla radio bastava a calmarlo.
    Forse avevano fatto bene a lasciarsi, ma ora la sua vita era un vero disastro.

    «Hai un aspetto pessimo.»
    «Grazie, Hannah»borbottò Zac. «Avevo proprio bisogno di un po' di incoraggiamento.»
    «È la verità»insistette lei. «Sei dimagrito, hai le borse sotto gli occhi e l'aria infelice» finì addolcendo la voce.
    «Be', ho visto tempi migliori» ammise Zac di malavoglia.
    «Perché non la chiami? So da fonte sicura che anche lei è infelice.»
    «Lo sto facendo per lei. Libby vuole un marito e un padre per Victoria e io non posso accontentarla. Non ancora, almeno. I miei progetti non lo permettono.»
    «Sei stato tu a farli, dunque li puoi anche cambiare» gli fece notare Hannah.
    «Non è così semplice.»
    «Sì, invece. Continui a ritenere la famiglia un intralcio. Ti sei mai fermato a considerare che invece potrebbe essere un vantaggio? Ti dà un punto di riferimento, qualcosa per cui lavorare. Finora hai dedicato tutto te stesso alla compagnia, cioè a delle macchine e a un gruppo di dipendenti che ogni sera tornano a casa dalle loro famiglie. E tu torni a casa e cosa trovi? Un appartamento vuoto, delle piante finte e un acquario. Ehi, ma quello è un pesce rosso! Cosa ci fa là in mezzo?» chiese stupefatta.
    Zac si strinse nelle spalle.
    «È una lunga storia.»
    «Comunque, rifletti su quello che ti ho detto. Me lo prometti?»
    «Hannah, sono due settimane che non penso ad altro. Si sta facendo tardi: non hai un appuntamento di lavoro tra poco?»
    Hannah guardò l'orologio e annuì.
    «Hai ragione. Grazie per l'offerta di tenere Nicky. Sei sicuro di cavartela?»
    «Sicurissimo. Non preoccuparti.»
    Rimasto solo, Zac sedette sul divano con il nipote in braccio e si trovò a pensare a Victoria. Era più minuta di Nicky, ma entrambi amavano agitare in aria mani e piedi e gli dedicavano grandi sorrisi sdentati.
    Victoria gli mancava, ammise in un lampo. Nicky cresceva in fretta e stava perfino mettendo due dentini. Chissà se anche lei era cambiata? Tra qualche mese avrebbe cominciato a girare per la casa a quattro zampe e poi a camminare... e lui non sarebbe stato là a vederla.
    Un dolore improvviso gli strinse il cuore: le prime parole di Victoria non sarebbero state per lui, e se Libby avesse di nuovo pronunciato i voti matrimoniali non l'avrebbe fatto rivolta a lui.
    Nicky sbatté il nasino contro il bracciolo del divano e cominciò a piangere. Zac abbassò lo sguardo e invidiò al nipote la libertà di urlare e dimenarsi: in quel momento gli sarebbe piaciuto fare lo stesso.

    «Deb, non voglio uscire, stasera» protestò Libby debolmente.
    «È già tutto organizzato. Tua madre ha detto che questo tipo verrà a prenderti alle sette. Chi è, tra parentesi?»
    «Un vecchio compagno di scuola, di passaggio in città. Non so proprio perché la mamma gli abbia suggerito di invitarmi fuori. Non sono proprio in vena di compagnia.»
    «E invece ti farà bene uscire e vedere che la vita va avanti. Insomma, non puoi trasformarti in un eremita. Ma guardati: hai i capelli in disordine, sei dimagrita e sembra che tu non dorma da un mese. Quel tipo racconterà a tua madre che hai un aspetto spaventoso e lei piomberà qui a controllare.»
    Libby sospirò sconsolata.
    «Lo so. Ma cosa posso fare?»
    «Ti sistemerò i capelli e ti truccherò in modo da nascondere le occhiaie. E poi dovrai metterti un vestito carino» la istruì Deb. «Ti sentirai subito meglio, è garantito.»
    «Oh, no, Deb! Preferisco cancellare l'appuntamento.»
    «E restare a casa a piangere?»
    «Be', a volte serve.»
    Deb non volle sentire ragioni: le acconciò i capelli, la truccò e cominciò a frugare nell'armadio, proponendole un vestito dopo l'altro, ma Libby li scartò tutti. Quando l'amica le indicò il vestito bianco che aveva messo per andare a cena con Zac, cominciò a piangere senza ritegno e Deb dovette rifarle il trucco degli occhi.
    Alla fine Deb tirò fuori un vestito rosa.
    «No, quello no!» rifiutò subito Libby.
    «Insomma, non te ne va bene uno!» scattò Deb esasperata. «Tra poco quel tipo sarà qui e tu sei ancora in vestaglia!»
    Libby non aveva l'energia per discutere. Si tolse la vestaglia e infilò il vestito rosa dalla testa.
    «Ecco. Soddisfatta?»
    «Eccome. Voltati. Ehi, che scollatura! Non puoi tenere il reggiseno: si vedrebbe e starebbe malissimo.»
    «Allora sarà meglio...»
    «No, no. Togli il reggiseno... ecco, così, Fantastico!» approvò Deb. «Ehi, sento il campanello.»
    Andò ad aprire e tornò un attimo dopo.
    «Allora, io porto Victoria da mia madre. A che ora pensi di venire a riprenderla?»
    «Presto» rispose Libby cupa.
    Rimasta sola, esitò ancora qualche minuto, poi uscì dalla camera da letto. Ricordava John Walker, un tipo alto e biondo, simile a un surfista californiano. Molte donne lo trovavano stupendo, ma lei preferiva gli uomini bruni come Zac.
    Prese la borsa, uscì di casa e andò a sbattere contro... Zac. Lo guardò un attimo senza fiato, poi sussurrò il suo nome smarrita.
    Zac lanciò un'occhiata ostile al gigante biondo che sembrava riempire il vano della porta.
    «Sto interrompendo qualcosa?» chiese.
    John fece scivolare la mano sotto il gomito di Libby con aria possessiva.
    «Stiamo per uscire.»
    Zac la guardò e gli occhi si incupirono alla vista del vestito attillato e provocante.
    «Ci scusi un attimo. Dobbiamo parlare» annunciò deciso.
    Prese l'altro braccio di Libby e la trascinò dentro, sbattendo la porta in faccia all'allibito John.
    Libby si divincolò furiosa.
    «Ehi, cosa credi di fare?»
    «Tu non esci con quel vestito indecente.»
    «Non sono affari tuoi.»
    «Ma non hai neanche il reggiseno!»
    «Non intendo discuterne con te. Perché sei venuto?»
    Zac accarezzò distratto la testa di Wells, che agitava la coda festoso, e notò le occhiaie sul viso di lei, occhiaie che nemmeno il trucco sapiente era riuscito a nascondere. Libby sembrava dimagrita e i suoi occhi mostravano la stessa desolata solitudine che Zac vedeva ogni mattina nei propri.
    «Io... io non lo so. Volevo vederti» rispose impacciato.
    «Mi sembrava che avessimo deciso di non vederci più.»
    «Tu l'hai deciso, non io.»
    La sua voce vibrava di desiderio, ma non era abbastanza. Libby ingoiò le lacrime che minacciavano di scendere: si era già rifatta il trucco due volte. Non voleva ripeterlo per la terza.
    «Zac, non può funziona...»
    Si interruppe di colpo per un brusco bussare alla porta.
    «Non possiamo lasciare John là fuori in eterno.»
    Zac andò alla porta, l'aprì e si rivolse all'allibito ospite.
    «Ci scusi un attimo.»
    Poi la richiuse e tornò a rivolgersi a Libby.
    «Io ti voglio.»
    «Questo non basta.»
    «Anche tu mi vuoi. Su, ammettilo.»
    «Non ho proprio niente da ammettere» scattò lei irritata.
    Zac coprì la distanza tra loro in due passi, l'attirò a sé e posò le mani sulla sua schiena nuda. Inserì una gamba tra le sue, certo che avrebbe subito notato la sua eccitazione.
    «Devo provarlo, Libby? Devo dimostrarti che anche tu mi desideri?»
    Si chinò per osservare i capezzoli che premevano turgidi contro la stoffa leggera del vestito.
    «Vedi? Il tuo corpo l'ha già dimostrato» disse soddisfatto, coprendole i seni con le mani,
    Libby si liberò dalla stretta e lo guardò con occhi fiammeggianti.
    «E va bene, ti desidero. Ma questo non significa niente, perché tu non puoi darmi quello di cui ho bisogno.»
    Zac si passò una mano tra i capelli. Le cose non stavano andando come previsto e lui non riusciva a pensare razionalmente, avendola vicina.
    «Libby...» cominciò con voce roca.
    «Vuoi andartene, per favore? John mi sta aspettando.»
    Zac si lasciò sfuggire un sospiro di frustrazione.
    Si voltò verso la porta, poi tornò a guardarla.
    «Rispondi ancora a una domanda, Libby. Poi me ne andrò.»
    Lei assentì.
    «Mi ami ancora?»
    Una lacrima scese di colpo a rigarle la guancia.
    «Maledizione! Dovrò rifarmi il trucco» mormorò lei. «E se anche fosse?» aggiunse guardando Zac.
    «Ho bisogno di saperlo.»
    «Perché?»
    «Non lo so! Non capisco più niente» gridò lui. «Avanti, dimmelo.»
    «E va bene. Sì, ti amo ancora. Ma questo non cambia niente.»
    Un'altra lacrima scese a rigarle il viso, poi un'altra ancora.
    Zac girò sui tacchi e uscì, sbattendo la porta con un colpo secco. Fece pochi passi e tornò indietro, prendendo a pugni il battente sotto lo sguardo stupefatto dell'altro.
    Quando lei aprì, fu John il primo a entrare.
    «Hai bisogno di aiuto, Libby?» chiese.
    «Non ha bisogno di te» si intromise Zac.
    Rientrò in casa a sua volta, spinse fuori l'altro, troppo allibito per reagire, e tornò a sbattergli la porta in faccia.
    «Dovrò farmene fare una nuova se continui a trattarla così» tentò di scherzare Libby.
    Zac la fissò serio.
    «Questo cambia tutto» dichiarò.
    «Ma di cosa stai parlando?»
    «Del fatto che tu mi ami ancora. Questo cambia tutto» ripeté Zac.
    «Basta!» gemette Libby con voce rotta. «Non posso continuare così. Mi stai facendo a pezzi.»
    «Allora siamo pari: anche tu mi stai facendo a pezzi.»
    Zac allungò una mano e le accarezzò i capelli, poi l'attirò a sé con dolcezza.
    «I miei giorni sono desolati e le mie notti ancora peggiori. Ho bisogno di te, Libby.»
    «Non è giusto» protestò lei con voce rotta dal pianto. «Sto cercando di fare del mio meglio e tu me lo impedisci.»
    «La cosa migliore è che noi due stiamo insieme.»
    Zac la guardò negli occhi; ormai erano vicinissimi. Sarebbe bastato un minimo movimento a unirli.
    «E Victoria?»
    «Noi due, Victoria, quel dannato cane e tutte le tue piante.»
    «Che... che cosa vuoi dire?»
    Libby non riusciva quasi a respirare mentre attendeva la risposta.
    John riprese a bussare furioso e urlò qualcosa circa il chiamare la polizia. Libby andò alla porta e si affacciò.
    «Scusami, John» disse gentilmente. «È successo qualcosa. Magari un'altra volta.»
    Richiuse la porta e tornò da Zac.
    «Cosa volevi dire?» insistette.
    Lui le prese le mani tra le sue.
    «Ti amo. Vuoi sposarmi?»
    «E i tuoi piani?» chiese Libby con la voce ridotta a un sussurro.
    «Li ho fatti io e posso cambiarli, se voglio. E lo voglio. Ho bisogno di te nella mia vita, piccola, e se questo significa sposare anche il cane e tutte le tue piante, lo farò.»
    «E la bambina?»
    «Anche lei. Sai, mi svegliavo spesso la notte e mi pareva di sentirla. Invece non c'era. Mi è mancata tanto anche Victoria.»
    «Anche tu le sei mancato.»
    «Ma la mamma mi è mancata ancora di più» sussurrò Zac prima di prenderle le labbra in un bacio dolce e tenero. «Di' di sì, ti prego.»
    La cinse con le braccia e nascose il viso nei suoi capelli, tenendola così stretta che ognuno poteva sentire il battito furioso del cuore dell'altro.
    «Dio, è così bello averti vicina! Morivo dalla voglia delle tue carezze» confessò Zac, commosso.
    «Stringimi forte» lo implorò Libby.
    «Ancora un po' e non riusciremo a respirare» osservò lui.
    «Oh, non mi importa.»
    «Hai ragione» approvò Zac sentendosi di colpo più leggero. «Che bisogno c'è di respirare?»
    La spinse contro il muro e premette il corpo contro il suo. La baciò selvaggiamente, come se non potesse più smettere, mentre le sue mani avide e carezzevoli si insinuavano dappertutto.
    Poi la trascinò sul pavimento, liberandosi freneticamente dei vestiti. Quel terribile senso di vuoto e solitudine non sarebbe scomparso fino a che non si fosse di nuovo perso in lei, lo sapeva.
    Mentre si univano mormorò folli, primitive parole di amore e possesso. La prese con slancio selvaggio, l'amò con generosità e tenerezza, creando un legame fisico ed emotivo quale non aveva mai creduto possibile.
    Alla fine si appoggiò su un gomito e la guardò con un lampo di malizia negli occhi scuri.
    «Immagino che questo significhi sì.»
    Un sorriso lento e radioso le illuminò il volto, il sorriso che lui aveva notato fin dall'inizio e di cui si era innamorato.
    «Sì.»

    Libby guardò ansiosamente la propria figura riflessa nel grande specchio a muro.
    «Va tutto bene?»
    «Ma certo. La mantiglia di pizzo è perfetta con l'abito. Non preoccuparti: sei bellissima.»
    «Zac è già arrivato?»
    «È sotto con suo fratello.»
    «E i ristoratori?»
    «È tutto sotto controllo, Libby»la rassicurò Deb. «Smettila di agitarti.»
    Libby girò lo sguardo per la stanza piena di persone care: la madre osservava estasiata il bouquet appena consegnato. Deb, Hannah, sua sorella Faith e Alice, la cognata di Zac, erano radunate intorno a lei, tutte graziose ed eleganti nei loro abiti dai colori pastello.
    «Sei sicura di voler mettere proprio quelle scarpe?» chiese la madre, dubbiosa.
    Libby abbassò lo sguardo e sorrise.
    «Sì. So che i sandali non sono l'ideale, in questa stagione, ma ho le mie buone ragioni.»
    La musica cominciò e tutte si avviarono da basso. Deb indicò ammirata lo sposo, fermo nel vano della porta, accanto al fratello che gli faceva da testimone.
    «Non è magnifico?» sussurrò.
    Libby gli diede un'occhiata furtiva e approvò di slancio.
    «Non avevo mai visto Zac vestito così. Lo costringerò a mettere lo smoking anche in viaggio di nozze» ridacchiò.
    «È ora di andare.»
    Per prima si avviò Alice, seguita da Hannah, Faith e Deb. Infine si fece avanti Libby.
    «È proprio bella, fratellino» bisbigliò Matt a Zac. «Quasi come la mia Alice.»
    Zac non disse nulla: aveva un groppo in gola grosso come un pompelmo e si sentiva le lacrime agli occhi. Non aveva mai visto una donna più bella in tutta la sua vita: il vestito di satin aderiva alle curve morbide di Libby e la mantiglia di pizzo ondeggiava dietro di lei, vaporosa e impalpabile.
    Zac sorrise notando il bouquet di roselline rosse e lei lo ricambiò. Si fermarono un attimo davanti al primo banco, dove la madre di Libby teneva in braccio Victoria, e lo sguardo di Zac indugiò con affetto sulla sua nuova figlia. Era deliziosa. In un vestitino rosso con il colletto di pizzo bianco, gli sorrideva e agitava la manina. Zac le sorrise, poi si voltò per prendere la mano di Libby.
    Lei gli sfiorò un piede con il suo, attirandone lo sguardo. Per poco Zac non lanciò un'esclamazione: dall'orlo del vestito spuntavano dei sandali bianchi, che lasciavano scoperte le unghie perfette, laccate di rosso.
    La cerimonia parve finire in un lampo; Zac non notò nulla tranne Libby. Era cosciente di ogni suo minimo gesto, di ogni suo respiro, e alla fine si rese conto che era sua per sempre. La prese tra le braccia e in quel momento Victoria lo chiamò.
    «Pa...»
    Si interruppe un attimo, sollevò le manine e finì la parola.
    «Papà.»
    Con gli occhi pieni di lacrime, Zac si avviò verso l'uscita con la bella moglie da una parte e la figlia in braccio dall'altra.

    FINE





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